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avvenne la prima vera svolta, con l’approvazione di una legge che comportava l’epurazione del personale insegnante non allineato al governo: 4 anche nell’Università d

Torino si faceva sempre più palese, così, un processo di “fascistizzazione” che era ben più

generale, e che trovava occasioni di esplicitazione soprattutto nelle circostanze ufficiali.

5

Il

1928, da questo punto di vista, era stato un anno cruciale. Insieme al decimo anniversario

della vittoria a Torino si era celebrato, con festeggiamenti ed esposizioni, il quarto

centenario della nascita di Emanuele Filiberto, figura decisiva per la storia dell’ateneo

torinese; lo stesso anno il Re era stato nominato professore honoris causa della Facoltà di

Lettere. L’occasione, con tutto il connesso apparato retorico-celebrativo, rivelava l’intima,

peculiarmente torinese connessione tra fascismo e sabaudismo, nel segno di una continuità

ideale con la tradizione, e soprattutto con la romanità imperiale.

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Torino, d’altra parte, si mostrava saldamente ancorata alla tradizione anche nel campo

artistico: l’imperativo fascista, che ammoniva «di non tradire la tradizione italiana»,

risuonando – sebbene con diverso accento – nei proclami di Ugo Ojetti e Margherita

Sarfatti, voci ufficiali del regime, e che pure aveva avuto nell’ambito torinese un seguito

assai minore che nella Milano del “Novecento italiano”, era venuto sommandosi a un

provincialismo accademico e inerte.

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O forse davvero Torino era «ad un tempo la più

3 Si veda B. BONGIOVANNI e F. LEVI, L’Università di Torino durante il fascismo, cit., p. 48 e A. D’ORSI, La

cultura a Torino tra le due guerre, cit., pp. 170 e 194.

4 Con tale legge è riconosciuta al governo del Re «la facoltà di dispensare dal servizio […] i funzionari impiegati ed agenti di ogni ordine e grado […] che, per ragioni di manifestazioni compiute, in ufficio o fuori di ufficio, non diano piena garanzia di un fedele adempimento dei loro doveri o si pongano in condizioni di incompatibilità con le direttive politiche del governo» (B. BONGIOVANNI e F. LEVI, L’Università di Torino

durante il fascismo, cit., p. 51). Sul Manifesto degli intellettuali fascisti di Gentile e sulla risposta di Croce, il Manifesto degli intellettuali italiani antifascisti, si veda E. PAPA, Storia di due manifesti. Il fascismo e la

cultura italiana, Milano, Feltrinelli, 1958; Idem, Fascismo e cultura, Venezia, Marsilio, 1974 e G.

MANACORDA, Letteratura e cultura del periodo fascista, Milano, Principato, 1974, pp. 10-11 e 95-100. 5 B. BONGIOVANNI e F. LEVI, L’Università di Torino durante il fascismo, cit., pp. 51-52.

6 Ivi, pp. 66-75; si veda anche Torino romana rievocata dal Prof. Bendinelli, in «La Stampa», 10 giugno 1928, p. 5; Le esposizioni ed i festeggiamenti di Torino nel 1928, Parco del Valentino, aprile-ottobre 1928, Torino, 1928; Emanuele Filiberto, a cura del Comitato, Torino, S. Lattes & C., 1928; B. BONGIOVANNI,

L’età del fascismo, cit., pp. 147-149; G. CIUCCI, Il dibattito sull’architettura e le città fasciste, in Storia

dell’arte italiana, parte II, vol. III, Torino, Einaudi, 1982, pp. 287-300; A. SAGGIO, L’opera di Giuseppe

Pagano tra politica e architettura, Bari, Edizioni Dedalo, 1984, pp. 30-37.

7 Per la citazione vedi A. SOFFICI, Arte Fascista, in P. BAROCCHI, Storia moderna dell’arte in Italia, cit., pp. 26-31, e in partic. p. 28: «Il terzo principio impone all’arte fascista di non tradire la tradizione italiana […]»; ma si veda anche il primo principio enunciato da Soffici, secondo il quale «l’arte fascista deve dunque essere un’arte di spiriti nazionali, con caratteristiche particolari italiane che la distinguano dall’arte di ogni altro

provinciale e la più europea città d’Italia», e la sua seconda anima, quella europea, che a

lungo si era manifestata soltanto nell’«intraprendenza progressiva delle iniziative pratiche

e degli sviluppi industriali», non poteva tardare a dar prova di sé anche nel campo

culturale.

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Già Gobetti si era riproposto di «destare movimento d’idee in questa stanca

Torino», e a tal scopo aveva aperto lo sguardo all’Europa, e in particolare alla Francia.

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Sulla stessa scia il modello francese diverrà sempre più l’emblema di una libertà morale,

oltre che espressiva, un respiro en plein air dentro il «rancido e decrepito» ambiente

torinese, che lo stringersi delle maglie del regime stava rendendo ancora più asfittico.

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Era

paese. Arte non fascista e anzi discordante dallo spirito fascista è tutta quella che s’ispira a forme straniere, che adotta concetti estetici stranieri, che vanta caratteri e requisiti d’internazionalità» (Ivi, p. 27).

Sul “Novecento italiano” si veda F. TEMPESTI, Arte dell’Italia fascista, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 59-71; R. BOSSAGLIA, Il “Novecento italiano”. Storia, documenti, iconografia, Milano, Feltrinelli, 1979; P. FOSSATI, Pittura e scultura fra le due guerre, in Storia dell’arte italiana, cit., pp. 175-259, in partic. pp. 212- 214; P. BAROCCHI, Storia moderna dell’arte in Italia, cit., pp. 5-19 e 32-36; S. SALVAGNINI, Il sistema delle

arti in Italia. 1919-1943, Bologna, Minerva, 2000, in partic. pp. 47-55;Il Novecento italiano, a cura di E.

Pontiggia, Milano, Abscondita, 2003; M. CARDELLI, La prospettiva estetica di Lionello Venturi, cit., pp. 237- 252.

Giungendo a Torino da Parigi nel 1928, Spazzapan aveva commentato: «La città mi appariva provinciale. Giacomo Grosso e l’800 tonale. Un po’ di Hodler e di Egger-Lienz» (G. C. ARGAN, Spazzapan: la pittura

come rivincita, in Civiltà del Piemonte. Studi in onore di Renzo Gandolfo nel suo settantacinquesimo compleanno, vol. II, a cura di G. P. Clivio e R. Massano, Torino, Centro Studi Piemontesi, 1975, pp. 801-

808, in partic. p. 801). La chiusura dell’ambiente torinese rispetto a un orizzonte europeo si leggeva anche nella posizione di Enrico Thovez, che «per anni direttore della Galleria d’Arte Moderna, si era ostinato a negare ogni valore alla pittura di Renoir, Van Gogh, Cézanne» (A. BOVERO, Nota introduttiva, cit., p. 11); si veda anche A. DRAGONE, Le arti figurative, in Torino 1920-1936, cit., pp. 101-104 e 108-110, e Idem,

Lionello Venturi a Torino: Gualino e i “Sei”, in Da Cézanne all’arte astratta, cit., pp. 88-89.

8 M. MILA, Casorati a Torino, in «La Biennale di Venezia», luglio 1952, 9, pp. 20-22, in partic. p. 20. All’osservazione di Spazzapan citata nella nota precedente faceva da contraltare quella di Edoardo Persico, che proprio nel medesimo periodo parlava di Torino come della «città più francamente europea d’Italia» (A. BOVERO, Nota introduttiva, cit., p. 10). Per un quadro del contesto culturale, e soprattutto del panorama artistico, della Torino di questi anni si veda F. TEMPESTI, Arte dell’Italia fascista, cit., pp. 108-124; M. ROSCI, Arte applicata arredamento design, in Torino 1920-1936, cit., pp. 69-84; A. DRAGONE, Le arti

figurative, Ivi, pp. 97-151; M. ROSCI, Le arti decorative e industriali, in Torino tra le due guerre, cit., pp. 168-187; A. DRAGONE, Le arti figurative, Ivi, pp. 188-227; Idem, Le arti visive, in Torino città viva, cit., pp. 617-647; A. D’ORSI, La cultura a Torino tra le due guerre, cit., pp. 196-218; Lionello Venturi e la pittura a

Torino, cit.

9 Per la citazione si veda L. CARLUCCIO, Gobetti e Casorati, in AA.VV., Per Gobetti, cit., p. 106. Si veda anche la testimonianza di Dionisotti: «Torino non poté più essere per noi, studenti universitari dal 1925 innanzi, la città di Gobetti e di Gramsci. Non era però più, grazie a loro e a Dio, la città di Guido Gozzano. Le energie nuove che Gobetti aveva sollecitato e richiamato a Torino da tutta Italia si erano disperse, ma la improvvisa e violenta dispersione anche era valsa a spazzare via ogni traccia dell’età precedente. […] Non c’era insomma più posto per Thovez […]. Subito al di là delle Alpi, contava […] sempre più la Francia, e attraverso la Francia l’Europa, e fin l’America di Soldati e di Pavese» (C. DIONISOTTI, Premessa e dedica, in Idem, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, p. 15). Si veda, infine, A. D’ORSI,

La cultura a Torino tra le due guerre, cit., pp. 65-66 (ove si afferma che la Francia è «il primo referente

culturale, geografico e storico del gobettismo»), e pp. 76-78.

10 Per la citazione si veda L. VINCA MASINI, La cultura artistica nella Torino di Gobetti, cit., p. 115 e A. DRAGONE, Gobetti critico d’arte, cit., p. 123; il giudizio è espresso da Casorati in una lettera a Gino Rossi scritta nel 1919. Si veda poi A. DRAGONE, Le arti figurative, in Torino tra le due guerre, cit., pp. 201-202 e 218-220. Viene spontaneo il rimando all’introduzione alla terza edizione di Ottocento Novecento di Anna Maria Brizio, nella quale la studiosa spiega la genesi del volume, pubblicato nella sua prima edizione nel 1939, come un «atto di libertà» rispetto alla «soffocante autarchia» della cultura italiana sotto il regime

questa l’aria nuova che circolava tanto nello studio di Casorati, «dove i giovani avevano

libero accesso» e «si discuteva di modernità e tradizione, di pittura e di musica, ma anche

di politica»,

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quanto nell’aula universitaria dove Lionello Venturi teneva le sue così