9. PSICOLOGIA SENSIBILE AL GENERE
9.1 PSICOTERAPIA SENSIBILE AL GENERE
Alcuni autori (Brooks & Good, 2001; Giusti & Fusco, 2002; Danforth & Wester, 2014) hanno ipotizzato che si possa tenere un atteggiamento “sensibile al genere” durante le sedute di terapia.
Secondo questi autori, si deve innanzitutto tenere di conto delle differenze di atteggiamento nei confronti della terapia da parte dei pazienti maschili e delle pazienti femminili. Le donne, come ormai risaputo, tendono a cercare maggiormente aiuto, rispetto agli uomini, soprattutto in campo di salute mentale: questo potrebbe essere dovuto al fatto che la cultura maschile rinforza l’aggressività come mezzo per risolvere i problemi e, perciò, la ricerca di aiuto psicologico da parte di un uomo sarebbe vista come un’ammissione di debolezza. Difatti, a molti uomini è insegnato ad essere indipendenti ed a tenere tutto costantemente sotto controllo
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e la ricerca di un trattamento psicologico violerebbe il ruolo di genere con cui sono cresciuti (Giusti & Fusco, 2002; Danforth & Wester, 2014).
Alcuni aspetti della cultura occidentale maschile tradizionale sembrano addirittura ricollegarsi a quella che è la mentalità militare, che valorizza la forza, la resilienza, il coraggio e il sacrificio personale di fronte alle avversità. Difatti, secondo Danforth e Wester (2014), “sia la cultura militare, che quella maschile insegnano a diffidare della ricerca di aiuto psicologico, in caso di problemi durante la vita. Cercare aiuto richiederebbe l’ammissione di una percezione di debolezza, di un’inabilità di padroneggiare la debolezza percepita e un’inabilità di resistere al dolore associato, che sarebbe una violazione sia della cultura maschile che di quella militare.”
La violenza e l’aggressività sembrano, invece, essere rinforzate continuamente. Basti pensare ai molti sport praticati dai ragazzi, a cominciare dai campi di calcio, nei quali viene insegnato ai giovani a danneggiare gli avversari, pur di vincere ad ogni costo.
Le donne non solo cercano aiuto psicologico più di quanto facciano gli uomini, ma, durante le sedute, si aprono anche maggiormente per quanto riguarda i propri problemi mentali. Gli uomini, invece, tendono ad aprirsi maggiormente per quanto riguarda i problemi che hanno con l’alcol (Allen, et al., 1998). Questo sembra essere collegato, ma anche rinforzare, le aspettative basate sul genere, secondo le quali le donne sarebbero più predisposte ai problemi emotivi e gli uomini più predisposti ai problemi di alcolismo.
Per quanto riguarda gli uomini, O’Neil (2008), individua nella teoria del conflitto di genere (GRC) un modo per comprendere meglio il ruolo della “cultura maschile” e i suoi effetti sui comportamenti degli uomini in terapia. Secondo questa teoria, vi sarebbe un conflitto interiore dovuto al fatto che i sentimenti individuali non vengono vissuti a pieno dall’individuo, che, invece di essere se stesso, cerca di andare incontro a quella che è l’aspettativa della società nei confronti del proprio genere. In particolare, sono stati individuati da O’Neil (2008) quattro differenti modelli generali di GRC, misurati attraverso la Gender Role Conflict Scale. Il primo, successo, potere e competizione (SPC), individua il grado in cui gli uomini si sentono spinti a concentrarsi sul raggiungimento successi personali, sull’ottenere autorità e sul prevalere rispetto agli altri. Il secondo modello, emozionalità ristretta (RE), individua quanto agli uomini sia insegnata la “paura dei sentimenti”. Il terzo modello, comportamento affettivo ristretto tra uomini (RABBM), individua quanto gli uomini crescano con la difficoltà di esprimere i propri sentimenti ed emozioni con altri uomini. Il quarto, conflitto tra lavoro e
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relazioni familiari (CBWFR), individua il grado in cui gli uomini tentano di bilanciare lavoro, scuola e relazioni familiari.
Secondo vari autori (Giusti & Fusco, 2002; Danforth & Wester, 2014), il linguaggio verbale della psicoterapia esplorerebbe lo sviluppo delle relazioni, l’espressione dei sentimenti e la discussione di problemi emotivi in modi che sarebbero più vicini a quelle che sono le caratteristiche emotive ed affettive delle donne, piuttosto che a quelle degli uomini. Perciò, i terapeuti che si trovano a lavorare con uomini, dovrebbero porre maggior attenzione ai loro atteggiamenti e cercare di aggiustare il proprio linguaggio e le modalità di relazionarsi al paziente. Inoltre, vi è il rischio che si crei un conflitto tra paziente e terapeuta, nel caso in cui essi siano entrambi uomini: come già sottolineato, agli uomini viene insegnato spesso a non apparire deboli di fronte ad altri uomini (Giusti & Fusco, 2002; Danforth & Wester, 2014). Questo potrebbe esitare in una competizione tra terapeuta e paziente, con un atteggiamento riluttante da parte del paziente a parlare (o addirittura ad ammettere) dei propri problemi psicologici e una tendenza da parte del terapeuta a scusare o razionalizzare il comportamento maladattivo del paziente.
Anche le terapeute femmine devono conoscere e tenere di conto delle aspettative di genere che possono, in parte, influenzare i pazienti maschi. Infatti, la terapeuta femmina, può trovarsi ad affrontare anche un ulteriore problema con un paziente maschio: superare, assieme al paziente, quella visione del mondo che vede gli uomini occupare una posizione di potere e privilegio rispetto alle donne, a cui si collega il problema che molti uomini tendono a sessualizzare le interazioni uomo donna. Ciò potrebbe esitare in un controtransfert negativo (Giusti & Fusco, 2002; Sweet, 2006; Danforth & Wester, 2014).
L’approccio migliore con i pazienti uomini, che tendono ad avere poca fiducia nella terapia, ma che spesso non sanno neanche cosa aspettarsi da essa, sembra essere quello di accoglierli e tentare di chiarire i loro dubbi riguardo la terapia stessa. I pazienti maschi vedono spesso la psicoterapia come un processo vago e senza obiettivi precisi e tangibili. Spiegare ciò che verrà trattato, come verrà trattato, i tempi possibili della terapia, gli obiettivi da raggiungere e l’atteggiamento del terapeuta: tutto ciò contribuirà a instaurare un inizio di alleanza terapeutica, che potrà fare da base per la buona riuscita della terapia. (Giusti & Fusco, 2002; Danforth & Wester, 2014).
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Altra difficoltà con gli uomini si trova nel fatto che questi sembrano essere più sensibili alla disapprovazione del terapeuta e, quindi, vi sono più probabilità che abbandonino la terapia. Anche il linguaggio sembra svolgere un ruolo importante: comunicare con una voce “maschile” sembra portare vantaggi alla terapia nei confronti degli uomini. Ciò significa tenere di conto che gli uomini tendono ad utilizzare un linguaggio più orientato all’azione, alla soluzione di problemi e orientato agli obiettivi (Danforth & Wester, 2014).
Per quanto riguarda la relazione terapeutica, si deve tenere di conto che uomini e donne esprimono intimità in maniera differente: può risultare importante, per la costruzione del setting, il fatto che negli scambi interpersonali le donne privilegiano un’interazione faccia a faccia, mentre gli uomini si sentono maggiormente a loro agio side-by-side (Giusti & Fusco, 2002). Gli uomini hanno, inoltre, difficoltà a distinguere tra bisogni di intimità emotiva e sessuale (Brooks, 2001). Difatti, come già discusso per quanto riguarda terapeuta donna e paziente uomo, l’intimità che si crea nella relazione terapeutica è fonte di difficoltà per gli uomini. “Gli uomini eterosessuali, che sono stati educati alla socializzazione tradizionale, sono destinati a lottare intensamente contro il desiderio sessuale per la terapeuta donna e a vivere una forte paura omofobica con il terapeuta maschio. Con le terapeute donne gli uomini eterosessuali hanno grande difficoltà a controllare le paure di coinvolgimento e la tendenza a sessualizzare la relazione. Con i terapeuti maschi sono soggetti al panico omofobico quando iniziano a provare un qual che sentimento, affetto o vissuto d’intimità nei confronti dell’altro.” (Giusti & Fusco, 2002).
Giusti e Fusco (2002) sottolineano che “gli uomini sono culturalmente orientati alla risoluzione di problemi concreti che richiedono abilità specifiche”, perciò, un valido inizio di psicoterapia sensibile al genere, potrebbe essere centrato “sull’acquisizione di abilità (sociali e interpersonali, di gestione dello stress e del conflitto, di acquisizione e diversificazione del potere personale, ecc)”. Questo creerebbe una base per continuare la terapia affrontando argomenti come le dinamiche interne e interpersonali, che potrebbero risultare ostiche per i pazienti maschi. I due autori continuano ricordando che i tipi di uomo che possono avvicinarsi alla terapia sono almeno due: c’è chi giunge in terapia perché ritiene di poter svolgere un percorso di crescita e perciò arriva spontaneamente di fronte al terapeuta. Gli uomini cosiddetti tradizionali, che non sono convinti dell’efficacia della terapia, sono quelli che giungono di fronte al terapeuta solo dopo insistenze di altri, come familiari o amici stretti.
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“È bene che il terapeuta faccia una valutazione iniziale in questa direzione, in modo da prevedere le possibili strategie e modalità relazionali più efficienti in base al tipo di cliente, fermo restando che la socializzazione di genere e la gender sensitive therapy appaiono una lente di lettura e d’intervento imprescindibile per ogni uomo contemporaneo, semplicemente in quanto appartenente ai tempi e alla cultura attuali.” (Giusti & Fusco, 2002).
Vi sono differenze, tra terapeuti uomini e terapeute donne, che si avvicinano a quelli che sono gli stereotipi di genere. Cantor (1990) afferma che le terapeute, rispetto agli uomini, sono maggiormente empatiche e orientate all’accudimento, tendono ad assumersi maggiormente la responsabilità del benessere del paziente e la colpa in caso di fallimento terapeutico. Gli uomini, invece, tendono ad interrompere maggiormente il cliente e sono più inclini ad esercitare influenza, autorità e potere.
A sostegno di ciò che è stato accennato nei precedenti paragrafi, vi è la posizione di Giusti e Fusco (2002): secondo gli autori, gli uomini si sentirebbero maggiormente a loro agio a parlare dei propri problemi di fronte a una donna, poiché parlarne di fronte ad un altro uomo sarebbe fonte di umiliazione e minerebbe la virilità. Gli autori invitano, quindi a “mettersi in una posizione di solidarietà e collaborazione condivisa, piuttosto che di potere, [che] permette al terapeuta di sfidare il pensiero gerarchico dell’uomo tradizionale. Il terapeuta maschio può aiutare il cliente se si pone davanti a lui come un uomo in conflitto che condivide molte delle sue difficoltà, problemi e disagi.” Il punto fondamentale, per fare ciò, sarebbe il riconoscere l’universalità dei problemi degli uomini, di modo da accompagnare il cliente maschio verso il superamento di imbarazzo e vergogna e la creazione condivisa di un terreno su cui costruire il cambiamento. Il terapeuta maschio che riesce a porsi nei confronti del paziente partendo da accettazione delle debolezze personali e della vulnerabilità di maschio, inizia un percorso di riconoscimento e accettazione assieme al paziente di quelle che sono le ansie e paure non solo del cliente stesso, ma anche di altri uomini. Il paziente che riesce a comprendere ed accettare che le sue problematiche siano condivise anche da altri appartenenti al genere maschile, ha già compiuto importanti passi nella direzione del cambiamento.
Perciò, ciò che risulta fondamentale al fine di creare una terapia efficace assieme al paziente, non è il sesso del terapeuta in sé, ma ciò che è rappresentato dai valori e gli atteggiamenti di
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