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Una volta introdotta la figura della madre, l’autore indaga il rapporto che la legava a Kahn raccogliendo delle testimonianze di amici e parenti che erano vicini alla madre quando lei rimase incinta. La voce over sulle immagini dell’autore che si reca parlare con la coppia di amici della madre, fornisce delle informazioni iniziali dalle quali parte la ricerca.

I miei si conobbero per caso ad una festa a Filadelfia. Mia madre aveva trentadue anni e mio padre sessanta.

La famiglia di lei non appoggiava la relazione, così, quando rimase incinta, decise di sparire per un po’. Si trasferì dai suoi amici Charles e Susannah Jones.

Si offrirono di adottarmi.

L’incontro con i due amici della madre è teso a sottolineare le difficoltà che la donna ha incontrato quando rimase incinta senza essere sposata. Difficoltà che è ribadita dalle sorelle della donna nell’incontro successivo introdotto dalla voce over.

I miei zii , Abbot e Willy non si erano mai bevuti la storia dell’amore romantico.

Odiavano mio padre e si rifiutarono persino di pronunciarne il nome. Forse, se avesse sposato mia madre, sarebbe stato diverso. Ma Lou non corrispondev al loro ideale di gentiluomo anglicano.

Le sorelle di mia madre invece erano disposte a parlarne.

Sebbene l’intervista alle sorelle di Harriet non aggiunga niente di nuovo circa le difficoltà incontrate dalla madre del regista nell’affrontare la maternità da single, essa smuove qualcosa nella percezione che il figlio ha sul ruolo del padre nella sua vita e in quella di sua madre. Si ha infatti, per la prima volta nel documentario, un rivolgersi diretto dell’autore al padre, una corrispondenza immaginaria nella quale il figlio pone delle domande scomode al padre chiedendogli un confronto.

La voce over che legge la breve lettera che l’autore indirizza al padre si accompagna a delle immagini decontestualizzate da tutto il resto. La

natura che esse ritraggono infatti non ha alcun nesso né con le immagini che la precedono né con quelle che la seguono, ma ben rappresentano la svolta intimistica che suggerisce il pensiero dell’autore.

“Caro Lou, questa è la prima lettera che ti scrivo.

Ripensavo a quando promettevi di passare da noi e sparivi. Allora pensavo fosse colpa del lavoro, ma i motivi erano altri.

Hai mai avuto intenzione di farlo? O lo dicevi solo per acquietare mia madre? Noi ti aspettavamo.”

La lettera costituisce, a mio avviso, una delle note maggiormente autobiografiche del documentario. Essa infatti nel rilevare due posizioni temporali diverse, quella presente che corrisponde all’atto dello scrivere, e quella del passato, rievocato attraverso un pensiero e ed un sentimento legato all’ “io” passato dell’autore, mette in atto la duplicità temporale che caratterizza l’autobiografia.

Dopo questa immersione nell’autobiografia, il documentario vira ancora una volta verso un racconto più biografico andando a mostrare un’altra delle grandiose opere progettate da Kahn: il Kimbell Art Museum. Attraverso brani di trasmissioni radiofoniche, materiali di archivio e interviste audio d’epoca, l’autore ricrea l’atmosfera nella quale venne progettato e costruito il museo in Texas. Questi materiali vengono poi accostati ad immagini dell’ oggi, tese a rappresentare la complessità dell’edificio e sono inoltre supportate dalle interviste a chi lavorò con lui su questo complesso architettonico.

L’autore intervista tra gli altri anche l’architetto Stern che rinforza il concetto emerso dagli incontri precedenti, per Kahn l’unica cosa che realmente contasse era l’architettura. E la sua devozione per il lavoro è anche il fulcro del commento fuori campo che segue.

Quando morì aveva debiti per mezzo milione di dollari.

Eccolo che parla con dei committenti con assoluta calma e tranquillità mentre sapeva che stava facendo bancarotta.

Lo studio andò in perdita su tutti i suoi progetti, eccetto il Salk Institute.

La lista dei progetti non andati a buon fine era sempre più lunga: il convento delle suore domenicane in Angola, il progetto della City Tower, il Pocono Art center, la Fleischer house, la Morris House, la House for Cheerfull Living, il progett oper lo sviluppo urbanistico di Baltimora, la Kansas City Office Tower, il Roosvelt Memorial of New York, il Palazzo dei Congressi a Venezia, il Palazzo di Abbasabad a Teheran, e infine, la sinagoga Mikva Israel a Filadelfia e la sinagoga di Hurva a Gerusalemme.

Un edificio degno della fama dei grandi monumenti della città Santa. Non c’era progetto pià prestigioso.

I materiali di repertorio che mostrano Kahn nel suo studio o in riunione con i committenti si mescolano ai molti disegni dei progetti mai realizzati dall’archietto.

Ma la voce over anticipa anche quello che vedremo subito dopo: il progetto della nuova sinagoga a Israele.

3.11 Il nomade

Il nuovo capitolo si apre con il viaggio del regista ad Israele. Attraverso le parole della voce over abbiamo subito chiaro che anche il racconto che seguirà sarà totalmente caratterizzato dalla sua doppia natura, biografica e autobiografica. La volontà di voler scoprire perché il progetto non è mai stato realizzato permea l’intero capitolo ma, ed è chiaro subito da questo primo intervento in voce over, in questa parte più di ogni altra, si assiste ad un processo di identificazione con la figura paterna.

La visita del regista al muro del pianto infatti prende i colori di una nostalgia nei confronti di una esperienza mai vissuta. Il suo tentativo del regista infatti è quello di rivivere quello che il padre aveva vissuto molti anni prima nella sua stessa situazione ed è attraverso questa compenetrazione che il regista tenta, durante tutto il documentario, ma in particolare in questo capitolo, di toccare la figura paterna e farla sua.

Quando arrivai a Gersualamme mi trovai circondato dai pellegrini. Erano tutti alla ricerca di qualcosa. Ero nel posto giusto.

Mio padre non mi parlò mai delle sue origine ebraiche. Non so cosa provasse a riguardo. Ma di fronte alle rovine del tempio deve aver sentito un legame. Era impossibile non provare nulla persino per me che sono ebreo solo a metà.

Il tentativo di identificazione col padre e la seriosità del commento in voce

over, sono però traditi da una delle sequenze più buffe del documentario in

cui l’autore si presenta in chiave fortemente autoironica. Di fronte a quel luogo di culto e circondato da persone in preghiera, l’autore deve fare i conti con il continuo cadere della kippah, il copricapo che è stato invitato ad indossare poco prima, apportando al documentario un improvviso cambiamento di tono che finisce per sottolineare l’impossibilità della tanto agognata identificazione con il padre.

Per conoscere fino in fondo il motivo per cui il progetto della sinagoga non è andato in porto, l’autore intervista l’allora sindaco di Gerusalemme come viene anticipato dall’intervento in voce over.

Teddy Kollek è l’ex sindaco di Gerusalemme. Lavorò con Lou al progetto della sinagoga per sette anni.

Kollek, ormai novantenne, dimostra di non avere molto memoria per ricordare esattamente cosa accadde, Kahn morì prima che il progetto fosse finito e non trovò nessuno che volesse portare avanti la sua idea. L’autore si pone delle domande, volte come sempre, a capire i suoi pensieri.

Da allora sono cambiate molte cose disegnerebbe lo stesso progetto oggi? Lo avrebbero preso per un sognatore visto che desiderava unire gli ebrei del mondo in un unico edificio?

Dopo l’ennesima intervista ad un altro collaboratore del padre, l’archietto Safdie, che suggerisce di vedere la figura di Kahn come una sorta di nomade, le immagini di repertorio ci riportano nell’intimità del rapporto padre-figlio.

Mi ricordo adesso il piccolo tappeto nello studio di Lou. Lo stendeva e ci dormiva sopra quando era sopraffatto dalla stanchezza.

Forse non aveva gettato le radici in nessun posto.La sua famiglia si era trasferita diciassette volte in due anni. Kahn non era il suo vero cognome, in realtà si chiamava Shmalowsky. Suo padre lo cambiò nel 1915.

L’unico punto fisso nella sua vita fu sua moglie Esther.

Restarono insieme da quando aveva ventotto anni a quando morì. Non so come si sentisse a casa, ma di certo rappresentava un porto. Ho visto Esther solo una volta al funerale di Lou.

Il suo sguardo mi passò attraverso. Purtroppo è morta prima che ci potessi parlare. Ho solo questa intervista concessa ad uno studioso di architettura.

Le immagini di repertorio si mescolano ancora una volta con vecchie fotografie, immagini della Filadelfia di oggi e con un’intervista visionata dall’autore stesso che mostra Esther. È la voce over a fare da collante fra tutti questi materiali assai diversi fra loro dando unità e fornendo un punto di vista personale su ognuno di essi.