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Autori, traduttori ed editori nell’antichità

5 TRADUZIONE: RAPPORTI DI INTERDIPENDENZA FRA

5.2 Autori, traduttori ed editori nell’antichità

Sappiamo che già le culture più antiche, come quella mesopotamica e quella egizia, praticarono la traduzione di testi giuridici e politici ma nemmeno una cultura curiosa, aperta e raffinata come quella greca arrivò a concepire autonomamente la traduzione di un’opera letteraria da una lingua straniera. Soltanto nella letteratura latina, con la traduzione dell’Odissea da parte di Livio Andronico troviamo il primo esempio di traduzione letteraria e il fatto che i grandi classici romani del I secolo a.C. (Varrone, Cicerone, Orazio) concordassero nell’indicare proprio in Livio l’iniziatore della letteratura latina, per quanto consacrazioni del genere possano contenere esagerazioni, ci dà la misura dell’enorme portata storica della sua iniziativa.

L’élite romana ellenizzata leggeva già Omero nell’originale ma la traduzione di Livio, rendendola disponibile in lingua latina e metro italico (il saturnio), potè essere facilmente adottata nelle scuole contribuendo enormemente alla divulgazione del modello greco a Roma. Essa tuttavia non fu concepita soltanto come testo scolastico ma anche come operazione artistica: costruzione di un testo che stia accanto all’originale sforzandosi di conservare, attraverso un nuovo codice linguistico, i contenuti e la qualità artistica del modello, ma sia al tempo stesso fruibile come opera autonoma. Come tale essa contribuì direttamente al progresso dell’esperienza letteraria in lingua latina. La figura del traduttore letterario si pone dunque fin dagli esordi al centro di quella complessa rete di relazioni che costituisce la comunicazione tra culture diverse e il suo ruolo di mediazione è talmente vivificante da dare impulso ad una intera tradizione letteraria.

Ma se pure all’Odusia, come pare, fu accordato fin da subito quel carattere di creatività che le garantiva l’ingresso a pieno titolo nel novero delle opere originali, ciò non determinava per il suo autore alcuna forma di vantaggio economico diretto. Del resto, all’epoca, nemmeno l’autore di opere prime, quale Livio pur era, poteva contare su una specifica forma di introito economico al di fuori degli spazi della committenza pubblica o privata, all’epoca ancora estremamente limitata.

Livio era un liberto del patrono Livio Salinatore di cui aveva assunto il prenome. Giunto a Roma, secondo le fonti, a conclusione della guerra fra Roma e Taranto, fu attivo come autore di testi scenici e attore nella rappresentazione di alcuni suoi lavori, ma l’attività da cui in primo luogo traeva sostentamento era quella del grammaticus, maestro di scuola. Il vantaggio derivante dalla sua traduzione, come pure dalle sue opere prime, era dunque di tipo indiretto e si concretizzava nell’accrescimento della sua fama e quindi dell’autorevolezza di precettore, mentre occasioni circoscritte di riconoscimento economico potevano derivare da rappresentazioni pubbliche di suoi lavori drammatici 104.

Ancora all’epoca di Cicerone nulla era cambiato quanto alla condizione economica del lavoro intellettuale a Roma, se non lo sviluppo della committenza sia pubblica che privata, che aveva consentito nel tempo ad alcuni artisti di diventare acclamati autori popolari, come Plauto, o di vivere all’ombra di importanti circoli aristocratici, come Terenzio, in

104 Tuttavia è proprio Livio a guadagnare per la sua ‘associazione professionale’ il

primo riconoscimento di uno statuto ufficiale quando nel 207 a.C. l’applaudita esecuzione in pubblico di un partenio (canto di fanciulle), in occasione di una cerimonia religiosa, determina l’insediamento del collegium scribarum histrionumque in un edificio pubblico, il tempio di Minerva sull’Aventino.

entrambi i casi riuscendo a trarre sostentamento direttamente dalla propria attività artistica.

Cicerone, che scrive per diletto o interesse personale, non può avvalersi di nessun tipo di diritto economico sulle sue opere. Ciò non significa però che non esistesse già una prima forma di mercato editoriale, che dava luogo ad un introito economico e su cui vale la pena soffermarsi. Cicerone mostra una chiara consapevolezza dei diritti morali ascrivibili all’autore di un’opera letteraria e appare determinato a farli valere, pur non disponendo ancora di specifici strumenti giuridici.

Una sua epistola indirizzata all’amico Attico (Epistulae ad Atticum, XIII 21, 4-5)105, ci attesta entrambe le circostanze appena evidenziate.

105

«Dimmi, vuoi pubblicare testi senza il mio consenso? [...] Trovi giusto che qualcuno abbia il mio libro prima di Bruto, a cui, su tuo suggerimento, lo dedicherò? Balbo mi ha scritto di aver fatto copiare dalla tua copisteria il quinto libro del De finibus, nel quale io però ho introdotto delle modifiche: non molte, ma comunque qualcuna. Farai bene dunque se terrai riservati gli altri libri, in modo che Balbo non abbia una edizione scorretta e Bruto riceva un libro già comprato da altri. Ma questo basti, affinchè non sembri che mi preoccupi di dettagli insignificanti. Anche se queste sono in verità le cose che contano di più per me : che altro c’è di così importante? Ho così tanta fretta di mandare a Varrone il libro che ho scritto per lui su tua indicazione, che l’ho già mandato a Roma da copiare. Se lo vuoi l’avrai subito. Ho infatti scritto ai copisti che concedano di farne una copia anche ai tuoi, nel caso che tu lo volessi. In ogni caso, però, lo terrai con te finchè non ci vediamo, come del resto sei solito fare con la massima cura, quando ti sia stato espressamente chiesto da me. Non so come prima mi ero scordato di dirtelo. Anche Cerellia, certamente animata da una passione straordinaria per la filosofia, si fa fare copie dai tuoi copisti : e ha proprio questi libri del

De finibus. Io ti assicuro (posso sbagliarmi, è umano) che non li ha avuti dai miei

copisti, perchè li tengo sempre d’occhio ed è davvero difficile che siano riusciti a fare due copie contemporaneamente : a stento sono riusciti a prepararne una! Con tutto

Nell’epistola Cicerone si rivolge ad Attico, il suo editore, chiedendogli di non diffondere copie della sua opera non conformi alla redazione definitiva. Si tratta di una chiara affermazione del diritto dell’autore all’integrità dell’opera. D’altra parte Cicerone riconosce che tale diritto deve essere esercitato con dichiarazioni esplicite e che la circolazione di redazioni difformi dalla definitiva è imputabile all’editore, qualora non ci sia stata in proposito una espressa indicazione. Non sappiamo quali strumenti avesse Cicerone per far valere questo diritto fuori dal rapporto di fiducia che lo legava all’amico. Probabilmente nessuno e proprio per questo egli affidava la cura editoriale delle sue opere ad una persona a lui intimamente vicina. Se Attico garantiva questa cura pare che d’altra parte fosse lui il titolare di una qualche forma di diritto economico sull’opera. Attico ha allestito un laboratorio di copisteria, che possiamo considerare come una bottega editoriale dell’epoca, dove si realizzano e smerciano a ritmo elevato copie manoscritte di testi, attraverso il lavoro di schiavi o liberti specializzati. Non sappiamo con certezza se esistesse una qualche forma di contratto economico tra Cicerone e Attico tale da garantire a Cicerone una partecipazione agli introiti derivanti dalla vendita dei suoi libri, ma sembra legittimo pensare che all’epoca non venisse assegnato un valore economico all’opera in quanto tale, bensì alla sua copia, che richiedeva l’impiego di manodopera specializzata e di un materiale scrittorio, il papiro, molto costoso e di difficile reperibilità. Era la copia ad essere venduta e veniva pagata per il suo valore materiale, dunque era l’editore, responsabile della produzione delle copie a realizzare un guadagno. È possibile piuttosto che Cicerone coprisse i costi di un certo

questo non voglio fare nessuna colpa ai tuoi copisti, nè giudicare te: sono io che ho tralasciato di dire chiaramente che non volevo ancora che i libri fossero pubblicati».

numero di copie da distribuire gratuitamente agli amici. Anche Cicerone a quanto pare aveva un suo laboratorio di copisteria ma non in grado di servire un pubblico, come quello di Attico, e probabilmente allestito per esigenze personali, cioè per procurarsi autonomamente copie di libri che lo interessavano, o per realizzare in proprio copie da regalare a qualche amico. Sembra dunque che già nella fase della latinità classica sia distinta chiaramente la figura dell’autore da quella dell’editore e mentre sono già poste le basi per una affermazione del diritto morale dell’autore, appare totalmente sbilanciato verso l’editore il diritto allo sfruttamento economico dell’opera.

Questo è il quadro entro cui in epoca imperiale si sviluppa un vero commercio librario, con imprese commerciali e punti di vendita gestiti da un bibliopōla che faceva copiare e vendere i libri su commissione.

Per tutto questo periodo, sotto il profilo economico, non dissimile dalla condizione dello scrittore è quella del traduttore. Peraltro sono per lo più gli stessi scrittori a cimentarsi nell’attività di traduzione, che è sostanzialmente traduzione dal greco.

La pratica della traduzione letteraria, sebbene come abbiamo visto accompagni lo sviluppo della letteratura latina fin dalle origini, non era estremamente diffusa, poiché il principale fruitore della produzione letteraria era il limitato pubblico aristocratico, presso il quale era molto diffusa la conoscenza del greco e che quindi era per lo più in grado di porsi direttamente in rapporto con le opere originali. D’altra parte proprio questa competenza del pubblico e la sua capacità di giudicare, nel confronto con l’originale i risultati di una traduzione, ha favorito molto presto l’articolarsi di un vivace dibattito sul tema della traduzione, all’interno del quale sono state poste le basi per il riconoscimento del diritto morale del traduttore.

Posizione di primo piano all’interno di questo dibattito è ancora occupata da Cicerone, il quale individua lucidamente le due opzioni fondamentali del traduttore: essere fedeli alle parole del testo (traduzione letterale) o rispettare piuttosto il pensiero in esse contenuto (traduzione letteraria). La preferenza da lui accordata alla seconda opzione e ribadita poi da Orazio contribuirà in maniera determinante a orientare la collocazione della traduzione nella sfera, se non dell’originalità, comunque della creatività.