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35 W. Sypher, Rinascimento, Manierismo e Barocco, Marsilio, Padova

1968, pp. 166-167. Cfr. anche A. Bonito Oliva, L’ideologia del traditore. Ar- te Maniera e Manierismo, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 20-22.

tempo esibito come tale. Non a caso il Domenichino,36 primo

maestro aristotelico di coreografica nelle Corti umanistiche del Quattrocento, invitava a danzare per ,()-8#+(-(, cioè per iconemi del tempo formulati dall’immaginazione. E in quel caso la necessaria 8)7+)4#$% si esercitava anche sulle arti figurati- ve oltre che sui codici mimetici e ritmici del danzare, quasi si trattasse di ‘fermo-immagini’ mirabili, composti di tutto ciò che la fantasia s’attende ed evoca per muovere le emozioni.

C’è un’interessante didascalia ad apertura della commedia mitologica Ni Amor se libra de Amor di Calderón37 che rielabo-

ra la favola di Amore e Psiche di Apuleio. Essa ci informa di un dettaglio: la bella Selenisa giunge danzando con il suo seguito «suelta el cabello» e «coronada de flores», un pathosformel, avrebbe detto Warburg. Alla stessa iconografia corrisponde po- co dopo la sorella Astrea. Analoga l’apparizione di Siquis con le sue dame, terza sorella e protagonista che, secondo un perfetto meccanismo di tempo che ritorna, danza anche lei adornata di ghirlande. Le tre fanciulle attraversano in successione il palco- scenico, muovendosi con «planta veloz» – altro pathosformel – perché ansiose di offrire i loro tributi al simulacro di Venere, come tale completo del suo arciere bambino Cupido. Il raffronto con la Primavera del Botticelli è immediato e naturalmente con le tre Ore, le ninfe danzanti presso la dea che simboleggiano le stagioni e il battito vitale del tempo cosmico. Richiama la ma- niera del Maestro fiorentino anche il ritorno degli stessi patho-

sformeln in una ritmica che si fa ciclica e che dunque coinvolge

a funzioni empatiche sia il tempo che lo spazio della rappresen- tazione. E Calderón non si perde nemmeno la conseguente di- mensione metafisica platonizzante, didascalia profonda sia del testo drammatico che dell’opera figurativa: i tre cori che ac- compagnano la danza delle fanciulle incitano «a rendir el cora- zon a la diosa» e con la loro coralità in eco slargano l’orizzonte scenico spazio-temporale fino alle sfere del Cosmo. Inoltre Se-

lenisa, Astrea e Siquis sono nomi che pongono in relazione

quelle sfere – i primi due –, con il soffio vitale – il terzo – e

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Domenichino da Piacenza, De Arte saltandi et choreas ducendi. De la arte di ballare et danzare, manoscritto f. Ital. 972, Bibliotèque Nationale de Paris, datato 1425.

37 P. Calderón de la Barca, Obras Completas, Edición, Prólogo y notas de

dunque con la pulsione erotica per la quale l’Eros si sublima nella sua dimensione cosmica in questo in svolgimento ritmico per ,()-7#+(-(, grazie proprio ai magistrali pathosformeln che lo compongono.

La terza modalità della visione iconica la chiameremo del

Simulacro (H=(G+() e corrisponde alla focalizzazione della

‘figura intera’ del personaggio. Questi sarà solo sulla scena e impegnato in un soliloquio oppure in un monologo, ma in que- sto caso vi saranno presenti altri personaggi tutti però rivolti al protagonista per attenzione e sguardi, con ciò veicolando anche l’attenzione del pubblico verso di lui. Con la ‘figura intera’ il personaggio viene appercepito come apparizione scenica dotata di una qualche natura eccezionale rispetto a quella di ogni essere umano: sapiente, regale, eroica, santa, bellissima, mostruosa, sacrificale, perversa, etc., tutte rappresentazioni di un pathos particolarmente intenso. Emblematica configurazione simula- crale è, a chiusura del II Atto, il soliloquio di Segismundo in ca- tene nella sua prigione, laddove la riflessione sulla relazione tra sogno e reale formula una sorta di manifesto della stessa poetica autorale dell’universale disinganno, pur concludendosi ad effet- to con un refrain popolare.38

Sempre in Calderón altro emblematico momento simulacrale è l’icona del santo martire Don Fernando che, come Cristo, agonizza ignudo su una misera stuoia al centro del tablado-

mundo, e così il Cristo di Velázquez. Immagine iconografica

che ha ispirato Peter Brook a teorizzare l’idea di Grotowski di un ‘teatro povero’, laddove per l’attore è sufficiente una stuoia dove nascere, morire e rappresentare il mondo in presenza del pubblico.39

La configurazione iconica è dunque imprescindibile dal si- mulacro poiché in esso sempre una qualche qualità divina pren- de corpo e assume fattezze simboliche visibili e venerabili. In- fatti, sulla questione della rappresentazione del Cristo il Secon- do Concilio di Nicea ha dibattuto a lungo per risolvere infine a favore delle immagini le sorti a venire dell’intera cristianità. Di conseguenza, tutte le immagini sacre ben fatte sono state dichia- rate ammirevoli per la qualità della venustas e perciò degne di

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P. Calderón de la Barca, La vida es sueño, II, vv. 2148-2187.

veneratio da parte dei fedeli. L’adozione di termini dichiarata-

mente pagani per ufficializzare il culto delle immagini connota valori davvero audaci per la querelle del tempo.40 Occorre ri-

cordare che proprio termini come venustas, pulcritudo, elegan-

tia, costituiranno poi dei criteri di riferimento del valore estetico

nelle Vite del Vasari. Naturalmente tutto ciò è transitato dalle arti figurative alle rappresentazioni del Teatro Sacro e soprattut- to dell’Auto Sacramental, inaugurando scambi di concezioni tecniche anche con tutto il coevo sviluppo dei teatri, profano tragico, comico e farsesco (pasos ed entremeses), anche que- st’ultimo impegnato nella rappresentazione della iconicità, sia pure in maniera derisoria.

Le strategie iconiche assolvono spesso a funzioni di meta- linguaggio. Nell’iconismo cervantino la satira e il metalinguag- gio vanno di pari passo: a parte il ricorso al ‘teatro nel teatro’ in commedie come Pedro de Urdemalas, ciò è pienamente accadu- to almeno in due dei suoi Entremeses, gli ultimi datati 1615. In

La cueva de Salamanca una beffa trasforma in diavoli perso-

naggi che interpretano il ruolo di attori, raddoppiando sulla sce- na il meccanismo e l’inganno della scena stessa; in El retablo de

las maravillas un intero paese crede di vedere una vicenda per

immagini su uno schermo, laddove sullo schermo non c’è pro- prio nulla. Due opposti eccessi di credulità mettono dunque in moto un’altra scena che è reale nella sue illusioni e che vive nel- le regioni della aristotelica fantasia. Sulla scia di Cervantes, po- co dopo, in Francia Corneille celebrerà il capolavoro iconico del genere meta-drammatico e meta-teatrale, L’Illusion comique, 1635.

L’iconicità nel frattempo è penetrata a fondo nella cultura nazionale popolare spagnola, grazie al magistero di Ignacio de Loyola. Infatti all’inizio dei suoi Ejercicios espirituales41 pre-

scrive ai fedeli di dar forma ai luoghi del rito con termini che evocano il lavoro dell’immaginazione in vista della messinscena di uno spettacolo. L’influsso che questi precetti del gesuitismo avranno sulle pratiche artistiche e teatrali sarà enorme. Nota

40

R. Gambino, L’icona e la sua natura, «PAN» n° 24 (2008), pp. 127- 140. Cfr. anche AA.VV, Nicea e la civiltà dell’immagine, «Aesthetca Pre- print», n° 52 (aprile 1998).

41 I. de Loyola, Ejercicios espirituales, in Obras Completas, ed. de P.I.

Calvino nella sua mirabile Lezione sulla visibilità a proposito degli insegnamenti di Loyola come via per raggiungere la cono- scenza dei significati profondi: «il fedele viene chiamato a di- pingere lui stesso sulle pareti della sua mente degli affreschi gremiti di figure, partendo dalle sollecitazioni che la sua imma- ginazione visiva riesce a estrarre da un enunciato teologico o da un laconico versetto dei vangeli».42 Dunque già l’iconismo di

Loyola applica una sorta di metodo interpretativo iconologico quanto al rapporto tra testo e immagine, ma rovesciato, poiché qui il testo è reale e non sotteso virtualmente all’immagine co- me sua didascalia, mentre è l’immagine a vivere in una sfera virtuale che evoca il lavoro dell’artista o del poeta.

Le condizioni per cui l’icona si manifesti agli occhi della mente come un IJ&;G/), corrispettivo mentale del manufatto simulacrale, le descrive il grammatico Porfirio: il Simulacro è dotato di forma simbolica mutuata dalle geometrie delle figure regolari euclidee come da quelle metamorfiche non-euclidee, ed è fatto di materiali altrettanto simbolici, quali l’oro incorruttibile e l’avorio (il primo Simulacro sarebbe stata l’immensa statua di Fidia dello Zeus crisoelefantino), l’argento, il cristallo, la perla e l’ebano, il marmo. E ancora è dotato di pose e sguardi codifica- ti, per esempio i due sguardi di Venere, l’Urania e la Pandemia. Anche le sue cromie sono simboliche: l’oro divino, il celeste co- smico, il rosso trionfale e/o sacrificale, il verde fecondo, il bian- co luttuoso, il nero infernale e/o germinativo. Infine fissi sono i suoi attributi – protesi della figura o oggetti – quali le ali, la ce- tra, la cerva, il pavone, il cigno, Cupido con la sua freccia, ma anche le corone e gli scettri, le aureole e le «mandorle sacre».43

Vi si conforma il teatro: i suoi protagonisti, nel momento del- la loro apparizione in ‘figura intera’ sulla scena, simili a simula- cri, appaiono dotati delle loro forme simboliche. È evidente che la figura retorica privilegiata dalla configurazione simulacrale è la Metafora, alla cui <)2'=0$( visiva fanno da ancelle la Meto- nimia, la Sineddoche, l’Ecfrasi, la Prosopopea, e altro.

Caratteristica del Simulacro può essere però l’attitudine me- tamorfica: dalle sembianze umane a quelle animali, vegetali, magari restando a mezzo nel processo di trasformazione, come i

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