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2.3 Film di famiglia, video e fotografia.

2.2.4 AutoBiografia e video

E’ stato notato come uno dei territori dove il cinema e il video riescono meglio ad integrarsi è la memoria. Molti sono infatti gli artisti che usano le immagini in pellicola come elementi da modellare per attuare un discorso privato e intimo su ciò che è passato, costruendo spesso un collage dove le storie private e la storia ufficiale si integrano per dare vita ad un’altra realtà storica. Il video sembra mostrare un rapporto strettissimo col concetto di tempo tanto da individuare una costante “ontologica” fra cinema e video che si identifica con la simultaneità fra ripresa e visione e nella formazione di un’immagine che nasce e muore continuamente. A questo proposito Amaducci scrive «nel nastro magnetico il ricordo non viene conservato: ridiventa memoria, e in quanto tale piena di difetti, sfocata, fluidificata dal tempo, falsa come solo l’immagine elettronica può esserlo. È la natura metamorfica e auratica del video a far rivivere la memoria in tutta la sua precarietà strutturale, scatenandola dalle strette maglie della pellicola, riconsegnandole la sua natura umbratile, chimerica»119.

L’autobiografia, il diario, il cinema in prima persona, sono un antecedente di tutta una parte di una produzione video tesa ad inscrivere all’interno dell’opera stessa il racconto della vita di un singolo autore.

In generale il video sembra indurre ad un’esplorazione più intima rispetto al cinema tradizionale. A questo proposito Rosalind Krauss nel ’78, analizzando i primi anni di ricerca video, poneva l’accento sulle possibilità di auto-rappresentazione che il mezzo forniva. Lo schermo video in effetti, attraverso un feedback immediato, riesce a mettere in scena come uno specchio, il corpo dell’autore. Afferma Krauss «in questa immagine di autoconsiderazione di sé, è configurato un narcisismo così connaturato alle

119 Alessandro Amaducci, Fantasmi elettronici, «Il nuovo spettatore», 14 febbraio 1992, pag.250

opere video che sono tentata di generalizzarlo come la condizione del genere stesso»120.

La condizione di autorispecchiamento fornita dal video fa si che l’autore più che raccontare di sé metta se stesso nel racconto. Molti sono infatti gli autori video che mettono in scena il proprio io o la propria storia. Nota Sandra Lischi «si potrebbe anche dire che quello dell’autobiografia (o dell’autorappresentazione, o del diario) è una sorta di sottotesto presente in ogni opera di videoarte.»121

Nei primi anni ’70 nascono molte sperimentazioni video che pongono il corpo e parti di esso al centro di una nuova ricerca estetica. Ci sono i laboratori in cui gli artisti si riprendono o riprendono i loro amici, c’è il cinema sperimentale e underground a cui il video tende uno sguardo, c’è l’azzeramento della distanza fra arte e vita, professata dal movimento Fluxus, c’è la performance e la body-art.

Sono in realtà i cineasti del New American Cinema , i primi a fare film incentrati sulla propria vita personale122 ed a usare immagini intime per

esprimere se stessi.

Se però la cinepresa guardava a noi guardando a ciò che ci circondava, la videocamera, più introspettivamente, guarda a noi guardando il nostro corpo. Con il video viene compiuto un passo in più verso la dimensione autobiografica. La possibiltà di rivedersi in presa diretta fa dell’operatore l’oggetto principale delle riprese. Così i primi artisti che hanno lavorato col video hanno finito per esplorare la propria immagine attraverso il proprio corpo.

Anche Odin nota come il video sembra il mezzo preferito per un discorso più intimo e pone l’accento sia sulla maggiore facilità a riprendere il proprio corpo, andando quindi nella direzione di Krauss, sia su una maggiore vicinanza del video al linguaggio verbale. Considerato come il miglior veicolo delle confidenze personali, il linguaggio verbale è una

120 Rosalind Krauss, Video, the Aesthetics of Narcissim, in Gregory Battcock, New Artists

Video, Dutton, New York, 1978; trad.it. Il video: l’estetica del narcisismo, in Valentina

Valentini (a cura di), Le storie del video, Bulzoni Editore, Roma 2003, pp.245-246

121Sandra Lischi, Dallo specchio al discorso. Video e autobiografia, in «Bianco e Nero» a. LXII, n.1/2, gennaio-aprile 2001 pag.75

122Se si escludono i primissimi film della storia del cinema come Le déjeuner du bébé di Auguste e Louis Lumière e i diari filmati di Man Ray che risalgono agli anni Trenta.

componente essenziale del video. L’autore oltre al proprio corpo inserisce nell’immagine anche la propria voce.

È indubbio che la presenza della voce dell’autore, oltre ad essere elemento di espressione del soggetto, colloca queste opere nella dimensione dell’autobiografia, del diario, dell’autoritratto.

Nel campo del genere autobiografico e autobiografico di secondo grado, si notano almeno due principali tendenze. Da una parte ci sono gli autori che parlano di sé o dei propri cari, o di sé attraverso i propri cari, producendo dei video dal taglio documentaristico e dall’altro produzioni che riutilizzano materiale preesistente.

Baboussia (2002) è un video di Elsa Quinette in cui la regista segue,

videocamera in spalla, la nonna in un’intera giornata. Il legame affettivo verso quella sorridente anziana signora è evidente in ogni inquadratura, ha il sapore di un omaggio e si presenta come un tentativo di lasciare una traccia del loro legame. Ma il legame nipote-nonni è stato indagato anche da Nicole Scherg in Grosseltern (2004) in cui la regista, tornata nella casa dei nonni dopo anni di assenza, li osserva nel loro quotidiano e, attraverso di loro, ricorda anche la sua infanzia.

All’interno di questa produzione dal taglio più prettamente documentaristico rientrano anche quei video che attraverso una riflessione personale sui fatti si spingono sia nel campo strettamente privato del film- diario che in quello più apertamente collettivo del video-saggio in cui le biografie, i film e i diari di viaggio sono usati come spunto per una riflessione sociale e storica.

Sono esempio di questa ricerca i lavori di Daniel Reeves che con

Obsessive Becoming (1995) utilizza i film di famiglia per una riflessione sulla

violenza nella società e di Theo Eshetu che con Il sangue non è acqua fresca (1997) confronta la memoria privata con quella storica. Attraverso l’incontro col nonno, il più importante storico etiope, Eshetu, tenta di ricostruire gli avvenimenti della Storia lontano dagli schemi ufficiali. Nella stessa direzione si muovono altre due opere di quegli anni, Passing Drama (1999) di Angela Melitopoulos che si focalizza sulle vicende di deportazione e di esilio da un villaggio della Grecia, attraverso il racconto del padre e Buried in Light (1992-94) di Jem Cohen che documenta il viaggio

dell’ autore nell’Europa dell’Est, dopo la caduta nel muro di Berlino, alla ricerca delle proprie origini.

Una rilettura della storia attraverso materiali d’archivio è quella dell’ungherese Péter Forgàcs. Le sue opere sono una vera e propria “archeologia temporale” della storia privata in cui l’autore esaltando le trame rovinate del supporto, la sporcizia di una giunta, ri-fotografando ogni fotogramma, restituisce la sua idea di tempo e di storia.

L’altra tendenza da registrare è quella di produzioni che assemblano e rileggono i film di famiglia producendo dei generi ibridi che sono ascrivibili comunque ad un genere più grande, quello autobiografico.

Molti sono gli artisti che hanno sperimentato in questo campo fra cui Bill Viola che con The Passing (1995) racconta la nascita del figlio e la morte della madre in un confronto-specchio e Patrick De Geetere che con

Jeanne (1995) ricostruisce la storia della madre partendo da filmini da lei

stessa girati in viaggio, coniugandoli con la lettura di lettere, inserendo la voce stessa della donna, vecchi brani musicali e unendo a questi anche immagini che la ritraggono in ospedale in quel preciso momento.

Il campo è molto vasto e le forme e i modi per esprimersi sono molteplici e in continua evoluzione. Negli ultimi anni jnfatti si è diffuso il

found footage film che recuperando materiale che spazia dal film amatoriale

al pornografico passando per il documento scientifico e il reportage televisivo, è riuscito a costruire un nuovo discorso che alimenta proficuamente la ricerca di nuove metodologie espressive.

Merilee Bennet con A Song of Air (1987) utilizza i filmini di famiglia girati dal padre per rivendicare, dopo la sua morte, la sua realtà, il suo punto di vista sulle cose. Per fare questo l’autrice utilizza un commento in voce over violento e traumatico che si chiude col tentativo di una finale riconciliazione con la figura paterna amata-odiata. Questo esempio mostra solo una delle molteplici possibilità da parte dell’autore di marcare delle immagini che non gli appartengono.