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d Il luogo come fonte di quel che si è

le indiane d'America si raccontano

IV. d Il luogo come fonte di quel che si è

La ricerca compiuta da Janet Campbell Hale nel proprio mondo familiare e tribale, l’analisi degli episodi più densi di significato, le domande che pone a sé stessa, le conclusioni alle quali giunge (ma anche le risoluzioni che non è in grado di trovare), terminano con il saggio “Dust to Dust”.

La parola “dust” (polvere) è la traduzione in inglese del nome del primo antenato (conosciuto) di Hale, Cole-man-née, anglicizzato in seguito in Campbell; non a caso in questo saggio una delle ultime discendenti di “Dust”

ritorna nel proprio territorio d’origine, dunque “to Dust”.

Giunge al termine un lungo viaggio nei luoghi fisici e della memoria di un’indiana mixedblood la quale, attraverso un esercizio narrativo “terapeutico”

(l’“autobiography in fiction”), consente di gettare uno sguardo — sia in superfice sia in gran profondità — sul difficile e tormentato primo ventennio della sua vita, sui vari episodi e personaggi che popolano il suo background etnico ed, infine, sulle linee politiche governative statunitensi che alterano e modificano le condizioni di vita degli indianoamericani.

In tale ottica, Bloodlines può essere identificato come un testo rivelatorio nel quale storia, “storytelling” e ricordo sono sapientemente intrecciati insieme; la scrittura diventa la funzione guida nel riassemblaggio dei frammenti di mito, storia, terra, cultura ed identità.

Bloodlines è sicuramente la rappresentazione di un percorso esistenziale difficile, sofferto e torturato descritto con grande dignità, franchezza ed orgoglio etnico che offre la visione di una vita radicata in un preciso retroterra storico e tribale da un lato, dall’altro condizionata dalla realtà urbana dell’America di oggi.

Janet Campbell Hale è una donna in cerca di un’identità moderna, la cui autobiografia rivela gli sforzi compiuti, le ricerche, le scoperte, il suo forte senso d’appartenenza alle origini nonostante un imperdonabile sradicamento da esse provocato dai Campbells.

Durante la ricerca delle sue radici etniche Janet evidenzia più volte come sia possibile sentir rivivere dentro di sé le tradizioni, la storia, gli antenati attraverso “inherited memories [...] in my blood and in my spirit” (158).

E’ questo il motivo per il quale Janet decide di raccontare alla figlia sia le mitiche “Coyote stories”, sia i racconti di situazioni riguardanti la propria infanzia ritrovandosi, inesorabilmente, a riesaminare gli scheletri dell’armadio Campbell che continuano a tenerla lontano dalle radici etniche.

Hale desidera trasmettere alla figlia l’importanza dell’eredità tradizionale tribale, ciò che ha scoperto a proposito della storia tribale, condividere con lei i propri ricordi e, magari, anche “the feeling for the land”, poiché è ritornando in quella land che avverte la possibilità che la sua stessa “bloodline” possa trasmettersi nel corso dei secoli (170).

Decide di condurre la figlia in Idaho, nella riserva Coeur d’Alene, di mostrarle la “sua home”, in quanto “for an Indian, home, is the place where your tribe began” (170).105 Nel corso di questa significativa visita, i ricordi sia belli sia poco piacevoli riaffiorano alla sua mente, in un continuo muoversi della narrazione tra sensazioni e considerazioni provocate dall’esperienza presente e flashback sul passato. E’ possibile notare, comunque, che finalmente l’autrice ha raggiunto una tranquillità interiore con le proprie origini culturali tribali e con la famiglia che è riuscita a crearsi, i suoi figli che sono parte di ciò che lei è ed è stata.

105 grassetto mio;

Janet vive la propria esistenza presente in serenità, uno stato d’animo che non le impedisce di avere la consapevolezza che la conduce ad affermare di non aver potuto o saputo in passato fuggire “... let my heart forget all I was reminded of today: my poor, transient childhood, my mother and sisters, my alcoholic father and what I am connected to through them (and my children through me); my homeland and history, my roots. (186-7)106

Tramandare il bagaglio culturale dei Coeur d’Alene e dei Campbells, in particolare, significa per la scrittrice dare alla figlia l’opportunità (a lei negata) di poter scegliere tra l’essere o meno un’indiana, senza privarla di valori così fondamentali per l’identificazione di un indiano d’America.

Le ultimissime pagine di Bloodlines mostrano la gioia di Hale nel ritornare nel luogo in cui cominciano i suoi ricordi, ma anche tutto il suo rammarico nell’ammetere che l’“ancestral land” non potrà mai sentirla sua. L’autrice nasce a Los Angeles, lontano dalla riserva, e cresce in un continuo allontanamento e riavvicinamento ad essa. Anche se il legame con la terra viene da lei ristabilito e rinsaldata l’identificazione con il proprio retaggio tribale, Hale deve — suo malgrado — ammettere: “I will remain [...]

estranged from the land I belong to” (185).107

Ritornare in Idaho con sua figlia è un atto ricco di valore che non significa semplicemente rivisitare il luogo che la vede crescere ed al quale sono legati molti dei suoi ricordi; per un halfbreed l’azione di “ricalpestare” la propria terra (il fondamentale rapporto con il luogo) è profondamente connessa con l’atto dell’autoriconoscersi e di autodefinirsi poiché “on the rez , he discovers

106 grassetto mio;

107 grassetto mio;

Who He Is and learns to take pride in His People”(187)108.

Bloodlines è una narrazione profondamente commovente, intensa e personalissima che coinvolge il lettore nel mondo femminile nativo mixedblood, un universo stereotipato, marginalizzato ed assai poco esplorato, un luogo di disagio e di recupero che produce soggetti oppressi capaci però, talvolta, di riuscire, mediante il passaggio obbligato del dolore, a riscattarsi e raggiungere il successo personale e letterario.

La voce unica dell’autrice che nelle prime pagine del testo dà ampio sfogo ad un profonda sofferenza, risplende nelle battute finali alla luce di ciò che ha guadagnato ed imparato dai tempi duri infantili e adolescenziali.

La transizione verso l’individualità di Janet Campbell Hale avviene attraverso l’angoscia orribile, le umiliazioni e le torture psicologiche dell’infanzia e dell’adolescenza e, passando per l’eredità etnica, le consente di

“rinascere” dall’altra parte padrona di sé stessa.

La struttura narrativa del testo non si presenta lineare e geometrica ma assume, piuttosto, “la forma di una progressione circolare”; la conclusione dell’autobiografia non esiste, nel senso che la fine dà origine ad un nuovo inizio, ad un’esistenza completamente nuova, “fondendo storia e eventi contemporanei nell’atto comune del raccontare una storia”.109

La storia di Janet Campbell Hale è fatta di dolore e fallimenti ma anche di una ricerca interiore che è un tendere verso quella forza meravigliosa che la scrittrice sente vivere dentro di sé come eredità indiana.

108 grassetto mio;

109 L. Coltelli, “Introduzione”, Parole fatte d’alba, Gli scrittori indiani d’America parlano, Castelvecchi, Roma, 1995; p. 7;

Approfondire la conoscenza della propria storia e della propria cultura le consente di (ri)appropriarsi dell’“ethnic identity” e dell’orgoglio di essere una Coeur d’Alene, dovunque le avversità della vita portino a vivere la propria esistenza, persino a New York (città nella quale Hale vive attualmente con il suo terzo marito), lontano dalla “rez” e dal territorio d’origine, nel grande calderone multietnico, dove bisogna faticare per non annullarsi e dove astenersi dall’integrazione con altri gruppi etnici non è la soluzione migliore per preservare la propria identità ed infine, probabilmente, un contesto nel quale è ancor più difficile vivere per chi, come Janet, ha un’identità mista che è già luogo di incontro/scontro tra due culture estremamente differenti.

Conclusione

Nel momento in cui si giunge alla conclusione di un percorso di lettura, di studio, di analisi e di interpretazione di testi differenti, è possibile — e a volte necessario —, in maniera quasi automatica, individuare i fili che tengono insieme le opere rendendole simili tra loro.

Le tre autobiografie, prese in esame all’interno della mia tesi, dimostrano che le donne indiane d’America, nel produrre le proprie narrazioni personali, hanno inaugurato una tradizione letteraria — diversa da quella tracciata dai loro “ethnic brothers” — fondamentalmente basata su precisi contenuti e sui modi di produzione dei testi, piuttosto che un vero e proprio genere letterario avente delle rigide regole.

I racconti di Sarah Winnemucca, Pretty-shield e Janet Campbell Hale, seppure originati da obiettivi diversi e creati mediante modelli differenti, sono, infatti, rivelazioni di storie di vite private finalizzate alla comprensione e all’affermazione delle loro protagoniste che, intrecciandosi con mito, leggenda ed eventi storici, integrano la narrazione con elementi di importanza storica sociale e cerimoniale.

Oltre a questo, il fatto che simili narrazioni sono prodotte e pubblicate in periodi storici differenti dimostra, dunque, a mio avviso, che le autobiografie delle donne indiane piuttosto che subire un’evoluzione o un cambiamento, sia strutturale che contenutistico, dovuto all’influenza del momento storico che le produce, vedono modificare le proprie forme esclusivamente in base al modo

di autoraccontarsi delle autobiografe che subisce delle significative variazioni a seconda della propria soggettività, degli scopi che le spingono a rivelarsi così apertamente, della voglia — oppure del bisogno — di autodefinirsi e infine degli strumenti che scelgono per farlo.

Sarah Winnemucca e Janet Campbell Hale, ad esempio, sono le autrici e le protagoniste di testi autobiografici self-written; la conoscenza della lingua e della scrittura inglese consente ad entrambe di scrivere la propria storia esistenziale in maniera indipendente, senza alcun bisogno di avere il supporto di un letterato bianco.

Ci sarebbe ben poco di cui meravigliarsi se le due autrici fossero “figlie”

dello stesso secolo e scrivessero le proprie autobiografie durante il medesimo periodo storico. Nulla di tutto questo. Janet Campbell Hale è una giovane e affermata scrittrice mixedblood contemporanea che vive e svolge la propria attività professionale attualmente a New York e che, non senza dolorose difficoltà, ha ricevuto un’adeguata istruzione euroamericana, laureandosi presso la University of California e potendo, dunque, scrivere autonomamente Bloodlines (1993).

Lo stesso non può essere, invece, affermato per Sarah Winnemucca che scrive il proprio racconto personale nel 1883, periodo durante il quale non era poi così “normale” né tantomeno semplice imparare a leggere e scrivere l’inglese. Sarah vive i primissimi anni durante i quali si compiono i tentativi di dare ai nativi un’istruzione euroamericana ma si manifestano, al tempo stesso, da un lato evidenti episodi di intolleranza nei confronti degli indiani che desiderano frequentare le scuole statunitensi e dall’altro azioni di resistenza da parte degli indianoamericani di acquisire le nozioni scolastiche.

Eppure Winnemucca in maniera assai sorprendente e ostinata riesce a imparare a leggere e scrivere da sola, senza un’adeguata preparazione scolastica, fino al punto di dare alla stampa il proprio manoscritto che diventa la prima autobiografia scritta da una donna nativa americana in lingua inglese e senza la mediazione di un letterato bianco.

Un miracolo? No, semplicemente determinazione, orgoglio etnico, attaccamento alla propria madre terra e alla propria comunità tribale e infine desiderio di convivere con gli euroamericani integrandosi nel loro sistema, preservando allo stesso tempo il proprio retaggio culturale indiano.

Difficile credere che le due produzioni letterarie — Life Among the Piutes e Bloodlines — siano separate da oltre un secolo poiché le caratteristiche personali di Sarah, unite al coraggio che scorre nelle vene dei Coeur d’Alene, forniscono a Janet Campbell Hale la forza necessaria per scoprire e ritrovare sé stessa nella narrazione intensa, personale e dolorosa di episodi privati e intimi, di percorsi della memoria e di imprescindibili legami di sangue, geocentrici e comunitari.

E cosa dire del confronto tra Sarah e Pretty-shield? Quest’ultima racconta la propria storia privata intorno al 1930 a Frank Bird Linderman che la trascrive servendosi del supporto di un’interprete avente il compito di tradurre il linguaggio tribale Crow; tali informazioni riguardanti i modi di produzione di questa autobiografia condurrebbero immediatamente alla deduzione che la produzione sia avvenuta prima di Life Among the Piutes. Ma ancora una volta il fattore tempo è una concezione molto relativa e il lettore viene nuovamente sorpreso.

E’ Pretty-shield, il soggetto narrante e protagonista del racconto, a determinare la differenza formale e strutturale tra la propria autobiografia e il

testo self-written di Winnemucca. Nonostante la collaborazione tra la donna Crow e il curatore della trascrizione avvenga circa cinquant’anni dopo, il fatto che Pretty-shield abbia resistito all’integrazione e a ricevere un’istruzione scolastica euroamericana, determina la presenza necessaria di uno scrittore e di un’interprete affinché possa essere costruita la narrazione autobiografica.

Ancora una volta il forte senso d’appartenenza alla propria tribù, l’orgoglio etnico racchiuso nel proprio retaggio culturale tribale, nonché la volontà di trasmettere alle generazioni future un simile bagaglio conoscitivo allo scopo di evitare la disintegrazione degli old Indian ways, spinge la donna nativa americana a rivelarsi apertamente.

L’attivismo politico di Sarah Winnemucca e l’autoanalisi terapeutica di Janet Campbell Hale sembrano essere i toni più forti che danno intensità alle loro autobiografie e che, di conseguenza, offuscano il legami tribali e comunitari delle due donne. Assolutamente no. Al contrario, l’eroismo e la self-reliance di Sarah sono radicati nella sua concezione della femminilità nativa americana e nell’opportunità che le donne Paiute hanno di svolgere importanti ruoli all’interno della società tribale.

L’autobiografa Paiute riesce a dare un senso alla propria esistenza nel momento in cui, sentendosi fortemente legata alla propria popolazione, decide di dedicare l’intera esistenza allo scopo unico di garantire la terra, i diritti umani e civili alla propria gente. In tal senso il racconto di Sarah è anche un documento che trasmette preziose informazioni riguardanti i modi di vita e di cultura di una popolazione indianoamericana.

Janet, la ragazza psicologicamente torturata e tormentata dalla propria famiglia che fa di tutto per liberarsi di lei, è in grado, (ri)appropriandosi della conoscenza della propria storia e della propria cultura Coeur d’Alene e

“ricalpestando” la propria terra ( la riserva in Idaho), di rintracciare dentro sé stessa il giusto percorso che la condurrà a diventare un’artista eccezionale.

Gli aspetti meravigliosi della cultura tradizionale tribale che Hale riesce a recuperare mediante le sue ricerche sono contenuti nella sua autobiografia offrendo la possibilità a chi legge — nativo e non-nativo — di ereditare un

“pezzo” di storia e di cultura indianoamericana.

Ancora una volta la differenza sostanziale è da rintracciare nell’artefice, in colui che organizza, crea e struttura il percorso narrativo.

Nel caso di Pretty-shield siamo di fronte a una donna che, avendo degli evidenti limiti culturali e conoscitivi, ignora gli scopi del suo curatore di preservare la saggezza e gli Indian ways degli indiani delle pianure ritrovandosi, rispondendo a precise domande e raccontando delle storie, a narrare sé stessa e la propria cultura.

Il discorso è ovviamente diverso nel caso di Janet e di Sarah che, essendo le uniche ideatrici dei testi, stabiliscono coscientemente di raccontarsi e in quale modo farlo.

La patria, le radici e la storia sono gli elementi attraverso i quali il percorso esistenziale delle tre donne acquisisce un senso e un’importanza che è sia personale sia collettiva; essi sono, in maniera significativa, valori fondamentali per chi è una “tribal person”, valori che accomunano le tre donne e le loro autobiografie scritte in momenti diversi e che, avendo finalità differenti possono apparire come opere aventi poco — o magari niente — in comune.

E’ interessante, a mio avviso, notare come la storia assuma nelle autobiografie di Sarah, Janet e Pretty-shield vari aspetti. Innanzi tutto importanti episodi storici riguardanti il contatto tra i colonizzatori e gli indiani

d’America sono al centro dei racconti e hanno come protagoniste le loro narratrici (oppure i loro valorosi antenati) che forniscono interessanti verità storiche da un punto di vista che non è quello dei settlers.

La storia, a sua volta, offre loro l’opportunità di testimoniare il proprio valore di donne indiane che, attraverso storie private, dimostrano il rispetto e l’importanza di cui sono oggetto, ed il ruolo che ricoprono all’interno delle rispettive tribù.

La storia, infine, consente loro di occupare un posto importante nel percorso storico-letterario americano e di essere ricordate, in diversi momenti e per motivi differenti, come delle donne esemplari.

Sarah è la prima donna nativa americana che scrive un’autobiografia autonomamente e che, autoeleggendosi portavoce del proprio popolo, collabora con l’esercito statunitense, rischia la vita, espone la propria reputazione e si reca a Washington per parlare con il Presidente degli Stati Uniti d’America al fine di sostenere la causa della sua gente.

Pretty-shield è molto probabilmente la prima donna che, nel momento in cui sono i grandi guerrieri a essere protagonisti dei racconti personali, accetta di rivelarsi apertamente a Frank B. Linderman diventando uno tra i primi esempi di donna trasmettitrice di sé stessa e della propria cultura e saggezza attraverso la mediazione di un letterato bianco.

Janet rivela da un lato quali sono le problematiche dell’essere una mixedblood nell’America contemporanea, individuando dall’altro le opportunità che offrono la propria etnicità e la società multiculturale consentendole di diventare una tra le scrittrici più interessanti del panorama letterario femminile statunitense.

Le tre autobiografie confermano, in conclusione, il ruolo fondamentale delle donne come storytellers, come trasmettitrici delle tradizioni tribali attraverso il racconto di storie depositarie di verità e concezioni cruciali per la

“sopravvivenza” culturale e personale.

Sarah, Pretty-shield e Janet evidenziano la “partnership” che le indiane d’America dividono nella strutturazione e nella conservazione delle tradizioni all’interno delle proprie comunità tribali.

Life Among the Piutes, Pretty-shield e Bloodlines sono una mescolanza di storie di resistenza e tentativi di mediazione tra la linea politica governativa statunitense e quella nativa americana, di miti e saggezza tribale, di medicine

powers, di umiliazione ed abusi ma soprattutto di “orgoglio e identità etnica”.

Queste tre autobiografie dimostrano che le donne indianoamericane non sono mai vanished e i ruoli da loro ricoperti smentiscono stupidi stereotipi patriarcali, secondo i quali le donne occupano una posizione inferiore agli uomini all’interno di una società incentrata sull’immagine del guerriero.

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