le indiane d'America si raccontano
IV. b Figlia dell’inverno
La narrazione delle vicende esistenziali di Janet Campbell Hale si dispiega all’interno del capitolo più lungo dell’intera raccolta.
Hale confessa che “Daughter of Winter” è stato “the most difficult piece to write” (xxii). Oltre sessanta pagine illustano i difficili anni del disastroso e tormentato rapporto di Janet con sua madre, una donna che, a sua volta, ha vissuto un primo fallimento matrimoniale ed una seconda unione caratterizzata da dolore, sofferenza ed abusi.
Nel momento in cui scrive la propria autobiografia l’autrice ha perso da poco tempo una madre che ama, la cui approvazione da figlia ha sempre cercato e mai ottenuto, una donna infine, che nella sua “ignoranza” un giorno le esprime un parere preziosissimo affermando che “a writer’s business [is] to write the truth as she sees it” (xxii).
Hale non compie alcun tentativo di nascondere l’amarezza che continua a nutrire nei confronti di sua madre, un sentimento che diventa rabbia quando realizza il proprio fallimento nei tentativi compiuti affinché si allentassero fino a scomperire le tensioni nel loro rapporto.
In virtù del “consiglio” materno a proposito della scrittura, Hale racconta la mera verità riguardante le squallide condizioni in cui è costretta a vivere dall’età di cinque fino a dieci anni. A causa di una madre disillusa che ha perso la felicità, la piccola trascorre questo periodo di tempo in malconci autobus per spostarsi “all over the big states of Idaho, Washington, and Oregon” (27). La madre trascina con sé la piccola figlia nella propria fuga dal marito, dal suo alcolismo e dalla riserva Coeur d’Alene, luogo dove però fa spesso ritorno.
Durante questi anni di nomadismo e di miseria la madre di Janet svolge lavori umili e temporanei, ritrovandosi a vivere con la bambina in luoghi indecenti, alloggi squallidi e scarsamente adatti ad essere considerati abitazioni per esseri umani. L’estrema povertà, la mancanza di cibo e di abiti per proteggersi dall’inverno pungente colorano i tristi anni itineranti di Janet.
C’è poco da meravigliarsi se gli unici momenti che la scrittrice ricorda con piacere sono le −troppo brevi e scarse− riconciliazioni tra i suoi genitori ed i rientri alla riserva, dove il buon lavoro del padre assicurava la “non-povertà”;
non è Janet, però, a decidere e, puntualmente la madre compie “her
“disappearing act”” (31).
Janet subisce orribili maltrattamenti fisici, è schiaffeggiata e frustata da una donna che appartiene ad una generazione di genitori secondo la quale un simile comportamento rappresenta semplicemente una forma di responsabilità nei confronti dei propri figli.
Gli abusi fisici sono, dal punto di vista della scrittrice, la cosa più facile da comprendere e da perdonare, se paragonati al “verbal abuse [...], and the constant uprooting”102 di cui è protagonista nei primi anni della sua vita. (42) L’odissea di Janet Campbell Hale è caratterizzata da un continuo spostarsi dalla riserva ad altre città e dal successivo definitivo abbandono del territorio Coeur d’Alene nel 1956.
Il suo costante sradicamento le crea, inesorabilmente, consistenti problemi di adattamento, di socializzazione e (non ultimo) di identità.
Quando la madre di Hale decide di allontanarsi dalla riserva in Idaho per tentare “a new beginning” e di risolvere una propria insoddisfazione, sceglie
102 grassetto mio;
implicitamente di non vivere un’esistenza in armonia con la cultura tradizionale tribale.
La conseguenza più immediata di tale scelta è, naturalmente, che Janet non parla mai la sua lingua tribale ed eredita soltanto un’infarinatura, una conoscenza superficiale della cultura e delle tradizioni della propria comunità tribale in rapida scomparsa.
L’allontanamento fisico dalla terra d’origine le crea, quindi, non poche difficoltà nella creazione di una propria self-definition.
Costruirsi un’identità diventa per Hale ancor più problematico a causa di una mancanza di autostima provocata dai ripetuti insulti materni e delle sorelle maggiori, dal risuonare dei loro “You are not anything”, affinchè maturasse in lei la convinzione di essere priva di valore, un niente, una persona senza grazia che nessuno mai avrebbe accettato di avere accanto e che deve vergognarsi di sé stessa (61).
La scrittrice definisce sua madre “an absolute master of verbal abuse” che l’accusa di essere la sua peggiore gravidanza, le trasmette orribili sinsi di colpa, la disprezza, al punto che Hale afferma: “she swears at me [...] because I’m me” (61-33).
Nel dispiegarsi degli episodi autobiografici l’autrice tenta di motivare il comportamento della madre, Margaret, e, probabilmente, di convincere sé stessa che esistano delle valide ragioni per le quali essa scatena nei suoi confronti un’incontrollata aggressività.
Un contesto familiare avverso, una gioventù persa, un primo marito ingiurioso, due figli abbandonati per salvare sé stessa, l’alcool, un secondo matrimonio che la rende vittima di un uomo alcolista, una malattia invalidante, generano la rabbia di una madre che trova in Janet “her safest target” (44).
Il turbamento che matura nel suo animo irritato in cinquant’anni di vita infelice deve necessariamente trovare una valvola di sfogo: la figlia.
Il saggio narrativo che focalizza l’attenzione sul rapporto tra madre e figlia presenta, a mio avviso, delle pagine estremamente interessanti nelle quali l’autrice riesce a combinare momenti di forte emozione e commozione con reazioni colleriche di uguale intensità che, per qualche strano meccanismo, vengono represse.
I ricordi personali di Hale, i racconti di episodi passati fortemente significativi, le sue reazioni dense di dolore e di odio nei confronti di chi avrebbe dovuto darle amore e sicurezza, sono magistralmente alternate alle occasioni durante le quali Hale assiste calorosamente la madre, ormai straziata fisicamente e mentalmente dalla malattia, tentando di darle assistenza e conforto.
Durante alcuni momenti di “assenza dal presente”, la madre rivela a Janet, piangendo, la sua incapacità di rimuovere dalla propria mente l’atteggiamento sprezzante di sua madre e delle sorelle che facevano di lei, del suo modo di camminare e di parlare, oggetti di scherno e derisione, nonché del suo non riuscire a capire il motivo per il quale fossero così “mean” verso di lei.
Hale conforta la madre invitandola a dimenticare ciò che ormai fa parte del passato. Tali reminiscenze provocano, al contrario, il desiderio rabbioso di aprire la propria anima ferita rimproverando la madre di aver avuto, a sua volta, il medesimo meschino comportamento (alleandosi con le figlie maggiori) nella graduale esclusione di Janet dal contesto familiare.
Eppure quello speciale “courage” che la scrittrice sostiene di possedere in quanto donna Coeur d’Alene, qualità che scorre nelle sue vene e che distingue i membri della tribù, è smorzata, impallidisce di fronte alle sofferenze di una
madre “hideously crippled”. L’unica toccante, estremamente disarmante ed inattesa reazione che la scrittrice riesce ad avere è il silenzio, evitare lo scontro diretto con la persona che da bambina giura di non perdonare mai; nei sogni di adulta è, invece, la mamma nelle cui braccia vuole essere stretta per sentirsi sicura e felice.
Il commento finale di una di queste pagine dai toni molto forti è degno di essere riportato al fine di evidenziare come, nonostante gli abusi e le umiliazioni subite, Janet continui ad amare la madre, bramando nel suo dolore un gesto d’affetto prima che la madre la lasci per sempre:
“Nothing she ever told me that her own mother did or said [...], could hold a candle to her repertoire.
[...] But I comfort her now in her illness and helpless old age as she tells me of the cruelty inflicted upon her that she cannot forget. She sheds a tear or two for herself. I wipe them away” (61).
L’atteggiamento abusivo ed ingiurioso che Hale è costretta a subire non rafforza la sua self-esteem di donna nè favorisce lo sviluppo di un’autodefinizione etnica; esso provoca, al contrario, una rabbia, un odio che sfociano nel desiderio di fuggire via, “free of the names and faces of those closest to [her] who had treated [her] so badly when [she] was growing up”
(53).
All’età di quindici anni lascia per sempre la propria famiglia d’origine — e la scuola — nel tentativo di costruirsi un’esistenza diversa, ma la mancanza di autostima e di una tranquilla età infantile le rendono problematici anche il primo periodo di maturità nella Bay Area.
Ancora teen-ager sposa un uomo “who clearly looked down on [her]”, un euroamericano istruito il quale, naturalmente, ridicolizza l’identità etnica di
Janet e, nonostante lavori come assistente sociale, non perde occasione per usarle violenza ricordandole di essere priva di una buona base culturale.
Hale divorzia e si allontana da un simile individuo portando con sé il suo primo figlio, per il quale tenta di creare un’infanzia gioiosa (da condividere con lui), una versione tranquilla di quella velenosa realtà che brucia i primi anni della propria vicenda esistenziale. Un secondo matrimonio, dal quale nasce invece Jennifer, termina ugualmente in un divorzio.
Le disillusioni ed i fallimenti matrimoniali sono illustrati dalla scrittrice al fine di dar ampio credito alla tesi esposta nell’introduzione dell’autobiografia, secondo la quale la “dysfunctionality” familiare — intesa come il futto di incroci razziali e matrimoni misti che generano conflitti di valori e di identità
—, trasmettendosi inevitabilmente di generazione in generazione, è giunta fino a lei.
Nel corso dello squallido periodo sia infantile sia adolescenziale, anni durante i quali il suo anelito d’amore e di sicurezza è ricambiato con i feroci tentativi materni di alienarla, “excommunicate [her] from the family”, Hale trova rifugio e liberazione nei suoi primi sforzi letterari (60).
In particolare all’età di quindici anni compone delle creazioni liriche, “a great flood of poetry” (di cui non ricorda precisamente il contenuto) cominciando a pensare di poter essere una scrittrice un giorno (50). Spedisce le sue composizioni alle riviste di poesia evitando, però, di includere le buste affrancate e “self-addressed” poiché il suo unico desiderio è di “sending them out... out into the world beyond”, il più lontano possibile dalla propria famiglia che, prevedibilmente, legge e ridicolizza le storie e le poesie che Janet scrive (51).
L’autrice rivela che oltre alla creazione di poesie, “miles and miles of poetry about God only knows what and fantasized about one day being a writer, a real writer”, legge opere di autori afroamericani come James Baldwin e Richard Wright (52). Afferma, inoltre, di non leggere alcun libro di o riguardante i nativi americani mostrandosi, in linee generali, sostanzialmente vaga — in questo ed in altri passaggi della narrazione autobiografica — sulle possibili influenze letterarie subite ed evitando, strategicamente, che possano essere rintracciati sia il percorso della propria evoluzione di artista, sia le origini della sua carriera letteraria.
La cultura e l’istruzione, ancora una volta, sono la sua salvezza nella metà degli anni’60, quando è costretta a fare lavori inappaganti per prendersi cura del suo bambino e di sé stessa. I suoi sforzi sono ripagati con l’ammissione al City College di San Francisco ed alla possibilità di completare gli studi conseguendo la laurea a Berkeley, presso la University of California.
L’istruzione è, a questo punto della vita di Hale, l’elemento fondamentale che le permette di acquisire “a sense of direction”, un maggiore rispetto di sé, una più chiara definizione della propria identità femminile ed etnica, aspetti della personalità di una donna che, dopo aver trovato la forza di lasciare il proprio nucleo familiare, rintraccia dentro di sé il giusto percorso che la condurrà a diventare un’artista eccezionale.
IV.c Una donna in transition
Sulla strada dell’istruzione e del self-respect Janet Campbell Hale si avvia verso la creazione di un’esistenza da artista e da donna che comincia ad ottenere soddisfazioni sia personali sia professionali.
La propria odissea, un passato così terribile, le consente, ironicamente, di fortificare e temprare la propria personalità riuscendo — al costo del distacco dalle sue “blood ties” — a trovare la collocazione personale di donna mixedblood all’interno della multicultura americana.
Il distacco, sebbene una necessaria soluzione dell’adolescenza di Hale, non risulterà essere un modo per vivere meglio. Ripensando agli anni di vita itinerante trascorsi con la madre le riesce difficile avere compassione verso la sua “troubled childhood”, cercando di credere che non fosse così terribile. Hale ammette di non possedere un sentimento di sicurezza necessario per mettere da parte tutto ciò che continua a ferirla.
La donna matura che compie il viaggio a ritroso nella propria memoria deve riconoscere che nel profondo nulla è stato rimosso affermando: “but in my soul’s darkest corner I am ever the psychologically tortured girl I used to be, the scapegoat of my troubled, troubled family” (55).103
Janet Campbell Hale è ormai una “distinguished writer”, un’artista che si sposta da una città all’altra del continente americano per tenere le sue lectures, una donna perfettamente coinvolta nella vita della comunità nativa americana ed integrata nella società euroamericana; tuttavia il passato vive ancora dentro di lei.
103 grassetto e sottolineatura miei;
La fuga dalle sue origini si rivela un’ottima scelta da compiere in un momento particolare dell’esistenza in modo da evitare la distruzione psicologica e la completa alienazione personale e culturale.
Una volta, però, che Hale comincia a mettere ordine nella propria vita, i fantasmi del passato ritornano a tormentarla e nasce in lei la voglia di capire;
riaffiorano alla sua mente i ricordi di quando è torturata dalle ingiurie, dalle imprecazioni materne nonché dello sradicamento dalla propria comunità.
Per quanto concerne il rapporto con la propria famiglia — e in particolare con la madre — l’autrice assiste alla propria sconfitta personale nel tentativo di recuperare un rapporto bruciato dagli abusi e di costruire con lei un legame basato sull’affetto, la sicurezza e la comprensione.
La “scrittura terapeutica” le offre l’opportunità di individuare i motivi e le cause che provocano l’atroce atteggiamento materno senza fornirle una soluzione definitiva.
La malattia materna riavvicina le due donne, fa capire a Janet che nutre, malgrado tutto, un profondo affetto e rispetto nei confronti della madre e che desidera fortemente avere con lei un dialogo al fine di poter finalmente guarire quella profonda ferita dell’anima, cancellando per sempre il passato.
Ma Janet non dimentica, non cancella, non guarda al passato con il distacco e la compassione necessari, non è, dunque, in grado di risolvere definitivamente le tensioni tra lei e la madre.
Il timore dell’eventuale impossibilità di giungere ad una risoluzione definitiva per ciascun disagio esistenziale che traspare dalle frasi conclusive del saggio introduttivo di Bloodlines — come già evidenziato in precedenza — , ottiene una chiara ed esplicita conferma al termine del capitolo “Daughter in
Winter”, quando l’autrice dichiara: “My mom is gone. In the end there are no resolutions. Only an end.” (86).
Hale è lontana quando sua madre smette di vivere; eredita una fotografia di quando è una bambina “happy and healthy” che tiene esposta per guardarla sempre.
Dopo alcuni giorni ripone il suo “ritratto” in un baule nel quale conserva i suoi pochi e “precious” oggetti personali. E’ un gesto che diviene simbolico evidenziando, dal mio punto di vista, con quale semplicità l’autobiografa riesce a mettere da parte, chiudere per sempre in un baule gli oggetti e di come, al contrario, le risulti complicato — se non impossibile — riporre il proprio
“torturato” passato in un luogo dal quale non possa mai più “riaffiorare”, a meno che non sia lei a deciderlo.
L’artista indianoamericana che ottiene positivi riscontri di pubblico e di critica accademica è incapace di risolvere l’estraneità dal contesto familiare nel quale cresce, né tantomeno la “disfunctionality” che automaticamente si
“autogenera” all’interno di essa, in quanto il risultato di un background familiare “enmeshed”.
Janet Campbell Hale è una mixedblood la cui identità etnica è saldamente legata al senso di perdita della comunità che prelude a una conseguente loss of identity.
La comunità, intesa come una patria, una popolazione, una storia, una lingua è parte integrante della personalità di un indianoamericano che impara e riesce a capire sé stesso e ad identificarsi stabilendo o recuperando il legame con l’universo tribale.
Gli anni di nomadismo, l’imperdonabile “uprooting”, provocano l’estraneamento dell’autrice dal retaggio culturale tribale dei Coeur d’Alene,
un’alienazione che Hale tenta di comprendere, un vuoto che desidera fortemente colmare.
Questi sono i motivi per i quali i restanti capitoli di Bloodlines sono dedicati ad un’esplorazione genealogica ed etnologica; la scrittrice compie vari “scavi nel passato” (più o meno remoto), apre una finestra sul mondo dei Coeur d’Alene e degli euroamericani che hanno stabilito dei rapporti con loro, presentando i ritratti di coloro che hanno fatto parte — direttamente o indirettamente — della sua esistenza, condizionandone il percorso.
L’autobiografa getta sguardi occasionali su eventi storici che l’aiutano a muoversi nel proprio passato in maniera tale da capire se e come determinati episodi abbiano avuto effetto su di lei.
Il ritorno in specifici e significativi luoghi fisici della memoria consente all’autrice di ristabilire una relazionalità con il mondo tribale profondamente sentita ma, al tempo stesso, fortemente minacciata sia dalla società euroamericana, sia dal modo in cui è costretta a vivere i fondamentali primi anni formativi della propria vita.
L’adolescente torturata psicologicamente, che vuole a tutti i costi “break free”, aprirsi un varco il più lontano possibile da coloro che possono potenzialmente renderla “brokenhearted and brokenspirited”, è la stessa donna a realizzare che l’unico modo per definire la propria individualità in maniera completa è individuare e riconoscere il legame inscindibile che la pone in connessione con il proprio retaggio culturale nativo (xxi).
L’etnicità è un fattore fondamentale per lo sviluppo di un indianoamericano ed il rapporto con il luogo d’origine, in particolare per gli/le halfbreed, è estremamente importante al fine di recuperare le proprie radici etniche nella ricerca e nel riconoscimento di sé stessi, in quanto, come “dice” Hale, “no
matter what you do or where you go, you cannot get away from what you really are” (55).
La riserva Coeur d’Alene in Idaho è una “landbase”, è il luogo nel quale Janet — durante la sua prima visita da adulta — pensa per la prima volta alle
“connections” con la terra, con la gente, con le “ancestral roots”, nonché “of the possibility of [her] own bloodline continuing down through the ages”
(103).
Hale approfitta di incarichi professionali, di borse di studio per arricchire le proprie conoscenze, visita biblioteche, centri di studio, monumenti eretti in seguito ad importanti eventi storici, offrendo un quadro delle vicende belliche, diplomatiche, storiche ed umane che coinvolgono i suoi antenati. Queste pagine mostrano anche i processi di assimilazione ed alienazione subiti inesorabilmente dai parenti della scrittrice.
Nell’esplorazione del proprio “family tree” l’autrice esamina le figure femminili, soffermandosi in particolare sui personaggi delle zie e delle nonne.
La nonna paterna è coinvolta erroneamente in un episodio cruciale nella storia dei rapporti diplomatici tra il governo statinitense e le tribù native.
Quando le autorità impongono a Chief Joseph, capo dei Nez Percé, di trasferire la sua gente in un territorio lontano dalla loro terra d’origine in Oregon, questi decide di fuggire e di recarsi con la propria popolazione in Canada (stato che avrebbe garantito loro l’asilo politico). I Nez Percé si rendono, in tal modo, protagonisti del Great Flight del 1877 e trovano rifugio a Little Bear Paw, dove però l’esercito statunitense inizia le ostilità che termineranno con la resa di Chief Joseph.
Nel periodo in cui i soldati sono alla ricerca del capo dei Nez Percé, un gruppo di indiani Couer d’Alene (del quale fa parte la nonna di Janet) è
avvicinato da loro durante la semina delle “camas roots”; credendo di trovarsi di fronte alla gente di Chief Joseph, i militari minacciano ed aprono il fuoco contro di loro. Dai nascondigli sbucano i Nez Percé, che ritengono opportuno portare con sé anche il piccolo gruppo di Coeur d’Alene coinvolto, per un caso di “mistaken identity”, in un simile episodio. Ecco come la nonna di Janet diventa protagonista di un momento molto importante del travaglio storico ed esistenziale dei nativi americani.
avvicinato da loro durante la semina delle “camas roots”; credendo di trovarsi di fronte alla gente di Chief Joseph, i militari minacciano ed aprono il fuoco contro di loro. Dai nascondigli sbucano i Nez Percé, che ritengono opportuno portare con sé anche il piccolo gruppo di Coeur d’Alene coinvolto, per un caso di “mistaken identity”, in un simile episodio. Ecco come la nonna di Janet diventa protagonista di un momento molto importante del travaglio storico ed esistenziale dei nativi americani.