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È insieme un padre e insieme un figlio nel profondo dell’anima, / il dolore ne

suoi occhi mesti è entrato due volte».

32 Un esame del profetismo di Bandini, condotto su tutto il corpus della

sua produzione, è svolto da Silvia Longhi in Profezia e arti divinatorie in Bandini, «Rivista di Letteratura italiana», 1 (2010), pp. 87-111. 33

«Ma noi, che adesso stiamo per uscire dal tempo / oscuro del secolo, non abbiamo nemmeno una speranza di luce. / Ecco si compiono due millenni da quando tra noi / è giunto dal cielo il figlio stesso di Dio, / e ancora ci sono guerre feroci e stragi di fratelli / del cui sangue innocente è imbevuta la terra, / mentre delitto e frodi governano le cose umane / e l’amore per le cose celesti si oscura. / Allora col cuore ascolto se per caso Giona o una qualche / sacra Sibilla predica il nostro futuro».

dum seorsum positus expergiscitur alter lumina languidulus semisopora terens; et lychno similis mens sublucana Sibyllae

post somni tenebras ardet et ante diem.34 (vv. 105-112)

Anche Isaia (fig. 10) è immaginato in dialogo col fanciullo, mentre in casa si muove un vento – e contemporaneamente si leva un altro vento, quello che gli fa profetizzare la nascita di Cristo:

Vultus ad puerum convertit pone loquentem Esaias (penetral cordis at usque tenet). Nescio quid vati digito puer indicet, eius sed turbat cirros aura coorta domi et ventus limbum vult secum ducere veli quod teneris alte fluctuat ex umeris. Fors vati patulas communicat esse fenestras et caelo nimbum se cumulasse gravem; ast alius ventus spirat sub corde Prophetae, auribus auscultat, mens procul exsul abit: infantem longe videt ille a virgine natum

cuius vagitum sceptra superba tremunt.35 (vv. 113-124)

Nella drammatizzazione delle figure Bandini si mostra atten- to anche alla posizione che queste occupano nella topografia della Sistina: per esempio, la posizione di Zaccaria sopra la por- ta d’ingresso della cappella viene messa in connessione col suo vaticinio dell’ingresso di Cristo a Gerusalemme:

34

«Si alza la Sibilla di Eritre prima che sorga il sole / (non lontano risuo- na l’onda del mare Ionio). / Già un fanciullo accosta un’esca accesa alla lam- pada e gonfia / contro la fiamma incerta, riverberato dal fuoco, le gote, / men- tre, in disparte, un altro fanciullo si sveglia / sfregandosi fiaccamente gli oc- chi ancora assonnati; / e la mente albale della Sibilla come la lampada / arde dopo le tenebre della notte e prima del giorno».

35 «Gira la faccia verso il fanciullo che parla alle sue spalle / Isaia (ma non

esce dal penetrale del cuore). / Non so cosa il fanciullo indichi al vate col di- to, ma una corrente / levàtasi dentro la casa scompiglia i suoi riccioli / e il vento vuol portare con sé un lembo del velo / che fluttua a mezz’aria dalle sue tenere spalle. / Forse comunica al vate che le finestre sono aperte / e che in cielo s’è accumulata una cupa tempesta; / ma un altro vento spira dentro il cuore del profeta, / ascolta con le orecchie e intanto la sua mente vaga esule altrove: / vede in lontananza un infante nato da una vergine / al cui vagito tremano gli scettri superbi».

Limina Zacharias servat, Davidis in urbem qui Christi ingressum vaticinatus erat, sacra voce canens: «Exsulta, filia Sion! laetitia clama, filia Ierusalem!

Pauper, demissus, mansueto vectus asello, en tuus intrabit rex Hierosolyma».36 (vv. 85-90)

Nella parte finale, l’animazione drammatica fa sì che le figu- re escano dagli spazi che le incorniciano, dialogando con le altre scene della volta. La Sibilla Libica (fig. 11) spalanca le braccia come l’Eterno nella scena vicina, quella della Separazione della

luce dalle tenebre:

At Lybicae vatis spirans apparet imago, nunc ipsum tacito visa furore capi;

et sicut Dominus qui proximus agmina lucis extentis manibus separat a tenebris, brachia pandit item librum clausura sibylla immensum, gestu paene imitata Deum: et vacuum Deus omnipotens illuminat, illa hoc homunum tempus carmine vaticino; claudere nisa librum simul et consurgere, pallam explicat ardentem versicolore croco.37 (vv. 149-158)

Infine, Giona (fig. 12), il profeta a cui è dato maggior spazio. A differenza degli altri Veggenti, intenti a meditare, o a leggere o scrivere, Giona volge gli occhi intorno con uno sguardo irre- quieto e pieno di desiderio:

Ingens hanc iuxta Ionas impendet in aram et sacri spatium prospicit omne loci. Qui gemuit nigra balenae clausus in alvo nunc ista attoniti luminis antra stupet.

36

«Zaccaria è il custode della porta, lui che aveva vaticinato / l’ingresso di Cristo nella città di Davide, / con sacra voce cantando: “Esulta, figlia di Sion! / Grida di gioia, figlia di Gerusalemme! / Povero, dimesso, in groppa a un mansueto asinello, / ecco entrerà il tuo re nella Città Santa”».

37 «Ma appare come fosse viva l’immagine della profetessa Libica, / sem-

bra colta proprio in questo momento da un segreto furore; / e come il Signore che lì vicino separa la massa / della luce dalle tenebre allargando le mani, / allo stesso modo la Sibilla spalanca le braccia per chiudere un libro / immen- so, quasi imitando Dio col suo gesto: / e Dio onnipotente illumina il vuoto, lei / questo tempo umano col suo carme profetico; / cercando di chiudere il libro e insieme di alzarsi, dispiega / il lungo abito ardente di croco dai riflessi can- gianti».

Non volvit libros neque secum cogitat alte,

occupat illi oculos irrequietus amor.38 (vv. 159-164)

Cosa cerchi quello sguardo lo svelano i versi successivi. So- no le Storie della Genesi affrescate sulla volta che il profeta ten- ta con ogni sforzo di vedere:

Ionas, cui dederat Dominus novisse futura, praeteritum mundi noscere tempus avet, sed super astantes nequit aspectare figuras, declivi camerae margine namque sedet. Tum pectus nisu resupinat collaque torquet, grande thronum cubito dexteriore premit; e curvo dicas prorumpere pariete crura, indicibus tensis fors vetus ira subest

cum nequam Ninivae Dominus peccata remisit aut umbram vati vermis adempsit edax. Sed lucem tenebris seiungi denique cernit et vere iustum colligit esse Deum.39 (vv. 165-176)

Nei versi successivi Bandini propone un’identificazione tra Giona, chiuso nel ventre della balena, e lo stesso Michelangelo, chiuso a lungo nel ventre buio del ponteggio per dipingere la volta (e per questi versi senz’altro conta il ricordo del famoso sonetto caudato a Giovanni da Pistoia I’ ho già fatto un gozzo in

questo stento, Rime, 5):

38

«Accanto ad essa [la Sibilla Libica] un Giona enorme incombe sopra l’altare e dall’alto / abbraccia con lo sguardo tutto lo spazio del luogo sacro. / Lui che gemette, prigioniero nel ventre oscuro di una balena, / ora guarda stu- pito questi antri di attonita luce. / Non sfoglia libri, non è immerso in profondi pensieri, un desiderio assillante è dentro i suoi occhi».

39 «Giona, al quale il Signore aveva concesso di conoscere il futuro, /

brama di conoscere il tempo passato del mondo, / ma non può contemplare le figure che stanno sopra di lui, / siede infatti ai margini della volta, là dov’essa declina. / Allora con sforzo piega il petto all’indietro, torce il collo, / col go- mito della destra si puntella sul grande trono; / diresti che le sue gambe pro- rompano dalla curva parete, / negl’indici tesi c’è forse una traccia dell’ira di un tempo / quando alla malvagia Ninive il Signore rimise i peccati / o un verme ingordo lo privò delle foglie che gli facevano ombra. / Ma finalmente vede la luce staccarsi dalle tenebre / e ne deduce che Dio è veramente giusto». La scena che Giona vede finalmente è quella a lui più vicina tra le Storie della Genesi che occupano i riquadri centrali della volta, ovvero la Separazione della luce dalle tenebre.

Nec mirum tanto sit Ionas factus honore, alvum cum Michael Angelus ipse cavam, inter captivus cameram tabulataque summa, noverit angusti suppliciumque loci,

dum stans depingit, laquearia vertice lambens, aut iacet et recidens stillat in ore color; et quamvis tacita solus depingat in umbra

divinum generant carcer et umbra iubar.40 (vv. 177-184)

Dopo aver ‘raccontato’ e drammatizzato le immagini dipinte, il carme si chiude dunque con il riaffiorare della leggenda del- l’artista.

5. L’immagine come destino: il Giona di Giorgio Vigolo Se nel suo carme Bandini propone una sovrapposizione tra la figura di Giona e quella dell’artista Michelangelo, nella poesia

Giona (1967) Giorgio Vigolo identifica direttamente se stesso

con il profeta che domina lo spazio della Cappella Sistina.41 La

poesia si apre con la rievocazione delle notti in cui il poeta ado- lescente, sdraiato a letto nella sua casa di Lungotevere dei Mel- lini, pensava al Giona dipinto da Michelangelo (vv. 1-8):

O notti della mia adolescenza nella città covata dalla nuvola

– una nuvola d’anime che sognano di nascere! non so perché, steso nel mio letticciuolo, pensavo al Giona rovescio,

non lontano dalla mia casa sul Tevere, al Giona dipinto sotto la sacra volta dove in conclave stanno sibille e profeti.

40

«E non è da stupirsi che Giona sia stato dipinto con tanto rilievo / per- ché anche Michelangelo conobbe la cavità / di un ventre, prigioniero tra l’alta impalcatura e la volta, / e il tormento di uno spazio tanto angusto, / mentre dipinge in piedi, sfiorando con la testa il soffitto, / o sdraiato, e il colore che ricade gli sgocciola in faccia; / e sebbene dipinga in compagnia soltanto del silenzio e del buio, / quel carcere e quel buio danno vita a un divino splendo- re».

41 G. Vigolo, Giona, in La luce ricorda, Mondadori, Milano 1967, pp.

385-386. Sulla fortuna di Giona e della sua storia come archetipo narrativo e motivo iconografico, rimando a: S. Longhi, C. Gibellini, Il segno di Giona, in La Bibbia nella letteratura italiana, III, Antico Testamento, a cura di R. Ber- tazzoli e S. Longhi, Morcelliana, Brescia 2011, pp. 287-310.

La fascinazione esercitata dal «Giona rovescio» sul giovane poeta si precisa nella strofa successiva, in cui dalla dimensione del ricordo (le veglie notturne) si passa a quella del sogno, cen- trale nella poesia di Vigolo:42 nella fantasia onirica, il profeta

michelangiolesco (che anche Bandini qualificherà come ingens) si fa immenso e terribile, e la sua voce si confonde con quella del poeta (vv. 9-17):

Non so perché pensavo ogni notte a Giona e tanto lo ammiravo e me lo sentivo parente. Mi s’ingigantiva nel sogno, supino, immenso, mi giungeva la sua voce portata dal vento, dal forte vento australe, vento d’acqua. Giungeva una voce rauca gridata dal vento e mi pareva la voce sua o la mia,

echeggiante da sotto l’oscura terribile volta dei conclavi sulla città dormente.

La voce che echeggia nella cappella dei conclavi (parola chiave non solo in questo testo, ma in generale nella poesia vi- goliana),43 e che il poeta assimila alla propria, è quella del pro-

feta sprofondato nel ventre della balena (vv. 18-24):

E quella voce gridava: «Mi scagliasti nel profondo, nel cuore del mare; l’alga mi si intorcinò sulla testa,

di sabbia e di conchiglie m’infangasti i capelli, l’abisso mi nascose

e tutti i flutti tuoi, tutti i tuoi gorghi passarono sopra di me!»

Nella strofa, Vigolo compone liberamente citazioni bibliche, tradotte quasi alla lettera, tratte dall’invocazione pronunciata da

42

Il sogno, sempre legato ai luoghi concreti di Roma, è un tema centrale nell’opera di Vigolo, come il poeta stesso indicava già nel 1924 in un testo intitolato Critica della ragione sognante (pubblicato solamente nel 1962). Sul «grumo onirico-visionario» della poesia di Vigolo si sofferma Lucio Felici nel saggio Poeti romani del Novecento. Giorgio Vigolo, «Studi romani», 1 (1982), pp. 59-76, in particolare alle pp. 67-73.

43 La prima raccolta poetica di Vigolo, del 1935, si intitola Conclave dei

sogni. Nella poesia in questione, la Sistina è il luogo sia dei conclavi storici delle elezioni papali («sotto l’oscura terribile / volta dei conclavi») sia di quelli virtuali in cui sembrano animarsi i Veggenti dipinti da Michelangelo (il luogo «dove in conclave stanno sibille e profeti»).

Giona dal ventre del pesce (Giona 2, 3-10). Ma della preghiera biblica il poeta tralascia i versetti che alludono alla salvezza del profeta, isolando quelli che si riferiscono al naufragio. Ciò che conta della vicenda di Giona è, dunque, il suo inabissarsi nel cuore del mare e nel ventre del pesce: è questo che rende il pro- feta biblico figura del poeta stesso, anch’egli sprofondato nel «gorgo / dell’esistenza», come rivela la lunga strofa finale (vv. 25-37):

O sogno, o immagine di destino, senso della mia vita

scagliata da una fionda,

balestrata da altezze inenarrabili, o sogno, o segno, sei rimasto immobile: il Giona rovescio, inghiottito dal pesce è sopra me, costellazione fissa, su me che in fondo al gorgo dell’esistenza mi trovo supino. Forse nell’ultimo istante, un vasto cielo di notte si aprirà sul mio letto e vedrò scintillare invece dell’Orsa il gran Giona rovescio tra le stelle.

L’identificazione forte del poeta in Giona, che diventa non solo sogno, ma anche segno, immagine di destino, e infine vi- sione quasi salvifica nell’ultimo istante, si gioca in una dimen- sione spaziale vertiginosa, in cui vi è un continuo passaggio dal- le altezze smisurate (la volta oscura e terribile, il cielo notturno) agli abissi più profondi (il cuore del mare, il fondo del gorgo).44

Due moti opposti si alternano in questo continuo dinamismo al- to-basso: il poeta si trova supino (e supino è anche Giona, al v. 11) in fondo al gorgo dell’esistenza, ma la sua vita è stata sca- gliata, come da una fionda, da «altezze inenarrabili»; Giona, dal profondo degli abissi marini, si trova prima proiettato sulla volta michelangiolesca, e infine, nell’immagine conclusiva della poe- sia, nelle altezze del cielo, come costellazione fissa scintillante sopra il poeta.

44

Di questa percezione dello spazio come tratto distintivo della scrittura di Vigolo parla Marco Ariani nella sua Introduzione a G. Vigolo, Poesie scel- te (1923-1966), Mondadori, Milano 1976, pp. 11-28: 17.

MARCELLA TRAMBAIOLI

E

FECTOS DE CROMATISMO Y DE CLAROSCURO PICTÓRICOS EN

L

A HERMOSURA DE

A

NGÉLICA

:

CANTERA POÉTICA DEL JOVEN

L

OPE DE

V

EGA Y SUBTEXTO DEL

P

OLIFEMO DE

G

ÓNGORA

En «La muda poesía y la elocuente pintura», ensayo cuyo tí- tulo retoma el famoso lema de Simónides de Ceos, escribe Orozco Díaz: «El elemento plástico-pictórico es central en nues- tra poesía barroca, y de ahí no sólo el influjo del pintor sobre el poeta, sino también la afición y comprensión, por parte de éste, de la obra pictórica».1 Más específicamente, a propósito de Lo-

pe de Vega el mismo estudioso afirma: «En pocos poetas espa- ñoles encontramos no sólo una mayor cantidad de alusiones y referencias a pintores, sino también un mayor gusto por lo pictó- rico y por la pintura».2

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1 E. Orozco Díaz, La muda poesía y la elocuente pintura, en Temas del

Barroco, de poesía y pintura, Granada, Servicio de Publicaciones de la Uni- versidad de Granada 1989, p. 39.

2 E. Orozco Díaz, La muda poesía y la elocuente pintura, p. 41; y en El

sentido pictórico del color en la poesía barroca, en Temas del Barroco, aña- de: «El caso de Lope es, junto al de Góngora, de lo más destacable en este sentido pictórico» (p. 93); ver también, La visualidad y lo pictórico, en A. Castro y H.A. Rennert, Vida de Lope de Vega (1562-1635), reed. F. Lázaro Carreter, Anaya, Madrid 1969, pp. 387-390; J. Portús Pérez, Pintura y pen- samiento en la España de Lope de Vega, Editorial Nerea, Madrid 1999, p. 157: «para él el Ut pictura poesis no era simplemente un tópico, pues creía sinceramente que arte y poesía no sólo perseguían los mismos fines con me- dios parecidos, sino que nacían de una misma inclinación natural del hom- bre»; A. Sánchez Jiménez, El pincel y el Fénix: Pintura y literatura en la obra de Lope de Vega Carpio, Iberoamericana, Vervuert, Madrid-Frankfurt 2011, p. 16: «De entre los escritores del Siglo de Oro, ninguno ejemplifica la relación entre pintura y literatura ni resulta más propicio campo de estudio para analizarla y entenderla como Lope de Vega Carpio. Ya sus contemporá- neos advirtieron que el Fénix era un escritor especialmente inclinado a la pin-

Que el camino abierto por Orozco haya resultado seminal lo muestra a las claras la bibliografía sobre el Fénix de los Inge- nios, contando ya con numerosos estudios acerca de la relación de la escritura del madrileño con las artes figurativas coetáneas. Al respecto, bastaría mencionar dos recientes monografías para documentar el interés de los estudiosos por este tema: Pintura y

pensamiento en la España de Lope de Vega de Portús Pérez y El pincel y el Fénix: Pintura y literatura en la obra de Lope de Ve- ga Carpio de Sánchez Jiménez.

Sabido es que el escritor es familiar y amigo de artistas como Diego de Urbina, Francisco Pacheco, Vicente Carducho y Feli- pe de Liaño, entre otros –, contribuye a reivindicar el estatuto de arte liberal de la pintura, colecciona cuadros, dibuja por pasa- tiempo y conoce de primera mano las técnicas pictóricas de su época, tal como se evidencia tanto en su escritura teatral como en su producción poética. La que escribe ha dedicado unas pá- ginas a la aplicación de la técnica del primer término desmesu- rado a los cuadros teatrales, con vistas a crear un autorretrato dramático, a menudo polifacético, capaz de dirigirse en clave metateatral al noble público para captar su benevolencia y con- seguir favores cortesanos.3

Y es un hecho que su mare magnum literario es una cantera sin fin que no deja de ofrecer ámbitos de análisis escasamente explorados. Es el caso de La hermosura de Angélica, poema épico-narrativo del joven Lope que pretende ser una continua- ción del Orlando furioso de Ariosto, en cuyas octavas se evi- dencian retratos, bodegones y otras aplicaciones de la técnica ecfrástica, así como la creación de brillantes efectos cromáticos y decorativos, numerosas menciones de artistas antiguos y mo- dernos y, finalmente, una larga alabanza de la pintura incrustada en el canto XIII. La presente contribución se propone aislar y !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

tura y, a menudo, describieron su arte con términos pictóricos, como hiciera su amigo Carducho en los Diálogos de la pintura».

3 M. Trambaioli, Lope in fabula: el Fénix pintado por sí mismo en el mar-

co dramático de sus comedias cortesanas, en I. Osuna y E. Llergo (eds.), Cul- tura oral, visual y escrita en la España de los Siglos de Oro, Visor Libros, Madrid 2010, p. 553: «Lope aplica a su propia figuración dramática la técnica del primer término desmesurado descrita por Wölfflin, puesto que realiza la aproximación exagerada de su autorretrato dramático al espectador superpo- niendo los primeros y últimos términos de la visión».

analizar algunos fragmentos poéticos de esta obra muy poco co- nocida de Lope, que no solo resultan significativos por el suge- rente uso del cromatismo y del claroscuro en términos pictóri- cos, sino que, al menos en parte, revelan ser un subtexto privile- giado del Polifemo gongorino.

De entrada, apuntemos que la vena descriptiva de los versos lopescos es muy abundante en el Romancero morisco4 y, por

contagio, en los poemas épico-narrativos como La hermosura

de Angélica,5 pero tampoco falta en los demás géneros poéticos

que el Fénix va ensayando a lo largo de su asombrosa carrera literaria. Como es lógico, los pasajes descriptivos le deparan in- contables ocasiones para dar prueba de su habilidad como colo- rista y de su «gusto por la combinación y contraste de colores».6

En una larga secuencia del canto II, en que las estrofas se construyen recurriendo a la técnica ecfrástica, el yo poético pasa reseña a una serie de imágenes pintadas. A nivel diegético, Car- diloro, príncipe de Tánger e hijo de los personajes ariostescos Mandricardo y Doralice, se ha prendado de la hija del rey de Fez, Clorinarda, forzada contra su voluntad a casarse con Lido, soberano moro de Andalucía. Enloquecido por el dolor, el de- sesperado joven se dirige a la cueva del tío Ardano para reco- brar el seso perdido, y en sus paredes admira los lienzos que ilustran las historias de Muza y Rodrigo, de Agramante y Marsi- lio, la batalla de Roncesvalles y las hazañas de los paladines del ciclo carolingio. En la séptima octava Lope, elaborando unos