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Verso una psicologia genere specifica

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA' DI PISA

Corso di Laurea Magistrale in

Psicologia Clinica e della Salute

Tesi di Laurea

Verso una psicologia genere specifica

Relatore

Prof.ssa Lucia Migliore

Candidato

Francesco Peroni

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SOMMARIO

1. RIASSUNTO ANALITICO ... 4

2. ABSTRACT ... 5

PARTE PRIMA Medicina di genere ed epigenetica ... 6

3. MEDICINA DI GENERE: DEFINIZIONI E PROBLEMATICHE ... 7

3.1 GENERE, SESSO E MEDICINA DI GENERE ... 7

3.2 MEDICINA DI GENERE: LA SITUAZIONE IN ITALIA ... 10

3.3 ESISTE UNA MEDICINA DI GENERE? ... 14

4. EPIGENETICA: CONCETTI BASE ... 16

4.1 COS’ È L’EPIGENETICA ... 16

4.2 MECCANISMI EPIGENETICI... 17

4.2.1 MECCANISMI EPIGENETICI E GENERE ... 20

4.3 TRA GENETICA E AMBIENTE ... 21

PARTE SECONDAVerso una psicologia genere specifica ... 26

5. DIFFERENZE CEREBRALI DI GENERE ... 27

5.1 DIFFERENZE BIOLOGICHE ... 27

5.1.1 NEUROANATOMIA ... 27

5.1.2 NEUROCHIMICA ... 30

5.2 DIFFERENZE COGNITIVO-COMPORTAMENTALI ... 36

5.2.1 IDENTITA’ DI GENERE E FATTORI PSICOSOCIALI ... 37

5.2.2 RISPOSTA ALLO STRESS ... 38

5.2.3 ABILITA’ VERBALI E VISUOSPAZIALI ... 38

5.2.4 EMPATIA E SISTEMATIZAZZIONE ... 39

6. SEX RATIO IN PSICOPATOLOGIA ... 42

6.1 DOLORE CRONICO ... 42

6.1.1 DOLORE CRONICO ED EPIGENETICA ... 43

6.2 PATOLOGIE STRESS CORRELATE ... 44

6.2.1 STRESS ED EPIGENETICA ... 45

6.3 DISTURBI NEUROLOGICI E NEURODEGENERATIVI ... 46

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3

6.3.2 MALATTIA DI ALZHEIMER E ALTRE DEMENZE ... 47

6.3.3 DISTURBI NEUROLOGICI, NEURODEGENERATIVI ED EPIGENETICA ... 48

6.4 DIPENDENZE ... 50

6.4.1 DIPENDENZA DA SOSTANZE ED EPIGENETICA ... 51

6.5 AUTISMO ... 52 6.5.1 AUTISMO ED EPIGENETICA ... 53 6.6 DEPRESSIONE ... 54 6.6.1 DEPRESSIONE ED EPIGENETICA ... 55 6.7 ANSIA ... 57 6.7.1 ANSIA ED EPIGENETICA ... 57 6.8 ADHD ... 58 6.8.1 ADHD ED EPIGENETICA ... 59 7. PSICOFARMACOLOGIA E GENERE ... 61 8. PSICOLOGIA E GENERE ... 65

8.1 LA SOGGETTIVITA’ DEL PAZIENTE ... 65

8.2 SEX RATIO TRA GLI PSICOLOGI ... 66

9. PSICOLOGIA SENSIBILE AL GENERE ... 71

9.1 PSICOTERAPIA SENSIBILE AL GENERE ... 72

10. CONCLUSIONI ... 78

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1. RIASSUNTO ANALITICO

Questo elaborato parte dal presupposto che l’approccio genere-specifico sia

ormai uno dei campi maggiormente in crescita, non solo per quanto riguarda la

medicina, ma per le varie discipline che si occupano di salute.

Dopo la discussione sugli sviluppi recenti della medicina genere-specifica (alla

quale si collegano i meccanismi epigenetici, dei quali è qui presente una

panoramica), si cercano di individuare le possibilità dello sviluppo di un

approccio genere-specifico anche tra le fila della psicologia, cercando di

analizzare i vari aspetti di questa disciplina. Si discutono, poi, le differenze di

genere a livello biologico, neuroanatomico, neurochimico del sistema nervoso

centrale e le ripercussioni di queste differenze sul comportamento e sulla

cognizione. Si trattano, in seguito, le differenze nel sex ratio in psicopatologia,

per poi analizzarle alla luce dei meccanismi epigenetici. Anche per quanto

riguarda la psicofarmacologia, si discutono le possibilità di un approccio

genere-specifico alla somministrazione e prescrizione di farmaci.

Si pone, inoltre, attenzione alle soggettività che interagiscono durante i

trattamenti psicologici: il paziente, il quale porta con sé le proprie credenze e

aspettative (collegate al genere ed al contesto sociale), ma anche lo psicologo, il

quale, a sua volta, porta con sé il proprio bagaglio culturale e sociale. Infine, si

discute la possibilità di portare avanti un approccio genere-specifico anche

all’interno dei trattamenti e delle terapie psicologiche, nella speranza che un

trattamento (o terapia) costruito maggiormente attorno alla soggettività del

paziente sia sempre più vicino.

Parole chiave: psicologia; approccio genere-specifico; meccanismi epigenetici; alterazione

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2. ABSTRACT

This work starts from the idea that the gender-specific approach is today one of

the most growing-up fields for the various health-related disciplines and not only

for the medical ones.

The thesis is about the recent progresses of the gender-specific medicine (also in

relation to epigenetic mechanisms, which are overviewed here) and then we

analyze various aspects of psychology, trying to individuate the possibility of a

psychology gender-specific approach. The gender-related biological,

neuroanatomical, neurochemical differences in central nervous system and their

impact on behavior and cognition are discussed. Altered sex ratios in

psychopathology are identified. We analyze them in the light of epigenetic

mechanisms.

We also take into account psychopharmacology and the possibilities of a

gender-specific approach to the administration and prescription of drugs.

Then the light is put on the interacting subjectivities in the psychological

treatments, on the patient and his beliefs and expectations (also gender and

society related) but also on the psychologist with his own background. The

possibility of pursuing a gender-specific approach in psychological treatments

and therapies is therefore discussed, hoping that a built-around-patient treatment

or therapy is getting closer.

Key words: psychology; gender-specific approach; epigenetic mechanisms; altered

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PARTE PRIMA

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3. MEDICINA DI GENERE: DEFINIZIONI E PROBLEMATICHE

3.1 GENERE, SESSO E MEDICINA DI GENERE

Sesso e genere sono due termini spesso utilizzati in maniera erronea o l’uno al posto dell’altro: questo errore non soltanto coinvolge i mezzi di comunicazione, ma spesso si ritrova anche all’interno della letteratura scientifica.

Sul primo termine, sesso (sex), vi è stata, quantomeno in passato, una più ampia condivisione: viene utilizzato per classificare gli esseri viventi, generalmente come maschio o femmina, secondo i loro organi riproduttivi e relative funzioni assegnate dal corredo cromosomico (XX per le femmine e XY per i maschi) ed è quindi un concetto prettamente biologico. Sembra però che il sesso, considerato da sempre una variabile dicotomica, si muova invece lungo un continuum, così come il genere (per la definizione si veda oltre). Le differenze biologiche possono essere modificate dal genere e viceversa: vi sarebbero quindi interazioni complesse tra sesso e genere. L’epigenetica ha infatti mostrato che l’ambiente agisce sui geni in maniera sesso specifica: la società sembra quindi modificare il corpo biologico e ciò fa venire meno quel confine che sembrava così netto tra sesso e genere, che sono sì in interazione, ma devono essere comunque considerati concetti distinti.

La definizione di genere ha avuto una storia ancora più complessa. Fondamentale è stato il contributo di John Money negli anni Cinquanta del secolo scorso, il quale ha introdotto nella letteratura scientifica il termine gender, da lui inteso come ruolo di genere, identità di genere e orientamento sessuale, concetti che oggi sono tenuti distinti. La sociologia, durante gli anni Settanta dei movimenti femministi, ha considerato il genere prettamente un “ruolo sociale”, condizionato dal contesto e dalle norme e che attribuisce al soggetto un minore o maggior valore sociale: sessismo, patriarcato ed androcentrismo derivano da pregiudizi e discriminazioni basati sugli status sociali attribuiti, secondo la teoria dei ruoli sociali sessuali e di genere.

Una definizione più recente di genere è quella di Miller (2014): “il termine genere si riferisce a fattori sociali e culturali relativi all’essere un uomo o una donna in un determinato contesto storico e culturale”. Si può quindi affermare che il genere è modellato dall’ambiente (in

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maniera maggiore di quanto lo sia epigeneticamente il sesso) ed è appreso anche in relazione alle proprie esperienze personali e sociali: ciò che può essere considerato un comportamento mascolino in una cultura, in un’altra potrebbe essere considerato neutro o addirittura femminile.

Il genere non è mai stato considerato, a differenza del sesso, una variabile dicotomica: esso definisce caratteristiche comportamentali, psicologiche e culturali che sono espresse lungo un continuum e che sono soggette a continui rinforzi sociali. A differenza del sesso, definito, come detto sopra, principalmente sulla base della struttura biologica della persona (che può però essere modificata epigeneticamente dall’ambiente), il genere è definito sulla base della rappresentazione che la persona ha di se stessa.

Un passo importante è stato compiuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che ha riconosciuto nel 2008 il genere come determinante di salute e malattia, aprendo di fatto le porte alla medicina di genere. Il gesto non ha purtroppo portato immediati risultati e la comunità scientifica si trova ancora oggi di fronte ad una grande lacuna da colmare.

“La medicina di genere si occupa delle differenze biologiche e socioculturali tra uomini e donne e della loro influenza sullo stato di salute e di malattia (Lorenzin, 2016)”. Negli ultimi anni l’interesse per questa disciplina è aumentato esponenzialmente e alcuni suoi aspetti fondamentali, spesso fraintesi, sono stati chiariti: medicina di genere non vuol dire solamente individuare quelle patologie più frequenti nell’uomo o nella donna, ma significa fare un ulteriore passo verso una medicina (e, auspicabilmente, una psicologia) costruita attorno alla soggettività del paziente.

Differenziare e personalizzare la diagnosi, il trattamento, ma anche la prevenzione di una patologia: questo è ciò che si propone la medicina di genere.

L’impellenza di portare avanti studi e ricerche relativi a questo campo è dimostrata da quella grande lacuna di cui sopra, che deve essere ancora del tutto colmata: la medicina ha difatti sempre avuto un’impostazione androcentrica, ma le cose stanno in parte cambiando.

Nella “Dichiarazione e programma di azione adottati dalla quarta Conferenza Mondiale sulle Donne: azione per la uguaglianza, lo sviluppo e la pace” (Pechino, 4-15 settembre 1995), tenuta dall’Organizzazione delle Nazioni Unite e sottoscritta dall’Italia, si afferma che “molte terapie farmacologiche e altri trattamenti e interventi medici somministrati alle donne si

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basano su ricerche condotte su uomini e senza alcuno studio o adattamento in base al sesso del paziente”.

La Conferenza di Pechino ha segnato un punto di svolta per l’agenda globale sull’uguaglianza di genere, grazie anche alle basi poste dalle precedenti tre conferenze mondiali. La prima conferenza si è tenuta a Città del Messico nel 1975 ed ha definito un piano mondiale di azione per l’implementazione degli obiettivi dell’anno internazionale delle donne, offrendo una serie di prime linee guida per il progresso della parità di genere fino al 1985, anno in cui a Nairobi si è tenuta la terza Conferenza mondiale per rivedere e valutare i risultati del decennio delle donne. Il mandato della conferenza era di stabilire misure concrete per superare gli ostacoli al raggiungimento degli obiettivi del Decennio. I governi hanno adottato le strategie lungimiranti di Nairobi per l'avanzamento delle donne, delineando misure per il raggiungimento dell'uguaglianza di genere a livello nazionale e per promuovere la partecipazione delle donne alla pace e agli sforzi di sviluppo. Dieci anni più tardi si è svolta la Conferenza di Pechino.

Tra gli obiettivi strategici della Dichiarazione di Pechino, assumono particolare rilievo l’obiettivo strategico C.4: “promuovere la ricerca e diffondere informazioni sulla salute delle donne” e C.5: “incrementare le risorse e verificare gli sviluppi successivi per la salute delle donne”. All’interno del primo (C.4), le iniziative da assumere sono molteplici: parità di sesso tra le posizioni di responsabilità nelle professioni della salute, introdurre linee guida che permettano l’utilizzo di dati raccolti, analizzati e separati sulla base di sesso, età, razza, origine etnica e altre variabili socioeconomiche, sostenere e finanziarie la ricerca sociale, economica, politica e culturale su come le disuguaglianze tra i sessi influenzino la salute delle donne. Tra le principali iniziative da assumere all’interno del C.5 troviamo lo stanziamento di investimenti per il servizio sanitario e sociale e la promozione di una partecipazione e una iniziativa comunitaria basata sulla consapevolezza dei problemi specifici delle donne.

Le conferenze mondiali svoltesi dopo il 1995 hanno posto l’accento sull’importanza dell’attuazione di ciò che è stato deliberato nella Dichiarazione e piattaforma d'azione di Pechino per raggiungere gli obiettivi di sviluppo concordati a livello internazionale, compresi possibili obiettivi futuri.

La crescente attenzione riguardo i temi della parità e della medicina di genere è testimoniata anche dall’analisi di Annandale e Hunt (2000), nella quale viene individuato un percorso

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storico nell’evoluzione dei metodi di ricerca biomedica, suddiviso dalle autrici in tre fasi. Durante la fase tradizionale, che prosegue fino agli anni Novanta del secolo scorso, il mondo scientifico ha utilizzato principalmente campioni maschili, con la convinzione di poter estrapolare da queste ricerche dati universalizzabili a uomini e donne. Sono stati inoltre effettuati esigui numeri di studi con campioni esclusivamente femminili, quasi in maniera riparativa, ma cadendo nello stesso errore di estrapolarvi dati da universalizzare.

A questa fase è seguita quella transizionale, tra gli ultimi anni Novanta e i primi Duemila, durante la quale si è assistito a un’individuazione sempre maggiore di diseguaglianze trasversali di genere, enfatizzando i diversi assi di disuguaglianza e sottolineando i significati che le persone attribuiscono ai ruoli e allo status sociale.

La fase emergente, nella quale ci troviamo adesso, sta portando cambiamenti nei paradigmi di ricerca, con l’utilizzo di campioni comparativi tra uomini e donne, ma anche una maggior attenzione alla differenza tra il sesso ed il genere, intendendo quest’ultimo come determinante fondamentale di salute costruito socialmente, così come è stato definito anche dall’OMS nel 2008. La stessa OMS che, all’interno della sua “Roadmap for Action (integrating equity, human rights, gender and social determinants) 2014-2019” individua tre direzioni principali da seguire a livello internazionale: fornire indicazioni sull'integrazione di approcci sostenibili, che promuovono l'equità della salute, promuovono e proteggono i diritti umani, rispondono in base al genere e affrontano i determinanti sociali, questo sia nei programmi e nei meccanismi istituzionali dell'OMS (prima direzione), sia a livello delle singole nazioni (terza direzione) e promuovere l'analisi di dati disaggregati (per età, sesso, luogo di residenza e ricchezza) e il monitoraggio della disuguaglianza sanitaria (seconda direzione).

3.2 MEDICINA DI GENERE: LA SITUAZIONE IN ITALIA

In Italia, questa disciplina sta attraversando un momento molto importate, sia a livello politico che clinico. Il cambiamento è cominciato nel 1998, con una maggiore impennata a partire dal 2008.

Guardando più nel dettaglio questi cambiamenti, nel 1998 vi è stato l’avvio del progetto “Una salute a misura di donna” da parte delle Ministre per le Pari Opportunità e della Salute, con un Report che evidenziava mancanza di attenzione, risposte inadeguate, carenze trasversali, sottovalutazioni dei problemi delle donne in tutti i settori osservati. Del 2005 è invece

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l’organizzazione, da parte dell’allora Ministro della Salute, di un tavolo tecnico che vede la partecipazione dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), dell’Agenzia Servizi Regionali Sanitari (AgeNaS), dell’Università di Sassari e della Società Italiana di Farmacologia (SIF), con l’obiettivo di formulare linee guida sulle sperimentazioni cliniche e farmacologiche con un approccio di genere. Nel 2007 vi è la nascita della Commissione Salute delle Donne del Ministero della Salute.

L’anno più importante, come già detto, è stato il 2008, durante il quale sono state poste le basi per la fase di sviluppo a cui stiamo assistendo. Del 2008 è il Terzo Seminario nazionale sulla salute della donna, organizzato dall’Istituto Superiore di Sanità e dalla Società Italiana di Farmacologia, che ospita la Tavola rotonda “La medicina di genere, un’occasione da non perdere”; viene pubblicato il rapporto dal titolo “La Sperimentazione Farmacologica sulle Donne” dal Comitato Nazionale per la Bioetica. Inoltre, parte il Progetto “La medicina di genere come Obiettivo strategico per la Sanità pubblica: l‘appropriatezza della cura per la tutela della salute della donna”.

Nel 2009 Giovannella Baggio, Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Medicina Generale dell’Azienda Ospedaliera di Padova e Presidente dell’appena sorto Centro studi nazionale su salute e medicina di genere organizza il primo Congresso Nazionale sulla Medicina di Genere, a Padova.

Nel 2011 l’Istituto Superiore di Sanità nel 2011 affida a Walter Malorni la dirigenza del Reparto Malattie degenerative, Invecchiamento e Medicina di genere che ha come obiettivi un approccio di genere nello studio delle principali patologie per una ottimizzazione della diagnosi e della cura, nonché lo studio delle differenze di genere nelle malattie cardiovascolari, immunitarie, degenerative e tumorali. Dal 2015 il Regolamento dell’Istituto prevede l’istituzione di uno specifico “Centro nazionale di riferimento per la medicina di genere”. Ancora nel 2011 la Commissione di Valutazione degli Accordi di Programma dell’AIFA, introduce “l’equità di genere” tra i criteri di valutazione e formalizza il “Gruppo di Lavoro su farmaci e genere” per approfondire le problematiche inerenti agli aspetti regolatori e farmacologici della medicina di genere; nel 2013 AIFA sollecita le Aziende farmaceutiche a elaborare dati disaggregati per sesso e disegni di ricerca orientati al genere. Inoltre, da alcuni anni si ritrova una relazione sulla medicina di genere in quasi tutti i convegni delle varie specialità mediche e in molte reti cliniche sono istituite commissione per l’approfondimento dell’influenza del sesso e del genere nelle varie patologie. Si assiste poi,

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negli ultimi anni, alla nascita di associazioni importanti come il GISeG – gruppo italiano salute e genere.

La medicina di genere è entrata anche nella formazione universitaria: il Decreto del Ministero dell’Università e della Ricerca del 4 ottobre 2000 pone la prospettiva gender sensitive tra gli obiettivi formativi in sei classi di corso di laurea triennale su ventisei e in undici classi di laurea magistrale su cinquantadue.

Vengono inoltre avviati alcuni insegnamenti specifici: dall’a.a. 2013-2014 la Cattedra di Medicina di genere all’Università di Padova, dall’a.a. 2014-2015 all’università di Siena e dall’anno successivo a Ferrara. Sono stati attivati in questi anni Centri Universitari di ricerca sul genere, anche declinati alla salute e alla sanità.

Sono state inoltre presentate, negli ultimi anni, mozioni, decreti e proposte di legge.

L’aula di Montecitorio ha approvato, il 27 marzo 2012, la mozione unitaria sulla medicina di genere, presentata da tutti i partiti politici. La successiva proposta di legge “norme in materia di medicina di genere - atto camera: 148” mirava ad inserire la medicina di genere fra gli obiettivi del piano sanitario nazionale, dando concreta attuazione alla mozione approvata dalla camera nel marzo 2012 e diffondendo una corretta informazione sulle diversità di genere, con redazione di specifiche linee guida.

Il fatto che nessuna delle Mozioni e Proposte di legge abbia concluso l’iter parlamentare sarebbe dovuto, secondo Signani (2015), ai testi che si dilungano eccessivamente nella descrizione biomedica e sull’esposizione di dati, con l’esplicito intento di voler convincere della positività della medicina di genere. L’autrice suggerisce di porre maggiore attenzione, nella redazione di tali testi, da un lato, alle posizioni degli organismi regolatori internazionali che già confermano la validazione scientifica della medicina di genere e, dall’altro, all’attribuzione di ruoli ai diversi possibili protagonisti. Ciò potrebbe portare questi testi di fondamentale importanza per lo sviluppo futuro della disciplina ad uscire dalla fase dell’enunciazione, con vantaggi importanti, come sottolinea la presidente della Commissione Igiene e Sanità del Senato, Emilia Grazia De Biasi, che vede la medicina di genere come strumento di sostenibilità del SSN, con riduzione del livello di errore nella pratica medica, promozione dell’appropriatezza terapeutica, ma anche risparmi per il servizio sanitario nazionale.

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Anche a livello regionale, vi sono stati molti sviluppi recenti riguardo la medicina di genere. Essa è stata inserita nel piano sanitario regionale di varie regioni e, tra esse, spicca la Toscana, che ha posto la medicina di genere tra le proprie priorità nel campo della salute.

Stefania Saccardi (assessora alle politiche sociali, allo sport e alla sanità della Regione Toscana), parla delle importanti iniziative promosse dalla Regione Toscana in un’intervista con Mariapaola Salmi: “La Regione ha istituito, all’interno del Consiglio Sanitario Regionale, organo tecnico scientifico dell’Assessorato al diritto alla salute, al welfare e all’integrazione socio-sanitaria, una Commissione permanente per le problematiche della medicina di genere, che ha lavorato per gruppi tematici: dalla ricerca e sperimentazione farmacologica, alle patologie cardiovascolari e dismetaboliche; dai determinanti di salute alla medicina preventiva fino alla sicurezza sul lavoro; dalla identificazione di indicatori di equità di genere alla organizzazione dei servizi, fino alla progettazione delle strutture sanitarie in un’ottica di genere.

La stessa commissione ha contribuito a inserire nel Piano socio-sanitario integrato regionale 2012-2015 uno specifico paragrafo “Salute e medicina di genere”, ed ha promosso, in collaborazione con l’Agenzia regionale di sanità, il primo report “La Salute di genere in Toscana”. Ha posto la salute e la medicina di genere tra le sette azioni prioritarie dell’Assessorato; a febbraio 2014 è stato istituito il Centro di coordinamento regionale per la salute e medicina di genere.

Su tutto il territorio regionale sono stati istituiti, con deliberazioni aziendali, 12 Centri aziendali di coordinamento della Salute e medicina di genere, quattro Centri delle Aziende ospedaliero-universitarie e quello della Fondazione Monasterio. Praticamente oltre 250 professionisti, tra cui medici, infermieri, psicologi, farmacisti, assistenti sociali, ecc. con gli ordini professionali, le associazioni di categoria, del volontariato, dei cittadini promuovono cultura di genere in tutte le attività che coinvolgono il Sistema Sanitario Regionale.

Il Centro regionale di fatto svolge una funzione di raccordo e coordinamento delle azioni e iniziative poste in essere dai Centri di coordinamento territoriale, svolge promozione di percorsi di presa in carico della persona, che tengano conto della differenza di genere per una maggiore appropriatezza e personalizzazione della terapia, definisce percorsi di sensibilizzazione e formazione degli operatori sanitari verso il determinante genere al fine di garantire equità di approccio diagnostico valutativo e terapeutico.

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L’obiettivo deve essere quello di una medicina basata sull’evidenza e personalizzata sul genere così da assicurare maggiore adeguatezza e appropriatezza delle cure, con conseguente riduzione degli aggravi al Sistema Sanitario nazionale e regionale.”

Anche l’Università di Pisa è annoverabile tra le realtà più attive ed interessate alla medicina di genere: è stata, infatti, tra i partner del TRIGGER Project (TRansforming Institutions by Gendering contents and Gaining Equality in Research). Questo progetto internazionale ha mirato a promuovere interventi sistemici progettati per avere impatti profondi, duraturi e diffusi a diversi livelli in 5 organizzazioni di ricerca. Il progetto, finanziato dall’UE, coadiuvato da un istituto specializzato in genere e scienza (ASDO, Assemblea delle Donne per lo Sviluppo e la Lotta all’Esclusione Sociale), ha coinvolto cinque università di diversi paesi dell'Unione Europea (Repubblica Ceca, Francia, Italia, Regno Unito, Spagna).

Un aspetto chiave del progetto TRIGGER ha riguardato l'introduzione di una prospettiva di genere nel settore dell'assistenza sanitaria, un argomento che negli ultimi anni ha raggiunto la portata globale.

3.3 ESISTE UNA MEDICINA DI GENERE?

“La Medicina di genere non esiste. Esiste, invece, solo la Medicina genere-specifica. Poiché nel momento in cui si insegna o si pratica una medicina a misura di uomo e di donna non vi può essere una via separata dal resto della medicina.” così Giovannella Baggio (Cattedra di Medicina di Genere, Università di Padova), il cui contributo è considerato, assieme a quello di Flavia Franconi, fondamentale per la diffusione culturale della medicina di genere, in Italia e non solo.

Secondo l’autrice, la medicina di genere non può e non deve essere insegnata in maniera parallela, o addirittura alternativa. Bensì la medicina tutta dovrebbe essere insegnata, quindi anche praticata, in modo genere-specifico, in ogni sua singola specialità.

“La medicina di genere non deve essere il femminismo della medicina. Abbiamo creato una rete che interagisce per progettare insieme, ottimizzare la prevenzione e la terapia delle malattie. nelle malattie ad alta incidenza quali il diabete e le malattie cardiovascolari abbiamo raggiunto conoscenze che permettono percorsi differenziati. Anche la diagnostica fra uomini e donne può essere diversa” continua G. Baggio.

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E conclude dicendo che “il termine medicina di genere sembra riferirsi a una medicina parallela, è fuorviante e va evitato. Noi tutti dobbiamo fondare e mettere in pratica una medicina genere-specifica.”

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4. EPIGENETICA: CONCETTI BASE

4.1 COS’ È L’EPIGENETICA

Il termine epigenetica, ad oggi, viene utilizzato per descrivere quelle modificazioni ereditabili che variano l’espressione genica pur non alterando la sequenza del DNA, ovvero quei cambiamenti che influenzano il fenotipo senza alterare il genotipo.

Il merito di avere coniato, nel 1942, il termine epigenetica, viene attribuito a Conrad Hal Waddington (1905-1975), biologo inglese autore di fondamentali ricerche nel campo dell'embriologia sperimentale, in particolare sui fenomeni di induzione embrionale.

Il suo nome rimane legato al concetto di "canalizzazione embrionale" secondo cui una mutazione puntiforme nelle fasi precoci dello sviluppo può "canalizzare" lo sviluppo morfogenetico in diverse direzioni, a seconda dei vincoli a cui l'organismo stesso è sottoposto. Celebre è il suo “developmental landscape”, che rappresenta, in maniera molto intuitiva, le possibili vie evolutive cui l’organismo può andare incontro: l’organismo è rappresentato come una pallina che andrà verso il suo sviluppo in base al percorso che imboccherà, all’interno di una stessa vallata (fig.1). L’embrione difatti, secondo Waddington, si auto-organizzerebbe e sarebbe in grado di rispondere attivamente ai segnali provenienti dall'ambiente. Egli giunse a questa conclusione dagli studi che effettuò sullo sviluppo dei moscerini della frutta: vide che gli embrioni potevano essere spinti a mostrare diverse strutture del torace e delle ali, semplicemente cambiando la temperatura ambientale o mediante uno stimolo chimico. Nel suo diagramma di paesaggio, questo potrebbe essere rappresentato come una piccola manipolazione della pendenza che dovrebbe portare a preferire un canale rispetto a un altro, in modo che l'adulto possa mostrare un fenotipo diverso a partire dallo stesso genotipo. Il passo successivo fu selezionare quei moscerini che esprimevano la nuova caratteristica. Esposti allo stesso stimolo ambientale, questi hanno dato origine a una progenie con una percentuale ancora maggiore di adulti che mostrano la caratteristica in questione. Dopo un numero relativamente piccolo di generazioni, scoprì che essi si riproducevano ottenendo una prole con la nuova caratteristica anche senza applicare lo stimolo ambientale. La caratteristica era quindi diventata “bloccata” nella genetica dell'animale. Waddington dimostrò, quindi, che

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una caratteristica acquisita poteva prima essere ereditata come quella che ora chiameremmo eredità "soft" e che poteva poi essere assimilata e diventare un'eredità genetica "forte". Questa ereditarietà “soft” è l'ereditarietà epigenetica e oggi conosciamo molti più meccanismi mediante i quali lo stesso genoma può essere controllato per produrre diversi effetti epigenetici.

Figura 1 Developmental landscape di Waddington (da Noble, 2015)

"La differenza fra genetica ed epigenetica può essere paragonata alla differenza che passa fra leggere e scrivere un libro. Una volta scritto il libro, il testo (i geni o le informazioni memorizzate nel DNA) sarà identico in tutte le copie distribuite al pubblico. Ogni lettore potrà tuttavia interpretare la trama in modo leggermente diverso, provare emozioni diverse e attendersi sviluppi diversi man mano che affronta i vari capitoli. Analogamente, l'epigenetica permette interpretazioni diverse di un modello fisso (il libro o il codice genetico) e può dare luogo a diverse letture, a seconda delle condizioni variabili con cui il modello viene interrogato" (Thomas Jenuwein inDavis, 2018).

4.2 MECCANISMI EPIGENETICI

I principali meccanismi epigenetici alla base della regolazione dell’espressione genica sono: la metilazione del DNA, il rimodellamento della cromatina (strettamente collegato alla metilazione e alla modificazione delle code istoniche), le modificazioni delle code istoniche e interventi dovuti agli RNA non codificanti (ncRNA, non-coding RNA). Questi meccanismi

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possono fornire il collegamento tra fattori ambientali e cambiamenti fenotipici durante l'intero ciclo di vita di un organismo.

La metilazione del DNA è un meccanismo di modificazione del genoma da parte degli enzimi DNA metiltransferasi, che, introducendo il gruppo metilico CH3, portano a una repressione della trascrizione senza modifica della sequenza dei geni. Nei vertebrati e nei mammiferi viene metilata solamente la citosina che si trova adiacente ad una guanosina, ovvero il dinucleotide CpG, la cui principale funzione è collegata all’inattivazione dell’espressione genica (fig. 2). Questo principalmente grazie alle methyl-binding proteins (proteine MBD), che riconoscono specificamente i dinucleotidi CpG metilati, vi si legano reclutando sul DNA una serie di attività enzimatiche che portano alla chiusura della struttura della cromatina, impedendone l’accesso ai fattori di trascrizione. Durante la fecondazione, i pattern della metilazione del DNA dell’ovocita e dello spermatozoo sono cancellati e si crea de novo una linea specifica di pattern di metilazione: ogni gene acquisisce un pattern di metilazione specifico.

Figura 2 Metilazione del DNA (da Migliore, 2016)

Struttura fondamentale del DNA è la cromatina, la cui unità di base è il nucleosoma, complesso di proteine basiche (istoni), attorno alle quali sono avvolte le circa 147 paia di basi. Ogni nucleosoma contiene 2 copie di 2 istoni, mentre gli altri 2 istoni sono presenti in singola copia. Questa configurazione viene chiamata “a collana di perle”. Posso esserci diversi tipi di modificazioni delle code istoniche: acetilazione, fosforilazione, metilazione, che possono portare ad uno sviluppo dinamico della cromatina, condensandola e decondensandola, di modo da disattivare o attivare la trascrizione (fig. 3). Secondo recenti studi, potrebbe esistere

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un’ereditabilità della struttura della cromatina (Margueron and Reinberg, 2010; Xu et al., 2011).

Figura 3 Modificazione code istoniche (da Migliore, 2016)

Gli studi riguardanti gli RNA non codificanti (inclusi i microRNA o miRNA), rappresentano uno degli sviluppi più recenti dell’epigenetica. I miRNA agiscono selezionando specifiche sequenze bersaglio dei mRNA per poi portare ad una repressione della traduzione o una degradazione dei mRNA stessi (fig. 4).

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Ci sono alcune evidenze riguardanti meccanismi di interazione tra i microRNA e la metilazione del DNA e la modificazione delle code istoniche: sembra che la metilazione del DNA e la modificazione delle code istoniche possano regolare la trascrizione di miRNA. Inoltre, alterazioni dei miRNA indotte da cambiamenti nella metilazione del DNA, sono state riscontrate in cellule cancerose.

4.2.1 MECCANISMI EPIGENETICI E GENERE

Durante il periodo precoce dello sviluppo embrionale, vi sono due meccanismi epigenetici regolatori che entrano in gioco nelle differenze di genere: l’imprinting genomico e l’inattivazione del cromosoma X nelle femmine.

L’imprinting genomico è un processo che porta all’espressione monoallelica di un sottogruppo di geni, in maniera dipendente dal genitore di origine. Questi geni sono localizzati in specifiche regioni, chiamate regione a differente metilazione (DMR), in cui gli alleli materni e paterni sono protetti dalla metilazione che si verifica a seguito della fecondazione: in questo modo il genitore di origine fornisce una propria firma epigenetica. Questi geni svolgono un ruolo significativo nello sviluppo del feto e, in particolare, sembra che i geni ereditati dalla madre tendano a ridurre la crescita del feto, mentre quelli ereditati dal padre tendano a promuovere lo sviluppo fetale. È da ricordare che una perdita di imprinting di alcune specifiche DMR può portare a disturbi come le sindromi di Silver-Russell, Angelman, Prader-Willi e Beckwith-Wiedemann.

Sembra, inoltre, che i geni imprinted abbiano un ruolo anche nello sviluppo postnatale, con effetti su salute e suscettibilità di malattia in tutto l’arco di vita (Migliore & Nicolì, 2018, in press).

Sempre in questo periodo precoce, si ha l’inattivazione di un cromosoma X all’interno delle cellule degli embrioni delle femmine di mammifero: viene stabilito, in ogni cellula, quale dei due cromosomi X (paterno o materno) si inattiverà, portando, quindi, all’espressione di una sola delle copie dei geni X-linked. Questo fondamentale meccanismo permette di compensare, tra i due sessi, il livello dell’espressione dei geni legati al cromosoma X. La

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scelta di quale dei due cromosomi X inattivare, è del tutto casuale, con una probabilità 50:50 di inattivazione del cromosoma paterno o materno. Questo pattern di inattivazione permarrà, clonalmente, quindi per divisione mitotica, in tutte le cellule che ne deriveranno. Può accadere, però, che vi sia una deviazione da questa percentuale, un’inattivazione, quindi, non casuale dell’X. Inoltre, succede spesso che vi sia un’inattivazione incompleta di uno dei due cromosomi e oltre il 15% dei geni X-linked sono espressi sia dall’X attivo che dall’X inattivo. Questi geni che sfuggono all’inattivazione sembrano avere un ruolo in varie patologie (Migliore & Nicolì, 2018, in press).

Studi condotti da Wong et al. (2011), suggerirebbero, inoltre, che questa inattivazione non resti invariata nel corso della vita delle cellule una volta che è stata stabilita a livello embrionale, come invece si riteneva fino a pochi anni fa. Gli autori hanno esaminato i profili di inattivazione del cromosoma X (XCI) in coppie di gemelli omozigoti e dizigoti, a 5 anni e a 10 anni. Emerge che, tra i gemelli monozigoti (con stesso genoma), è presente inattivazione non casuale dell’X in maniera maggiore nel gruppo di gemelli di 10 anni. Questo dimostra che l’XCI aumenterebbe con l’età: pian piano che le cellule si continuano a dividere, vi sarebbe un aumento delle percentuali di inattivazione (non casuale) di un cromosoma X rispetto all’altro.

Questa ricerca può gettare più luce sulla comprensione delle differenze nel sex ratio delle malattie, specialmente in quelle complesse.

Va inoltre ricordato che un’anormale aumento o perdita della metilazione del DNA è stata indicata come uno dei principali meccanismi alla base della trascrizione alterata dei geni che ritroviamo in condizioni patologiche come il cancro.

4.3 TRA GENETICA E AMBIENTE

È interessante notare che alcuni fattori ambientali possono influenzare l'espressione di geni all'interno di una cellula senza mutazioni al genoma, ma attraverso la modifica di marcature epigenetiche.

Queste modificazioni dell’epigenoma dovute a fattori ambientali sono così consistenti che anche i gemelli monozigoti possono essere identificati analizzando i loro pattern epigenetici unici.

Vari studi ((Barker et al., 1993; Yehuda et al., 1997; Roseboom et al., 2000; Roseboom et al., 2001; Meyer et al., 2011; Devakumar et al., 2014) suggeriscono che stressors prenatali

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potrebbero, attraverso meccanismi epigenetici, programmare la traiettoria di salute degli individui e i loro rischi di malattia, con differenze importanti tra maschi e femmine e con effetti transgenerazionali.

Le informazioni verrebbero passate dal padre e dalla madre alla prole con differenti modalità. L’esposizione materna durante la gravidanza a restrizione calorica o ad ambiente avverso può alterare le funzioni endocrine della madre e conseguentemente rendere la prole scarsamente responsiva a livelli di stress. Inoltre, il comportamento alterato di accudimento della prole può avere conseguenze a lungo termine sullo sviluppo della progenie e la responsività allo stress: la qualità delle cure materne influenza lo sviluppo sia cognitivo che emotivo della prole, in particolare sembra essere in relazione con la reattività dell’asse HPA (ipotalamo-ipofisi-surrene). Lo sviluppo della reattività allo stress e la funzione dell’asse HPA in risposta alle cure materne alterate sembrano essere mediati da cambiamenti dell’espressione genica in regioni cerebrali che regolano la risposta endocrina allo stress (Ambeskovic et al., 2017a). Entrambi questi meccanismi possono alterare la regolazione epigenetica dei geni in maniera sia inter-generazionale che trans-generazionale. Difatti, modificazioni epigenetiche dipendenti dall’esperienza possono essere passate alla prole e potenzialmente a generazioni successive non direttamente esposte all’esperienza in questione. Uno dei meccanismi che permettono questa trasmissione, sembra essere collegato alla metilazione del DNA: la maggior parte dei pattern di metilazione sono cancellati durante l’embriogenesi, ma da studi recenti sembra che alcuni di questi pattern resistano alla meiosi e siano trasferiti in modo transgenerazionale. Inoltre, sembra che nei maschi l’esposizione ad eventi di vita stressanti precoci possa alterare la metilazione del DNA nella linea germinale: anche l'esposizione paterna a fattori ambientali potrebbe determinare il fenotipo della prole epigeneticamente (Gapp et al., 2014a; Gapp et al., 2014b).

Importanti considerazioni giungono da alcuni studi (Ambeskovic et al., 2017b) effettuati sui ratti: secondo i ricercatori l’esposizione a stress durante la gravidanza porta a livelli differenti di stress tra maschi e femmine nelle generazioni successive. Da questi ed altri studi (Franklin et al., 2010; Dias and Ressler, 2013; Gapp et al., 2014a) emerge che la prole maschile i cui antenati sono stati esposti a stress prenatale sembra essere più suscettibile a cambiamenti nel comportamento affettivo rispetto alla prole femminile.

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cambiamenti nel fenotipo comportamentale e corrispondenti cambiamenti neuromorfologici: un esempio è che il cambio di dominanza della zampa da destra a sinistra è stato osservato, in generazioni differenti, soltanto nei maschi i cui antenati sono stati sottoposti a stress ed era accompagnato da una maggior complessità e densità dendritica nella corteccia parietale destra (Ambeskovic et al., 2017).

L’esposizione da parte della madre durante la gravidanza a fattori ambientali sembra influenzare almeno tre generazioni: la madre stessa (prima generazione), il feto (seconda generazione) e le cellule riproduttive del feto (nel caso sia di sesso femminile, terza generazione). L’esposizione del padre influenzerebbe due generazioni (la propria e quella della propria linea germinale). Secondo studi più recenti, questi meccanismi epigenetici potrebbero giungere, come accennato sopra, fino a generazioni successive alla terza. Tra i fondamentali fattori ambientali vi è sicuramente l’alimentazione.

Molti studi hanno individuato come la restrizione o l’integrazione della dieta materna con fattori dietetici come i folati, la metionina o la colina influenzino gli schemi di metilazione del DNA nella prole. In quest’ottica sembrano svolgere un ruolo fondamentale i cosiddetti geni imprinted, ovvero quei geni ad espressione monoallelica, dipendente dal genitore da cui quel gene è stato ereditato. Molti di questi geni svolgono funzioni necessarie per la crescita del feto, ma anche per il metabolismo del neonato e dell’adulto. Uno di essi è il gene paterno

imprinted del fattore di crescita insulino-simile IGF2, caratterizzato da un pattern di

metilazione dipendente dagli stimoli nutrizionali ricevuti dall’organismo durante il suo sviluppo.

Uno degli studi più importanti riguardo gli effetti della malnutrizione prenatale è il Dutch Famine Study. Individui sottoposti a malnutrizione prenatale avevano, 60 anni dopo, una minor metilazione del gene IGF2 rispetto ai fratelli dello stesso sesso che non erano stati esposti a malnutrizione prenatale (Vickers, 2014). In questi individui, se la restrizione calorica era avvenuta in un periodo precoce dello sviluppo fetale, poteva addirittura presentarsi obesità, ma anche sintomi più complessi, correlati con la sindrome metabolica, con alterazioni del profilo lipidico, ipertensione, aterosclerosi precoce e malattie cardiovascolari, inclusi disordini del comportamento affettivo e schizofrenia (Roseboom et al., 2006).

Da alcuni studi (Reynolds, 2006; McKay et al., 2012) è emersa l’importanza dei micronutrienti, come i livelli della vitamina B12 nella dieta della madre: un suo aumento

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durante la gravidanza è collegato ad un decremento della metilazione del DNA del nascituro e un alto livello sierico di vitamina B12 nel neonato è collegato ad una riduzione di metilazione di IGFBP23, coinvolto nella crescita intrauterina.

L’esposizione a malnutrizione, secondo alcune ricerche (Van der Berg & Pinger, 2014), sarebbe associata a cambiamenti strutturali nel cervello e sono state trovate evidenze riguardo un’eredità transgenerazionale sesso specifica della salute mentale. Sono stati studiati i discendenti di ragazzi e ragazze sottoposti a malnutrizione tra gli 8 e i 12 anni di età. Nella terza generazione è stato osservato che i maschi adulti tendevano ad avere punteggi più alti al test di salute mentale se il proprio nonno paterno era stato esposto a malnutrizione, mentre le femmine adulte mostravano punteggi più alti al test di salute mentale se era la nonna materna a essere stata esposta a malnutrizione. Risultati simili sono stati ottenuti studiando l’esposizione a stress materno in gravidanza.

Gli effetti della malnutrizione sembrano, quindi, potersi estendere anche alle generazioni successive alla prole e, inoltre, sembra esserci una modalità sesso specifica di distribuzione delle risposte epigenetiche alle avversità prenatali. I fattori ambientali possono quindi influenzare la programmazione di un disturbo attraverso la linea germinale sia paterna che materna, ma in maniera differente per i due sessi. La separazione postnatale può alterare l’espressione della metilazione del DNA nelle linee germinali delle due generazioni successive di prole maschile, che, in età adulta, manifestano un aumento del comportamento depressivo, mentre nessun cambiamento è stato individuato nella prole femminile.

Anche attraverso la placenta possono manifestarsi cambiamenti epigenetici ed in particolare la placenta collegata alla prole maschile risentirebbe maggiormente delle esperienze avverse della madre, rispetto a quella collegata alla prole femminile: a seguito di stress prenatale si ha un’alterazione di alcuni geni coinvolti nello sviluppo e nella crescita della placenta collegata alla prole maschile, la quale poi, in età adulta, manifesta risposte maladattive allo stress e comportamento depressivo (Mueller & Bale, 2008). L’alterazione di questi geni sembra essere anche collegata al rischio di disturbi del neurosviluppo e disturbi psichiatrici con conseguenze durante tutto l’arco di vita, specialmente nei maschi. Questa differenza tra i due sessi potrebbe essere dovuta, principalmente, al meccanismo protettivo del cromosoma X: nella placenta sembra che alcuni geni sfuggano all’inattivazione dell’X e l’aumentata espressione di geni potrebbe proteggere il feto femminile.

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materno, la dieta o l’esposizione agli steroidi esogeni, altera il metabolismo del feto, il suo neurosviluppo e le sue funzioni endocrine in tutto l’arco di vita (Challis et al., 2002). Gli ormoni steroidei svolgono un ruolo fondamentale nell’organizzazione cerebrale precoce e nella differenziazione sessuale precoce: i recettori degli estrogeni sembrano essere di particolare importanza per la differenziazione sessuale. Secondo recenti studi, le esperienze precoci influenzerebbero sia il comportamento sessuale adulto, sia l’espressione dei recettori degli estrogeni. In particolare, l’esposizione a eventi avversi durante la gravidanza sembra alterare l’espressione di miRNA regolatori dei recettori cerebrali degli estrogeni e queste alterazioni stress correlate possono trasmettersi attraverso le generazioni (Morgan & Bale, 2011).

Stress materno e malnutrizione in gravidanza possono alterare anche l’espressione del gene per la determinazione del sesso SRY ed influenzare processi a lungo termine di dimorfismo cerebrale (Wilhelm and Koopman, 2006).

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PARTE SECONDA

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5. DIFFERENZE CEREBRALI DI GENERE

La distinzione tra differenze biologiche, anatomiche, chimiche e cognitivo-comportamentali è effettuata, nei seguenti paragrafi, nel tentativo di rendere questo elaborato di più semplice consultazione, ma è ormai appurato che tali differenze si intersecano tra loro e le une influenzano e, spesso, causano le altre: rappresentano i possibili vari punti di osservazione di uno stesso fenomeno. I dati riguardo queste differenze fanno sempre riferimento alla media del campione che i vari studi hanno analizzato e sono, quindi, da intendere come tali e non come valori rappresentativi dell’intera categoria. Sarebbe un errore paradossale non trattarli come indicativi, un errore che potrebbe portare a non tenere di conto della soggettività del paziente che abbiamo di fronte.

5.1 DIFFERENZE BIOLOGICHE

Le differenze biologiche tra maschi e femmine non sono soltanto quelle cosiddette “macroscopiche”, come altezza, peso e genitali esterni. Vi sono importanti differenze a livello neuroanatomico e neurochimico che si riflettono non solo sulle abilità cognitive e sul comportamento, ma influenzano anche la suscettibilità a differenti malattie e la reattività ad alcuni tipi di terapie.

Conoscere queste differenze tra i sessi a livello cerebrale, e non solo, è un passo in più verso lo sviluppo di terapie che tengano conto della soggettività del paziente che ci troviamo di fronte, un passo in più verso quelle che potremmo definire terapie centrate sulla persona.

5.1.1 NEUROANATOMIA

A livello neuroanatomico, una delle principali e più evidenti differenze è rappresentata dal volume del cervello: le donne hanno un volume cerebrale ridotto rispetto a quello degli uomini. Ciò può essere, in parte, dovuto alla loro statura minore rispetto a quella degli uomini. Escludendo fluido spinale, meningi e altro tessuto non cerebrale, in media il volume del cervello delle femmine è 1130 cc contro i 1260 cc dei maschi. Effettuando misure non

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assolute, ma relative in base a volume intracranico, peso e altezza, si è visto come le donne abbiano una maggiore percentuale di materia grigia, mentre gli uomini hanno una maggiore percentuale di materia bianca (contenente fibre assonnali mieliniche) e di fluido cerebrospinale. In particolare, la differenza in materia grigia su materia bianca è significativamente più alta nelle donne rispetto agli uomini nei lobi frontali, temporali, parietali ed occipitali, nel giro cingolato e nell’insula. Lo spessore maggiore della materia grigia nella corteccia parietale delle donne è uno dei dati maggiormente analizzati da vari studi (Wizemann & Pardue, 2001; Cosgrove et al., 2007; Ngun et al., 2011; Ingalhalikar et al., 2013).

Le differenze nel volume totale del cervello sembrano, comunque, essere poco significative. Difatti, uomini e donne utilizzerebbero differenti aree per raggiungere punteggi simili di Quoziente Intellettivo. Negli uomini il Quoziente Intellettivo correla con il volume di materia grigia nei lobi frontali e parietali, mentre, nelle donne, il QI correla con il volume della materia grigia nel lobo frontale e nell’area di Broca, coinvolta nel linguaggio (Cosgrove et al., 2007). Sembra, quindi, che siano le strutture cerebrali più piccole a svolgere un ruolo importante nelle differenze a livello comportamentale e di suscettibilità di malattia tra maschi e femmine: alcuni studi hanno individuato importanti differenze, analizzando strutture cerebrali di giovani uomini e donne. Le ragazze hanno un maggior volume dell’ippocampo, mentre i ragazzi hanno un maggior volume dell’amigdala. È da ricordare che gli enzimi per la sintesi degli estrogeni e i recettori di questi ultimi sono localizzati proprio nell’ippocampo, mentre i recettori degli androgeni si trovano prevalentemente nell’amigdala (Cosgrove et al., 2007). Una differenza apprezzabile è quella relativa al locus coeruleus: i processi dendritici di questa struttura sono più estesi e più complessi nelle femmine, rispetto ai maschi. I dendriti delle femmine hanno più nodi, gli alberi dendritici sono più lunghi e hanno più ramificazioni, le quali si presentano anche più lunghe. Questi dendriti hanno più contatti sinaptici nelle femmine rispetto ai maschi. Tutto ciò correla con un maggior arousal emotivo da parte delle femmine, poiché il locus coeruleus interagisce con l’amigdala. Come vedremo più avanti, questo ha implicazioni nel fatto che le patologie stress correlate e i disturbi emozionali sono più presenti nelle femmine rispetto ai maschi: difatti questa maggior predisposizione delle femmine sembrerebbe collegata a una maggior sensibilità del locus coeruleus al fattore di rilascio della corticotropina, CRF (Valentino et al., 2016).

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Altra importante differenza consiste nella diminuzione età correlata del volume cerebrale. Negli uomini, con l’avanzare dell’età, si ha perdita generale di volume cerebrale e dei lobi frontali e temporali. Nelle donne, la perdita di volume età correlata colpisce principalmente ippocampo e lobi parietali.

Un importante studio di Ingalhalikara et al. (2013) ha analizzato, con l’utilizzo del DTI (Diffusion Tensor Imaging), il connettoma di 949 soggetti di varie età (428 maschi e 521 femmine, età compresa tra gli 8 e i 22 anni).

È emerso che i maschi hanno maggiori connettività intraemisferiche e maggior modularità e transitività, con connessioni che corrono principalmente lungo lo stesso emisfero. Modularità e transitività sono due misure di segregazione, importanti per valutare l’integrità di una rete: la modularità descrive come un sistema neurale complesso possa essere delineato in sottoreti. La transitività caratterizza la connettività di una determinata regione con le regioni adiacenti e un’alta transitività indica una tendenza maggiore dei nodi a formare comunità connesse in maniera più forte.

Le femmine hanno, invece, più connettività interemisferica e predomina una partecipazione cross-modale, con connessioni che principalmente collegano i due emisferi. L’unica struttura che non segue queste modalità è il cervelletto che, anzi, inverte completamente i rapporti tra le connessioni.

Questi risultati, secondo i ricercatori, sembrano suggerire che il cervello maschile è strutturato per facilitare le connessioni tra la percezione e l’esecuzione di azioni coordinate, mentre il cervello femminile è strutturato per facilitare la connessione tra modalità di processazione analitiche ed intuitive. Ciò potrebbe riflettere abilità che sono, nell’immaginario comune, attribuite all’uno o all’altro sesso: i maschi sarebbero più predisposti ad attività motorie e processazione spaziale, le femmine sarebbero più predisposte al multitasking, all’empatia e alle abilità sociali.

Altro aspetto interessante riguarda l’organizzazione cerebrale del linguaggio. Grazie a studi di risonanza magnetica funzionale, si è visto che, per certi aspetti del linguaggio, gli uomini fanno affidamento principalmente sull’emisfero cerebrale sinistro. In particolare, per compiti di linguaggio come il determinare se due non parole sono in rima tra loro, gli uomini utilizzano il giro inferiore frontale sinistro. Le donne, invece, fanno affidamento sia sul giro

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inferiore destro, che su quello sinistro, per portare a termine lo stesso compito degli uomini. È importante notare che uomini e donne raggiungono gli stessi risultati nel compito e lo portano a termine senza mostrare differenze significative nei tempi di completamento.

Le donne mostrano, però, un significativo vantaggio per quanto riguarda il recupero del linguaggio: difatti, in seguito a ictus dell’emisfero sinistro, le femmine riescono più facilmente a recuperare le abilità linguistiche rispetto ai maschi. Questa differenza potrebbe quindi rappresentare per le donne un fattore protettivo (Wizemann & Pardue, 2001).

Sono state individuate delle differenze tra i sessi nell’attivazione di regioni cerebrali anche per quanto riguarda le capacità di orientamento. Sono stati studiati dei gruppi di uomini e di donne che dovevano immaginare di cercare l’uscita in un labirinto tridimensionale, in realtà virtuale.

È emerso che i maschi attivavano l’ippocampo sinistro, mentre le femmine attivavano la corteccia parietale destra e la corteccia prefrontale destra, durante lo stesso compito di orientamento.

Queste osservazioni sono state interpretate come dovute al fatto che le donne si affidano maggiormente all’utilizzo di punti di riferimento nel paesaggio come indizi per orientarsi e che l’attivazione della corteccia prefrontale rifletta lo sforzo di mantenere questi indizi nella working memory.

Gli uomini, invece, sembrano utilizzare sia punti di riferimento nel paesaggio che indizi geometrici: l’ippocampo sarebbe quindi maggiormente attivato in quanto coinvolto nel processamento degli indizi geometrici (Wizemann & Pardue, 2001).

È inoltre da ricordare che le differenze neuroanatomiche e funzionali tra i due sessi sopra riportate riguardano soltanto ciò che è appurato da studi condotti su esseri umani. Per quanto riguarda differenze tra maschi e femmine di altre specie, ad esempio il ratto, i dati sono molto più ampi e le differenze individuate sono maggiori, ma non sono ancora stati effettuati sufficienti studi sugli esseri umani affinché queste differenze possano essere considerate importanti anche per l’uomo.

5.1.2 NEUROCHIMICA

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importanti ed ampie differenze, tra i due sessi, anche nelle modalità di trasmissione, di regolazione e di processamento delle biomolecole.

Tra le differenze più significative, troviamo sicuramente quelle riguardanti il sistema monoaminergico. Questo sistema è difatti implicato in molti dei disturbi neurologici e delle malattie mentali che affliggono in maniera differente uomini e donne: è coinvolto nel controllo di molti processi come la risposta allo stress, la riproduzione e il comportamento sessuale e la respirazione.

Delle monoamine fanno parte due gruppi: le catecolamine, tra cui la dopamina riveste il ruolo più importante, e le indolamine, la cui amina più importante è la serotonina.

La dopamina riveste un ruolo fondamentale tra le monoamine, poiché la sua regolazione può controllare i livelli delle altre due catecolamine, ovvero norepinefrina ed epinefrina, che derivano proprio dalla dopamina. Si è visto che i livelli di norepinefrina nell’amigdala presentano delle differenze tra i due sessi, con l’aumentare dell’età. È la ghiandola surrenale a secernere le catecolamine, solitamente in risposta allo stress. Maschi e femmine reagirebbero allo stress in maniera differente: la risposta ad esso sembrerebbe, nelle femmine, essere mediata dall’ossitocina, un ormone che riduce lo stress ed aumenta l’affiliazione sociale nei ratti (Carter et al., 1995; Witt et al., 1990). Questo potrebbe essere correlato alle differenze tra i due sessi nei disturbi stress correlati e potrebbe contribuire alla maggior aspettativa di vita delle femmine. Le differenti modalità di risposta allo stress saranno trattate più approfonditamente nel paragrafo successivo.

La dopamina concorre ai processi di ricompensa, entrando in gioco quindi nel rinforzo conseguente all’abuso di droghe, al gioco d’azzardo, ma è anche coinvolta in alcuni disturbi neuropsichiatrici come il morbo di Parkinson e la schizofrenia, che presentano sex ratio differenti. Da alcuni studi emerge che il tono dopaminergico è maggiore nelle donne rispetto agli uomini. Si è visto come il rilascio di dopamina nel globo pallido destro e nel giro inferiore destro indotto da anfetamine fosse maggiore nelle donne rispetto agli uomini. Inoltre, il trasportatore della dopamina, responsabile della regolazione sinaptica della disponibilità dopaminergica, è più presente nelle donne. In particolare, sembra emergere che le donne abbiano un tono dopaminergico presinaptico maggiore degli uomini nello striato e una maggior densità e disponibilità di recettori dopaminergici nell’extrastriato (Wizemann & Pardue, 2001).

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Questo maggior tono dopaminergico sembra essere un fattore protettivo del sesso femminile nei confronti di alcune malattie neuropsichiatriche collegate a disturbi nella funzione dopaminergica. L’alcolismo colpisce il doppio degli uomini, rispetto alle donne, e anche la schizofrenia colpisce in maniera differente uomini e donne. È stato ipotizzato che gli estrogeni possano avere qualità neuroprotettive interagendo col sistema dopaminergico: per quanto riguarda la schizofrenia, difatti si è visto che, intorno gli anni dell’insorgenza della menopausa (tra i 45 e i 54 anni), vi è un aumento dell’incidenza della schizofrenia nelle donne. Questo potrebbe essere dovuto alla diminuzione dei livelli di steroidi sessuali conseguente alla menopausa.

Il morbo di Parkinson è strettamente collegato ai livelli cerebrali di dopamina ed è, difatti, una patologia che colpisce più uomini che donne. Inoltre, gli uomini con parkinson presentano un numero più elevato di gravi problemi motori rispetto alle donne: questo potrebbe essere collegato al fatto che si presentano delle forti differenze tra i sessi nell’attività monoaminergica prefrontale. Inoltre, gli estrogeni sembrerebbero limitare i danni eccitotossici presenti nel morbo di Parkinson (Cosgrove et al., 2007).

Altra implicazione di cui tenere di conto è che questa maggior disponibilità di dopamina che presentano le donne, rispetto agli uomini, potrebbe portare a una differente efficacia, tra i due sessi, dei trattamenti con farmaci che interagiscono con questa molecola.

Tra le indolamine, la più importante amina è la serotonina. Anche il sistema serotoninergico presenta delle importanti differenze tra i due sessi e a questo potrebbe collegarsi la distribuzione differente di alcune malattie mentali tra maschi e femmine.

Si è visto che il livello di serotonina circolante nel sangue delle donne è maggiore di quello degli uomini, ma che questi ultimi sintetizzano la serotonina molto più velocemente di quanto facciano le donne (Wizemann & Pardue, 2001; Cosgrove et al., 2007). La serotonina svolge una serie di importanti funzioni: oltre a entrare in gioco nella coordinazione di complessi compiti motori e sensoriali, è implicata nei disturbi dell’emotività, nella schizofrenia e nei disturbi del sonno e dell’alimentazione. Le differenze nel sistema serotoninergico potrebbero essere collegate a un dato presente ormai da tempo in letteratura, ovvero che la depressione colpisce più le femmine che i maschi.

Si è visto che le donne in salute hanno una maggior disponibilità di trasportatori della serotonina nel diencefalo e nel tronco dell’encefalo e che questi trasportatori vanno incontro

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a una diminuzione selettiva età specifica nelle donne depresse, ma non negli uomini depressi (Cosgrove et al., 2007).

Sembrerebbe, quindi, che la funzione di base della serotonina sia più alto nelle donne che negli uomini. La disregolazione di questa funzione nelle giovani donne depresse potrebbe spiegare un meccanismo patofisiologico specifico dell’umore depresso in queste pazienti. Le giovani donne sembrano rispondere maggiormente agli inibitori selettivi del reuptake della serotonina, piuttosto che agli antidepressivi triciclici, se comparate con donne più anziane e con uomini. Questo potrebbe essere collegato a un’azione facilitatoria da parte degli estrogeni: si è visto che, in uno studio con controllo placebo (Henney, 2000), le donne che ricevevano estrogeni avevano una risposta accelerata al trattamento con sertralina (un farmaco facente parte della classe degli inibitori del reuptake della serotonina).

Va ricordato che, sebbene gli studi disponibili siano meno numerosi, sono state individuate differenze tra maschi e femmine anche in altri sistemi di neurotrasmettitori: il sistema oppioide, coinvolto nel dolore e nei processi di ricompensa, il sistema colinergico, coinvolto in processi di cognizione e memoria, e il sistema GABAergico, il cui neurotrasmettitore è il principale neurotrasmettitore inibitorio e che è coinvolto a sua volta in memoria ed emozioni (Cosgrove et al., 2007). Questi sistemi necessitano di ulteriori studi, poiché potrebbero a loro volta essere coinvolti nella differente distribuzione tra i due sessi di alcuni disturbi neuropsichiatrici.

Gli ormoni sessuali sembrerebbero coinvolti nel dimorfismo sessuale del dolore. Emerge da vari studi (Fillingim, 1999; Craft et al., 2004; Soetanto et al., 2004; Jackson et al., 2005; Stoffel et al., 2005) che gli estrogeni potrebbero rappresentare un fattore pronocicettivo, mentre il testosterone un fattore antinocicettivo. Difatti le donne sembrano avere una soglia del dolore ridotta e una ridotta tolleranza.

Studi condotti sui ratti (Craft et al., 2004) hanno mostrato un’efficacia analgesica maggiore nei maschi che nelle femmine a seguito di somministrazione di morfina. Inoltre, l’analgesia risultava ridotta nei maschi a seguito di gonadectomia, ma, a seguito di somministrazione di testosterone, vi era una ristabilizzazione dell’efficacia analgesica. Alla somministrazione di estradiolo, l’analgesia si riduceva nuovamente. Nei ratti femmina la gonadectomia portava, invece, ad aumento dell’analgesia, che si riduceva nuovamente a seguito di somministrazione

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di estradiolo.

Grazie a studi condotti utilizzando la stimolazione termica su esseri umani (Soetanto et al., 2004), si è visto che le femmine mostrano una discriminazione sensoriale degli stimoli maggiore rispetto ai maschi e che questa maggior attenzione agli stimoli dolorosi potrebbe collegarsi a una ricerca maggiore di cure da parte delle donne.

Sempre per quanto riguarda gli estrogeni, essi sembrano giocare un importante ruolo neuroprotettivo anche nella sclerosi multipla, malattia neurodegenerativa demielinizzante, con lesioni a carico sia della sostanza bianca, che della sostanza grigia (Wisdom et al., 2013; Clayton, 2016). Questa patologia colpisce più frequentemente il sesso femminile, rispetto a quello maschile, ed il cambiamento nei livelli ormonali sembra avere un impatto sulla neurodegenerazione che caratterizza questa malattia.

Si è visto che la patologia cambia sia durante che dopo la gravidanza, momenti nei quali gli estrogeni subiscono alterazioni, ma soprattutto si è visto che è presente un peggioramento della patologia in seguito alla menopausa.

Alcuni studi (Wisdom et al, 2013) effettuati sui ratti hanno utilizzato come modello

l’encefalomielite autoimmune sperimentale (EAE, experimental autoimmune

encephalomyelitis), un modello animale della sclerosi multipla dell’uomo. Grazie a questi studi si è visto che gli estrogeni potrebbero essere utilizzati come trattamento non solo neuroprotettivo, ma anche da somministrare a patologia già in atto. Studi più recenti, utlizzando sempre il modello animale, hanno individuato nell’estriolo un possibile candidato ad essere utilizzato nel trattamento della sclerosi multipla, poiché, rispetto ad altri estrogeni, sembra agire in maniera più ampia sui sintomi dell’encefalomielite autoimmune sperimentale, avendo anche proprietà antinfiammatorie.

L’estradiolo invece proteggerebbe i neuroni dal danno eccitotossico conseguente a convulsioni e ictus, oltre che nella malattia di Alzheimer e nel morbo di Parkinson. Sembra che ciò sia collegato alla capacità degli estrogeni di aumentare l’espressione ed il rilascio del neuropeptide Y (NPY), il quale ha effetti antieccitatori. Questi ormoni sessuali, inoltre, concorrerebbero alla riduzione della perdita di spine dendritiche età correlata.

Tra gli altri effetti che sono stati individuati, gli estrogeni sembrano avere effetti positivi anche su fluenza verbale, denominazione e produzione e velocità di articolazione verbale, abilità collegate al processamento fonologico: un aumento dei livelli di estradiolo porta ad un miglioramento dei punteggi dei test di abilità verbali (Wizemman & Pardue, 2001).

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Sono state individuate (Valentino et al., 2016) differenze anche relative alla sensibilità al CRF, il fattore di rilascio della corticotropina. Come accennato nel paragrafo relativo alla neuroanatomia, il locus coeruleus presenta delle differenze tra maschi e femmine: queste ultime hanno degli alberi dendritici più estesi e più efficaci dei maschi, in questa struttura (Bangasser et al., 2011). Questo ha un impatto importante sul fattore di rilascio della corticotropina, in quanto i neuroni del locus coeruleus delle femmine sono più sensibili al CRF rispetto ai neuroni del locus coeruleus dei maschi e si attivano, quindi, a livelli di CRF che hanno scarsi effetti sui neuroni dei maschi. Questa maggior sensibilità dei neuroni di questa struttura si traduce in una maggior attivazione elicitata da fattori di stress che portano al rilascio di CRF nel locus coeruleus. Ciò si tradurrebbe in una maggior sensibilità del sistema femminile allo stress (Bangasser et al., 2011). Nonostante queste differenze, i neuroni del locus coeruleus sembrano comportarsi in maniera simile tra maschi e femmine in condizioni di assenza di stress. Il dimorfismo di questa struttura sembra quindi avere effetti soltanto in correlazione con il fattore di rilascio della corticotropina: quando è presente una condizione di eccesso di CRF, così come accadrebbe in disturbi stress correlati come la depressione e il disturbo post traumatico da stress, i locus coeruleus maschile e femminile interagiscono con questo ormone in maniera molto differente. Livelli elevati di CRF sembrano infatti collegati alla psicopatologia: nel disturbo post traumatico e nella depressione si è visto che i livelli di questo ormone di rilascio sono elevati (Valentino et al., 2016). Non sono, però, stati individuati differenti livelli di CRF tra maschi e femmine che possano spiegare la vulnerabilità del sesso femminile a patologie stress correlate: nella depressione i livelli di CRF sono identici tra maschi e femmine e, addirittura, i maschi hanno, rispetto alle femmine, più recettori per il CRF nel nucleo paraventricolare dell’ipotalamo (Valentino et al., 2016).

Si è perciò ipotizzato che la differenza nella vulnerabilità allo stress tra maschi e femmine sia dovuta a meccanismi post-sinaptici. Sono stati compiuti studi (Bangasser at al., 2011), su modelli animali, di sovraespressione di CRF, poiché nei disturbi stress correlati si ha un livello aumentato di questo fattore. Si è visto che la mancanza di internalizzazione del CRF nei topi con sovraespressione di questo fattore, renderebbe vulnerabili i neuroni del locus coeruleus all’eccesso di CRF nella sinapsi. Nella condizione di sovraespressione di CRF, ovvero ciò che accadrebbe nei disturbi stress correlati, il sistema locus coeruleus-norepinefrina sarebbe

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