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3 Per cui si veda B. Foglia, Michelangelo nel Teatro, Vivarium, Napoli

2009, e in particolare l’introduzione (pp. 13-25).

4 P.P. Pasolini, Lettere 1940-1954, a cura di N. Naldini, Einaudi, Torino

Così mi salvo, torno a Roma con l’idea di essere finito: ossia di aver compiuto la mia funzione. […]

Destituito di autorità, autore non più indispensabile, carico di poesia e non più poeta […]

– sono di nuovo un disoccupato, io, un ragazzo dalle cattive e ingenue letture che scrive per vendetta (contro di sé) e offre un corpo di martire agli indifferenti. […]

Michelangelo vecchio, cerco qualcosa a cui la ricerca di stile mi è servita solo come pazzia, mistica ripetizione.

Reduce dai bassi di Messina, dalla casbah di Catania, così, trascino con me la morte nella vita.

Per il lettore avvertito l’agnizione è immediata: l’ipotesto cui Pasolini allude qui è l’impressionante capitolo I’ sto rinchiuso

come la midolla (Rime, 267), in cui Michelangelo descrive con

oltranza espressionistica la sua condizione fisica devastata dalla vecchiaia, nella casa decrepita di Macel de’ Corvi, concludendo con un’angosciosa riflessione sulla vanità dell’attività artistica.5

5

Così si conclude l’autoritratto in versi: «Che giova voler far tanti bam- bocci, / se m’han condotto al fin, come colui / che passò ’l mar e poi affogò ne’ mocci? / L’arte pregiata, ov’alcun tempo fui / di tant’opinïon, mi rec’ a questo, / povero, vecchio e servo in forz’ altrui, / ch’i’ son disfatto, s’i’ non muoio presto» (vv. 49-55). Cito dall’edizione: Michelangelo, Rime, a cura di E.N. Girardi, Laterza, Roma-Bari 1960, pp. 127-128. Sull’autoritratto miche- langiolesco rimando al bel saggio di Antonio Corsaro Appunti sull’autori- tratto comico fra Burchiello e Michelangelo, in Il ritratto nell’Europa del Cinquecento, Atti del Convegno (Firenze, 7-8 novembre 2002), a cura di A. Galli, C. Piccinini e M. Rossi, Olschki, Firenze 2007, pp. 117-136; mentre per gli autoritratti figurativi è ricco di spunti il libro di Paul Barolsky, Miche- langelo’s nose. A myth and its maker, The Pennsylvania State University Press, University Park (Pennsylvania) 1997.

2. «L’atleta del tormento di tre secoli»: Michelangelo secon-

do Ungaretti

Nell’opera di Giuseppe Ungaretti, Michelangelo viene espli- citamente nominato una volta in poesia, e molte nelle prose dei saggi e degli interventi critici e giornalistici.

Ungaretti ha di Michelangelo una visione drammatica: le sue opere contano in quanto espressione del tormento dell’artista, la cui fisionomia si delinea per radicali dicotomie. Per Ungaretti, Michelangelo è all’origine della coscienza barocca, da lui defi- nita come la coscienza di una rottura insanabile: quella tra mon- do antico e mondo cristiano, tra il senso della bellezza e l’eudai- monismo del primo e l’angoscioso sentimento del peccato del secondo. Michelangelo è colui che, al culmine del Rinascimen- to, intende nel profondo una rivoluzione in corso (in questo sen- so Ungaretti lo paragona a William Blake) e ne prevede dram- maticamente l’esito:

In Michelangelo – anche in Michelangelo poeta – appare netto l’urto fra l’idea della bellezza (identica a bene, identica a bontà) colta dalla proiezione platonica nel divino delle umane proporzioni, e la notte, l’ombra che dà vita al viso e che parte dagli occhi, la notte che ci viene dalla debolezza, dalla ma- linconia della carne, dal sentimento che tutto il creato è corrotto dalla morte, che principiando a vivere si principia a morire. È quella notte che proviene dalla scissura tra fisico e morale e che ci frutta, dopo Gesù, l’orrore e l’analisi e la responsabilità del male, e l’attaccamento al male come a una nostra crea- tura disgraziata, come a una Maddalena bollente nelle nostre vene e che tor- nerà innocente per colmo di peccato.6

In questa idea (di ascendenza nietzschiana) di un’evoluzione storica segnata dallo iato del cristianesimo, e del senso del pec- cato a esso connaturato, Michelangelo convoglia su di sé tutte le tensioni e i conflitti accumulati dalla cultura occidentale da un paio di secoli, e più precisamente a partire da Dante: «Miche- langelo soffrirà per tutti, sarà l’atleta del tormento di tre seco- li».7

6

G. Ungaretti, Poesia e civiltà, in Id., Vita d’un uomo. Saggi e interventi, a cura di M. Diacono e L. Rebay, Mondadori, Milano 1974, p. 311. Si tratta del testo di una conferenza tenuta dal poeta il 14 febbraio 1933 a Bruxelles, e poi il 3 marzo successivo a Barcellona.

7 «In Dante c’è il presentimento di un’Europa moralmente disgregata. […]

Questa dicotomia si polarizza su due testi figurativi messi a confronto: il Giudizio Universale della Sistina e le Pietà della vecchiaia, la Pietà di Palestrina e la Pietà Rondanini (fig. 1). Sono due fasi dell’ispirazione che corrispondono a due visioni del divino antitetiche tra loro. Ma se per il Cristo del Giudizio Ungaretti non reputa necessario spendere ulteriori parole oltre a quelle che lo definiscono semplicemente come il Cristo terribile dell’Apocalisse, nella descrizione delle Pietà si diffonde in un’ekphrasis dalla forte accentuazione emotiva:

Michelangelo, e già dai suoi tempi, aveva rappresentato nel Giudizio il Cristo dell’Apocalisse, il Cristo che giunge terribile sui nembi e, già dai suoi tempi, Michelangelo aveva ritratto poi, nelle ultime due sue Pietà, e special- mente nell’ultima, incompiuta, nella Pietà Rondanini, il Cristo che per pietà degli uomini ha, innalzando l’uomo sino alla sua divinità, da uomo patito, con orrore di Dio, la morte.8

Nelle Pietà della vecchiaia ogni quadro è finalmente spezzato: non esiste più né scultura, né pittura, né architettura, né poesia secondo i canoni propri a ciascuna di queste arti; ma esiste la necessità d’esprimersi, e null’altro. […] E le parti lasciate grezze, e le parti portate a finimento: le gambe che cedono, vane, infelicissime, come per ricordarci che il vero atto vivo è quello del camminare. E la mano della Madre che per sostenere il Figlio fa tutt’uno col suo petto, conservando autonomia violentissima solo per un eccedere di amo- rosa trepidazione: tutta l’umana volontà, e la disperazione dinnanzi all’inutilità di tanta impresa è in quell’immensa mano di madre. Michelangelo sapeva che cosa voglia dire soffrire.9