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Prendendo spunto dal noto saggio130

di Roger Odin in cui l’autore analizza i titoli di testa di Une Partie de campagne di Jean Renoir per delineare una prassi de “l’entrata dello spettatore nella finzione”, comincerò l’analisi del documentario di Kahn dalle immagini da cui prende avvio il racconto. Se come nota Odin a proposito dei titoli di testa

130 Roger Odin, L’entrée du spectateur dans la fiction, in Jacques Aumont, Jean Louis Leutrat (a cura di), Théorie du film, Albatros, Paris, 1980; trad. it. L’entrata dello spettatore nella

finzione, in Lorenzo Cuccu, Augusto Sainati (a cura di) Il discorso del film, Edizioni

posti su delle immagini in movimento, «lo spettatore è indotto a mettere in azione contemporaneamente due diverse modalità percettive: vedere e leggere»131

, lo spettatore di My Architect non fa eccezione.

L’immagine da cui parte il documentario è un’immagine in movimento. Incorniciata dai bordi dello schermo della macchina che permette la lettura dei microfilm, l’immagine che accompagna lo spettatore all’interno della storia è un’immagine indecifrabile. Solo quando il suo moto si arresta, viene svelata la sua natura: quella che abbiamo davanti agli occhi è la pagina di un quotidiano. Una volta distinta l’immagine, il moto si riattiva di nuovo per fermarsi più avanti su altre pagine di vecchi giornali.

La natura indecifrabile della prima immagine è sottolineata, oltre che dal suo movimento simile a quello del fast forward, dalla sua natura soggettiva. Più precisamente ci troviamo di fronte ad una breve sequenza a camera fissa in falsa soggettiva. La «perfetta trasparenza della diegesi, accompagnata da un atteggiamento di mera constatazione dei fatti: c’è qualcosa che accade, ed esso è là, direttamente davanti a te»132, è nella

prima sequenza del documentario assai destabilizzante. Vi mancano infatti le due indicazioni in apertura e in chiusura, sul punto di partenza che ha generato quello sguardo e il punto di arrivo.

Lo spettatore ha l’impressione di essere catapultato in qualcosa che già c’è, che si è già attivato prima che lui ne cominci a prendere parte. La sua posizione si complica quando la natura di falsa soggettiva si dichiara più apertamente, cioè quando lo schermo su cui compaiono le pagine dei quotidiani riflette l’immagine di colui che sta compiendo la ricerca: l’autore.

La serie di immagini che compongono questa sequenza iniziale appaiono dunque come delle immagini stratificate, la cui essenza deve essere colta attraverso l’atto del leggere e del vedere. Sebbene queste due modalità debbano essere messe in azione contemporaneamente, è la lettura che sembra la modalità regina. Il testo scritto con cui lo spettatore ha a che fare in queste prime immagini ha una duplice natura: extra-diegetica, per

131 Roger Odin, op. cit. pag. 267.

132 Francesco Casetti, Dentro lo sguardo. Il film e il suo spettatore, Bompiani, Milano, 1986, pag.87.

ciò che riguarda le informazioni133 legate alla realizzazione del

documentario e il suo titolo, e diegetica per ciò che riguarda le immagini che rappresentano gli articoli di giornale.

Il vedere è invece associato a quell’immagine sovraimpressa, specchiata e quasi inconsistente che di quando in quando affiora attraverso la superficie riflettente dello schermo. Lo spettatore intravede il volto del regista mentre cerca l’articolo su cui poco dopo la camera si soffermerà: l’articolo che racconta della morte dell’architetto Louis Kahn.

Liberato dalla scomoda posizione soggettiva in cui lo spettatore si è trovato inizialmente senza avere alcun punto di riferimento spazio temporale, una volta individuato lo sguardo di chi guarda quelle pagine, lo spettatore è sollecitato ad una identificazione con il personaggio che, in questo caso, è anche l’autore. Lo spettatore scivola dunque da un’identificazione primaria a una secondaria134 nel momento in cui verifica

(e non poteva essere che così) che a rifletterersi sullo schermo non è il suo corpo ma quello del personaggio135.

L’immagine riflessa sullo schermo si fa più nitida e leggibile nel momento in cui compare la scritta del titolo My Architect, rimandando l’aggettivo possessivo my al volto che si intravede fra gli articoli dei giornali. Quel volto tende a sottolineare la natura autobiografica di quelle immagini primigenie che legano insieme uno sguardo, un volto e un autore.

Una voce over la cui sorgente si attribuisce al volto che si è visto poco prima legge l’articolo:

Louis I. Kahn, la cui imponente opera influenzò una generazione di architetti, e gli valse la definizione di maggior architetto americano vivente, è deceduto, probabilmente d’infarto, nella Pennsylvania

133 Per Odin «i titoli di testa apportano due tipi di informazione:

- presentano i dieversi partecipanti alla realizzazione del film (casa di produzione, regista, attori, tecnici…),

- danno il titolo del film» in Odin, op cit. pag271 134 Cfr. Metz, Cinema e psicanalisi, cit. pp. 53-63.

135 Riprendo qui un’ espressione utilizzata da Metz, ma nel caso in oggetto, trattandosi di un documentario, sarebbe più opportuno parlare di un generico “persona”. Se l’indenticazione si realizza attraverso il desiderio dello spettatore di trasformare il personaggio in una persona reale, nel caso di un documentario, l’identificazione avviene dunque più direttamente.

Station. Aveva settantatre anni. Oltre alla moglie, lascia una figlia, Sue Ann.

Con la lettura di questo trafiletto si chiude la sequenza iniziale dei titoli di testa. La voce over ci informa di che cosa parlerà il documentario, l’architetto Kahn. Se non fosse per le immagini in soggettiva che abbiamo visto poco prima si potrebbe pensare di trovarci di fronte ad un documentario biografico. A togliere qualsiasi dubbio sulla natura (anche) autobiografica del documentario ci aiuta la sequenza immediatamente successiva.