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Fluidità del concetto di autore nel Medioevo

5 TRADUZIONE: RAPPORTI DI INTERDIPENDENZA FRA

5.3 Fluidità del concetto di autore nel Medioevo

Proprio questo accostamento nel segno della rispettiva originalità, sarà in un’epoca di scarsa cultura filologica quale quella medioevale all’origine della sostanziale confusione che regnerà tra autore originale e volgarizzatore (traduttore dal latino al volgare o da un volgare a un altro). Tra Alto e Basso Medioevo si assiste infatti all’affievolimento della nozione stessa di auctor :

Succede che si distingua male fra autore, recitante, copista come nel caso di Turoldo che firmò [pur essendone solo il copista] il manoscritto di Oxford delle Chanson de Roland. Senza dubbio è prudente ammettere, salvo prove in contrario, che la parola autore abbia questi tre significati più o meno intrecciati 106.

Ad essere precisi il concetto di autore più che indebolirsi, è riferito quasi esclusivamente ai classici. La nozione di auctor si salda strettamente a quella di auctoritas e l’auctoritas deriva dall’appartenenza alla tradizione. Lo scrittore medievale ritiene che ciò che afferma possa ottenere riscontro presso il pubblico non in virtù della propria originalità ma piuttosto in virtù del manifesto richiamo all’eredità del passato. Per questo egli tende a nascondersi, più che distinguersi, dietro le ampie spalle del maestro di riferimento. Dall’indebolimento del concetto di

106 Zumthor, P., Semiologia e poetica medievale, Milano, Feltrinelli, 1973, citato in

Guglielmino, S., Grosser, H, Il sistema letterario. Duecento e Trecento, Milano, Principato, 1987, p.49.

autore dipende quindi l’anonimato di molte opere dell’alto Medioevo e, in minor misura, dei secoli successivi. Questa incuria verso l’identità dell’autore apre il varco ad una sorta di anarchia culturale per quanto riguarda i rapporti tra autori e traduttori. Come scrive Cesare Segre:

La distinzione tra volgarizzamento e opera originale è assai elastica.: se Bono [Giamboni] tratta come cosa sua la materia del De miseria [che invece è opera di Lotario, papa col nome di Innocenzo III], rifacendone la cornice, eliminando e aggiungendo capitoli, riassumendo e ampliando, e guardandosi dal riconoscere il suo debito verso Lotario e le altre sue fonti, d’altra parte i racconti del

Novellino (spesso per quanto ci consta, abilmente

rielaborati), son talora tratti quasi alla lettera da raccolte affini107.

La distinzione di ruoli resta dunque salvaguardata per quanto riguarda le traduzioni dal greco e dal latino, ma tende a scomparire per quanto riguarda la traduzione di opere contemporanee. Questo fenomeno può essere facilmente interpretato come un aspetto del più generale contesto di decadenza culturale che, secondo una vulgata ancora diffusa, avrebbe caratterizzato tutta l’epoca medievale.

Ma non è mia intenzione riallacciarmi ad alcuna lettura oscurantista del Medioevo. Vorrei piuttosto porre l’accento sul fatto che la circolazione di testi scritti in varie lingue e dunque l’esigenza di tradurre da un volgare ad un altro è un aspetto originale di questo periodo, nel quale mentre si

107 Segre, C., I volgarizzamenti, in Lingua, stile, società, Milano, Feltrinelli, 1963, citato

dissolvono le strutture istituzionali che presiedevano al mantenimento della koinè culturale latina, vanno forgiandosi nuove identità linguistico- culturali, nell’ambito del più generale processo di costituzione di nuove identità nazionali.

I traduttori, come in generale gli intellettuali del tempo, anche i più consapevoli, si trovano dunque a doversi muovere in un polimorfismo linguistico-culturale di cui non si avevano precedenti in Occidente e rispetto al quale erano evidentemente impreparati. In primo luogo, mentre aumentava la produzione di opere eterogenee, spesso era obiettivamente difficile rintracciarne la genesi e le eventuali manipolazioni, anche perché la disponibilità di copie dipendeva dal lavoro degli amanuensi e la circolazione era assicurata dal sistema dei prestiti tra le biblioteche e come afferma McLuhan:

Il commercio librario nel Medioevo era un commercio di seconda mano, proprio come oggi lo è quello dei quadri d’autore108.

Si aggiunga a ciò che parte di questa produzione, in particolare quella di destinazione popolare nasceva già come rielaborazione di una tradizione orale.

In secondo luogo, appariva nettamente prevalente nei riguardi del pubblico l’esigenza dell’adattamento funzionale al contesto di approdo.

La cultura manoscritta era […], quasi intieramente una cultura do-it-yourself, fatta in proprio, e ovviamente più

che alle fonti si interessava al significato e all’utilità di ciò che produceva109.

Per quanto possa sembrare paradossale, sotto questo profilo, nell’epoca di cui stiamo parlando sembra di poter ravvisare i segni di quella stessa magmaticità che oggi noi stessi sperimentiamo, in conseguenza della globalizzazione della comunicazione e dell’enorme mole di prodotti culturali eterogenei che ci raggiungono attraverso le reti informatiche globali, anche fuori dai canali istituzionali del mercato editoriale. Anche noi, mentre ci sentiamo pervasi da un gioioso senso di libertà per l’enorme varietà degli orizzonti culturali che ci si aprono, ci sentiamo tuttavia sovrastati da questa proliferazione incontrollata, nella quale spesso non riusciamo ad orientarci e che riguarda non soltanto i testi ma il variegato complesso dei prodotti multimediali.

Dovrebbe pertanto essere facile per noi comprendere lo smarrimento che tra Alto e Basso Medioevo coglie gli intellettuali e in particolare quegli intellettuali di confine che sono i traduttori, i quali si trovano al crocevia di esperienze culturali multiformi e ai quali è richiesto un ruolo di mediazione tra autori e pubblici di sempre più variegato retroterra culturale. A questo smarrimento essi reagiscono privilegiando in ogni caso la fruibilità delle opere a scapito dell’integrità. Forse dunque non è del tutto legittimo attribuire a quest’epoca il semplice disconoscimento dell’autore, ma occorre piuttosto pensare al diffondersi di un senso di proprietà collettiva dell’opera, che autorizza ciascuno ad apportare le modifiche che gli appaiono più funzionali rispetto agli scopi che si propone e al destinatario cui si rivolge e che ancora una volta ci rimanda,

fatte le debite differenze, ad esperienze a noi vicine come l’uso disinvolto, poco attento alle fonti, che facciamo dei testi disponibili sulla rete informatica globale, qualora prevalga un’esigenza di rapida consultazione. In questa ottica e non semplicemente nella fosca luce della decadenza culturale deve essere inquadrato il declinare della preoccupazione filologica nel periodo in questione. È vero tuttavia che questo stato di cose, determinatosi in un contesto ancora privo di qualunque normativa di riferimento, ha consentito progressivamente una sorta di degenerazione dei rapporti tra autori e traduttori.

Dal più lontano Medioevo fino agli ultimi anni del XVIII secolo, gli uomini che esercitavano quell’attività da noi oggi denominata traduzione (soprattutto letteraria) si sono arrogati per così dire il titolo di autore, e la qualità di scrittore. Nessuna legislazione glielo impediva e l’uso consacrava questo comportamento. Allora era l’autore dell’opera originale che soffriva (o avrebbe potuto soffrire) di una simile situazione. Il traduttore invece, l’uomo che ‘romanizzava’ (cioè metteva in lingua romanza) un’opera straniera, si attribuiva nei riguardi di quella tutte le libertà di un autore. Toglieva o aggiungeva personaggi o episodi, trasformava la conclusione, cambiava il carattere dell’opera secondo il gusto della sua epoca e della nazione. Non di rado non citava nè l’autore nè l’opera che aveva saccheggiato, e talvolta si limitava appena ad indicare la lingua dell’originale. L’unica eccezione in proposito era per il greco o il latino: gli originali erano conosciuti, e nessuno avrebbe mai pensato di camuffare una traduzione

da Omero, Orazio, Plinio o Luciano. [...] Fin verso la fine del XVIII secolo tale atteggiamento è molto diffuso, nel caso di opere la cui notorietà nella loro lingua originale non costituisca elemento di pubblicità supplementare 110.

Se tra Alto e Basso Medioevo muta, come abbiamo visto, la cornice culturale del lavoro letterario, non muta invece la condizione economica del letterato stesso, come ha rilevato Jacques Le Goff nel suo libro Gli

intellettuali nel Medioevo. Aggiungiamo che le stesse considerazioni

restano riferibili ad autori e traduttori: da un lato abbiamo una classe di uomini economicamente autosufficienti, principalmente chierici, che esercitano l’attività di scrittore senza trarne profitto, dall’altra una variegata messe di figure (giullari, goliardi, trovatori, trovieri) che vivono o tentano di vivere del proprio mestiere di esecutori o autori-esecutori, cercando di ottenere un’assunzione stabile presso la corte di qualche signore feudale oppure, non riuscendoci, vagando di borgo in borgo per proporre la propria mercanzia di canti, recite, danze e talora trucchi, giochi e acrobazie.

Se i primi traggono sostentamento soprattutto dall’insegnamento nelle scuole, poche e quasi tutte ecclesiastiche, dall’attività pastorale, da incarichi pubblici, da committenze private, o anche dalle industrie del monastero in cui vivono, e scrivono in subordine alle loro attività primarie pur raggiungendo un alto livello di specializzazione, i secondi vivono soprattutto di esecuzioni pubbliche e non mostrano pertanto particolare interesse alla fissazione scritta dei testi, nemmeno dei propri, tanto da avvalersi soprattutto della trasmissione orale, pur fornendo la

materia prima, continuamente rimaneggiata, di molta produzione scritta in volgare coeva o successiva.

Ma, aggiungiamo subito che, anche nei secoli successivi, in età moderna, il rapporto quantitativo fra scrittori che vivono dei frutti della propria attività intellettuale e scrittori che debbono fondarsi su altri mezzi di sostentamento è ben lungi dall’essere radicalmente invertito: lo status sociale dell’intellettuale rimane un problema complesso111.

Il guadagno derivante dalle opere scritte, siano esse originali o traduzioni, resta ancora prerogativa di chi produce e distribuisce le copie, ovvero dell’editore, che per i secoli dell’Alto Medioevo è identificabile con il monastero o la sede vescovile che accoglie gli opifici dei copisti, mentre per il Basso Medioevo si articola anche nelle tipologie dello

stationarius, ovvero il cartolaio-editore che gestisce su commissione lo scriptorium universitario, e del gestore di uno scriptorium cittadino.

111 Guglielmino, S., Grosser, H., Il sistema letterario. Duecento e Trecento, op.cit., p.