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Indian Women s Autobiographies: Tre Indiane d America si raccontano...

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Academic year: 2022

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI SALERNO

FACOLTA’ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE

Tesi di Laurea

Indian Women’s Autobiographies:

Tre Indiane d’America si raccontano...

RELATORE CORRELATORE Prof. Giorgio Mariani Dott. Elena Paruolo

CANDIDATA Monica Annunziata matr. 33/07472

ANNO ACCADEMICO 1997-98

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Aknowledgements

Thanks to: my closest, one and only friend Cinzia for the unforgettable joyful moments we are able to share and whose unfinished patience (!) allows her to tolerate and comfort me in hard times; Fabio for having told me: “never give up your passion,” and for being my “guardian angel”( whatever I do I think about you and I miss you so much); my uncle Deomilion for giving me his PC during my first “adventurous” writing attempts, for being my “personal e-mail sender” and for his precious help; my cousin Maria Rosaria for always being close to me; my cousin Gianpaolo ‘cause he rememdered just in time he could lend me his PC and for his kind helping in formatting and printing my text (I’ll never be a PC witch!); my two sisters for the love and esteem we share; my sweet friend Elena (Cip or Ciop?) for entering one fine day in 1998 the famous lecture room of the Faculty of Languages, from then on she has been a perfect workmate and, what is more a precious and sincere friend to count on; my coffee bean Edy for his marvellous involving foolishness, his smile and his grasp; Karen Peter for the opportunity she gave me to improve my English; Capitan Findus for having “unawares” suggested the title of my thesis; Rossana, Eva, Annamaria and Mrs Camera for our mutual esteem and their readiness to help.

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Ai miei genitori, a mio fratello Luca, a Fabio.

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INDICE

PREFAZIONE 1

CAPITOLO I 4

I. L’AUTOBIOGRAFIA E LE INDIANE D’AMERICA 6

I.A COS'È L'AUTOBIOGRAFIA? 6

I.A.1 IL PROCESSO AUTOBIOGRAFICO 12

I.B GLI INDIANI D'AMERICA: L'AUTOBIOGRAFIA 18

I.C "INDIAN WOMEN'S AUTOBIOGRAPHIES":

LE INDIANE D'AMERICA SI RACCONTANO 32

CAPITOLO II 45

II. SARAH WINNEMUCCA: UN'ESISTENZA DEDICATA ALLA

PROPRIA COMUNITATRIBALE 47

II.A AUTOELEGGERSI PORTAVOCE DEI PIUTES 51

II.B L’AUTOBIOGRAFIA COME SELF-VINDICATION” 56

II.C LE RELAZIONI CON I SETTLERS” 63

II.D LA DETERMINAZIONE DELL’“INDIAN PRINCESS” 70

II.E LA SOLUZIONE FINALE: ACCOMODATION 79

CAPITOLO III 85

III. PRETTY-SHIELD: UNA STORIA DI

REMEMBERING AND QUESTIONING” 87

III.A SIGN-TALKER 94

III.B LE COLLABORAZIONI CON GLI STORYTELLERS 97

III.C VISIONI, SOGNI E MEDICINE POWERS 115

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CAPITOLO IV 125

IV. “BLOODLINES”: AUTODEFINIRSI TRA DOLORE, “VERBAL ABUSE"

E CONSTANT UPROOTING” 127

IV.A LA SFIDA DELLAUTODEFINIZIONE 132

IV.B FIGLIA DELLINVERNO 141

IV.C UNA DONNA IN TRANSITION 148

IV.D IL LUOGO COME FONTE DI QUEL CHE SI È 157

CONCLUSIONE 162

BIBLIOGRAFIA 169

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Prefazione

La lingua inglese costituisce per me una vera e propria passione e, sin da adolescente, ho cercato di migliorare il mio personale modo di esprimermi al fine di riuscire a diventare una “fluent speaker”. Non posso sapere se i miei tentativi abbiano portato ai risultati sperati, ma sicuramente sono in grado di affermare che avere un vivo interesse puramente linguistico mi ha condotto — in maniera quasi automatica — a desiderare di approfondire la conoscenza del mondo letterario e cuturale sia anglosassone sia anglo-americano.

Nel corso degli studi universitari ho avuto la possibilità, grazie al prezioso suggerimento e coordinamento della Dott.ssa Elena Paruolo, di frequentare due interi “terms” presso la University of Kent a Canterbury in Inghilterra. Inutile evidenziare quanto fondamentale sia stata una simile esperienza — a mio avviso unica e (purtroppo) irripetibile — per la mia conoscenza linguistica e culturale; ma frequentare l’università in Inghilterra significa anche vivere quotidianamente una realtà multirazziale e multiculturale.

Tale contesto mi ha consentito di sentire una forte curiosità nei confronti di quei mondi culturali che noi occidentali continuiamo spesso a definire “altri” e soprattutto verso le popolazioni, come gli afro-americani e i nativi americani, che si sono visti negare sia il rispetto sia un trattamento dignitoso da parte degli euroamericani. Ho capito che conoscenza significa innanzi tutto non avere l’arroganza razziale che conduce a deridere ciò che non possiamo o non riusciamo a conoscere; bisogna avvicinarsi ai contesti culturali diversi dal

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nostro con sincera passione e con il desiderio affettuoso di comprendere un popolo straniero.

Sono convinta che la preparazione della tesi di laurea offra un’occasione unica per approfondire un argomento al quale si è particolarmente interessati;

la mia scelta è caduta sulle culture tradizionali tribali degli indiani d’America e per questo motivo ho deciso di proporre al Prof. Giorgio Mariani di essere il relatore del mio lavoro conclusivo.

L’argomento da lui suggerito riguarda le opere autobiografiche prodotte da tre donne native americane — Sarah Winnemucca, Pretty-shield e Janet Campbell Hale — appartenenti a diverse società tribali e vissute in differenti periodi storici; in tal senso il percorso delineato è sia letterario sia storico, offrendo l’opportunità di mostrare se e in che modo, eventualmente, sono mutate nel corso della storia letteraria tali produzioni artistiche.

Muovendosi tra le pagine della mia tesi si noterà una particolare scelta tipografica che ho adottato in numerose parti del testo; le parole scritte in corsivo sono espressioni in lingua inglese che ho preferito non tradurre in quanto credo che, in tal modo, rendano meglio il senso di ciò che viene espresso. Ho enfatizzato, infine, alcune espressioni in grassetto — sia mie sia delle autrici dei testi — poichè ritengo che simili parole o intere frasi racchiudano la parte essenziale di concetti fondamentali, fungendo come una sorta di “key words” per il lettore.

Lo studio delle autobiografie scritte dalle indiane d’America mi ha profondamente entusiasmato, ha accresciuto il mio interesse — nonché la conoscenza — nei confronti delle civiltà native, sorprendendomi notevolmente; devo ammettere che, personalmente, non credevo che le donne indianoamericane ricoprissero ruoli importanti presso le proprie tribù e fossero,

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oltre che le trasmettitrici della cultura tradizionale tribale, così prolifiche nella creazione di testi letterari. Spero di essere riuscita a trasmettere la passione e l’ammirazione che provo nei confronti di queste meravigliose donne.

La preparazione della mia tesi di laurea è stata possibile grazie alla persona che ha fornito un prezioso contributo alla mia ricerca bibliografica e che è stata continuamente disponibile e puntuale nel seguire il mio lavoro: il Prof. Giorgio Mariani, il mio relatore, al quale vanno la mia profonda stima e i miei più sinceri ringraziamenti. Desidero ringraziare, inoltre, la Dott.ssa Elena Paruolo la quale, attraverso l’istituzione universitaria italiana, mi ha consentito di confrontarmi con il sistema universitario anglosassone e ha accettato immediatamente di essere il correlatore della mia tesi.

Ringrazio, infine, mia cugina Antonella e suo marito Joe per aver puntualmente acquistato per me, presso The Yale Bookstore di New Haven (U.S.A.), tutti i libri dei quali ho avuto bisogno per studiare, portandoli tempestivamente e personalmente (grazie anche a delle miracolose coincidenze) in Italia.

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Capitolo I

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“American Indian women have been a part of the storytelling tradition — both oral and written — from its inception, passing on stories to their children and their

children’s children and using the word to advance those concepts crucial to cultural survival.”

— Dexter Fisher (ed.), The Third Woman

“Autobiographies provide perhaps the most intimate portrayal of Indian femaleness available to nontribal people and develop a realism that demands the reader abandon simpleminded steroetypes.”

— Bataille & Sands, AMERICAN INDIAN WOMEN

“Il fatto che le donne [indiane d’America] abbiano sempre avuto ruoli importanti in svariate comunità tribali smentisce gli stereotipi patriarcali dell’Occidente, secondo i quali le donne sono inferiori agli uomini in una società incentrata sulla figura del guerriero.”

— Laura Coltelli, Parole fatte d’alba

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I. L’autobiografia e le indiane d’America

I.a Cos'è l'autobiografia?

Cos'è l'autobiografia? Generalmente la risposta più comune e più immediata viene ricercata − e trovata − nell'interpretazione letterale della traduzione delle tre parole greche che la compongono.

Autos = stesso/sé; bios = vita; graphos = scrivere, vale a dire, se mi è consentita una definizione in inglese, the story of one's life written by himself.

In realtà, l'autobiografia è sicuramente la descrizione di esperienze vissute appartenenti al processo di formazione e di definizione di sé stessi;

ma essa è in molti — ed importanti — altri casi qualcosa di diverso.

Esistono, pertanto, problemi di definizione di questo genere letterario e molti critici sono concordi nel considerare tutte le definizioni provvisorie, azzardate, contestuali, nonché elusive.

L’autobiografia ha assistito, nel corso dei secoli, alla formazione dei propri principi canonici, alla creazione di modelli e prototipi — ma anche alla destabilizzazione di tutto questo in tempi recentissimi — diventando, indiscutibilmente, un prodotto storico-culturale realizzabile universalmente.

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Ciò è dimostrato dal fatto che le autobiografie assumono la forma di narrazioni sia orali che scritte. Le autobiografie orali, registrate o trascritte, hanno costituito un importante momento nel tentativo di privilegiare e rivalutare popolazioni e culture — come gli afro-americani o i nativi americani — che si erano viste negare una storia personale attraverso leggi proibitive o, semplicemente, rendendole invisibili creando la loro assenza dalla storia.

Forme di narrazione autobiografica sono presenti già nel mondo classico sotto forma di testi con fine precettistico, apologetico o storico, unitamente a pagine di indagine psicologica.

Il racconto della propria vita, influenzato dalla religione cristiana, assume definitivamente caratteri di interiorità e di introspezione ascetica.

L'esempio più conosciuto sono Le Confessioni di S. Agostino, divenute un classico della scrittura autobiografica, un modello stabilito da colui che è considerato un prototipo dell'autobiografo maschio insieme a Rousseau.

S.Agostino è un uomo che trova la sua dimensione spirituale attraverso lo scavo interiore, la meditazione, l'interrogazione del proprio self. E' l'anima dell'individuo — in lotta con la carne — ad essere posta in primo piano.

Nel corso dei secoli la scrittura autobiografica muta il proprio aspetto, al punto che durante il periodo rinascimentale scrivere di sé stessi significa esaltazione di individualità e di esperienze eccezionali;

capolavoro del genere è la Vita di Benvenuto Cellini. Il senso dell'importanza dell'individuo all'interno della vita terrena si accresce, consentendo al processo di scrittura del self di acquisire una dimensione diversa.

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Molti teorici sono concordi nell'affermare che la fine del XVIII sec.

abbia testimoniato l'inizio della tradizione autobiografica; i testi sono basati sull’individualismo e prendono forma attraverso la descrizione dello sviluppo interiore di un determinato individuo .

Con l'avvento del romanticismo il racconto autobiografico riceve nuovi impulsi dalla soggettività e dalla ricerca delle proprie origini. La vita è raccontata in ogni suo aspetto in nome della verità e della sincerità.

L'autobiografia viene, dunque, sempre più a configurarsi come la narrazione di un'impresa originale – la vita − e degli eventi significativi di un'esistenza che diventano modello da imitare per gli altri.

L’autobiografia è celebrazione di sé stessi.

John Sturrock afferma: “Autobiography is the certificate of a unique human passage through time.”1

Questo genere letterario si diffonde inizialmente, in maniera particolare, all'interno delle culture occidentali; secondo George Gusdorf esso è addirittura uno dei più alti conseguimenti della missione civilizzatrice occidentale.2

L'autobiografia è considerata come un genere che ha lo scopo di commemorare chi è grande e saggio, come dimostra la narrazione della sua vita. Il soggetto celebrato all'interno dell'autobiografia è inevitabilmente bianco, maschio ed altamente letterato; la scrittura produce un individuo universale e trascendente, un esempio.

Tradizionalmente, infatti, la bios di un dato individuo è divenuta il sinonimo dell'autobiografia, segnalando l'aspettativa del racconto di eventi

1 J. Sturrock, The Language of Autobiography, Cambridge University Press, 1993; pag. 3;

2 J. Watson, “Toward an Anti-Metaphisics of Autobiography”, in The Culture of Autobiography, Stanford University Press, 1993; pag. 59;

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significativi, unici, in una parola rappresentativi. Si delinea, in tal modo, un percorso che teorizza l'autobiografia come l'insieme degli eventi vissuti da un individuo, la cui esistenza si ritiene unica ed irripetibile per la sua esemplarità o rappresentatività.

Il racconto autobiografico è, pertanto, una riflessione retrospettiva sui motivi e le condizioni che hanno consentito ad un individuo di diventare

“a Great Man”, di raggiungere una grandezza che lo eleva al di sopra della massa. L’autobiografo, mediante la propria meditazione, analizza le azioni e le idee che, caratterizzando la propria identità, rendono la sua esistenza esemplare. In questo senso si dispiega il racconto di una vita, la Vita, degna di essere narrata, oltre che letta ed imitata, poiché è entrata nella storia. L'autobiografia è, quindi, il genere della cultura dominante, scritto da individui le cui vicende sono culturalmente approvate, vale a dire "worth writing".

In questo particolare contesto di teorizzazione del genere autobiografico, si inseriscono perfettamente le autobiografie che vedono la luce nel continente americano durante il XVIII sec. In America l'autobiografia è connessa con l'idealismo tipico di una repubblica indipendente che predica principi democratici e di dignità del singolo individuo.

L'idea di sperimentare una nuova società è basata sulle capacità e le potenzialità dei singoli individui; i maggiori leaders di tale impresa attraversano processi meditativi, di ricerca interiore e riflessione in perfetta linea con il genere dell'autonarrazione.

Una delle bandiere dell'individualismo americano è decisamente l'autobiografia di Benjamin Franklin. La sua vita diventa modello di

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comportamento, l'esempio del self-made man, l'americano che basandosi sulle proprie capacità e la fiducia in sé stesso conquista la propria indipendenza ed offre la sua esperienza agli altri.

Successivamente, i teorici del genere autobiografico mutano il loro percorso, considerando l'autobiografia come qualcosa di diverso dal mero insieme delle vicende biografiche di un individuo.

Un particolare gruppo di studiosi, definiti 'New Model Theorists', tra i quali Philippe Lejeune, Louis Renza, John Sturrock, hanno collocato l'autobiografia nel punto in cui si intersecano storia e fiction, spostando l'attenzione sull'elemento narrativo e non biografico. Ma, ancora una volta, restava implicito ed indiscutibile che questo genere letterario apparteneva alla cultura dominante.

L'autobiografia ha continuato ad essere la testimonianza di vite esemplari, dei 'great men'. I testi canonici degli autobiografi prevedono l'inserimento del loro autore "[...] into an empowered discourse of cultural validation".3

Va evidenziato, a tal proposito, che nel corso dei secoli l'autobiografia, occupa una posizione liminale nel contesto degli studi letterari, ha raggiunto una collocazione più vicina al centro privilegiato, quello tradizionalmente occupato da poesia, narrativa e dramma.

E', inoltre, importante porre in rilievo che la critica nei confronti del genere è cambiata soprattutto negli ultimi tre decenni, destabilizzando quel tipo di tradizione che da sempre ha letto l'autobiografia come l’insieme

3 ibidem; pag. 61;

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degli eventi significativi dell’esistenza di un individuo e, soprattutto, "as the locus of monumental Western selfhood".4

Julia Watson sostiene che è possibile analizzare alcune opere autobiografiche che utilizzano la tradizione occidentale della

“representation of subjectivity, both to write against it and to rewrite it”.5 Autonarrazioni complesse come quelle di Montaigne, De Quincey e Rilke sono considerate dalla studiosa opere ugualmente canoniche, che risultano eccessivamente problematiche, però, per essere inserite agilmente all’interno del genere come modelli.

Simili racconti “anti-autobiographical” godono dello status di “great books” per alcuni aspetti, ma si oppongono alle norme ed alle forme della produzione letteraria autobiografica per altri, contribuendo, quindi, a distruggere l’idea che la self-definition sia basata essenzialmente sull’insieme delle vicende significative di un’esistenza e che la personalità di un individuo sia qualcosa di stabile.

La frantumazione di una simile autodefinizione del self offre l’opportunità di analizzare quelle narrazioni autobiografiche che — in precedenza “invisibili” — sono considerate gli “alter ego” della tradizione autobiografica e sono state oggetto, nell'ultimo ventennio, di un processo di recupero e di lettura, nonché collocate in canoni alternativi: le autobiografie al femminile. La trattazione di tali peculiari forme di scrittura che offrono nozioni alternative e reinterpretazioni del self, verrà effettuata più avanti, con maggiore attenzione ed in uno spazio ad esse consono e appropriato.

4 ibidem;

5 ibidem; pag. 58;

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I.a.1 Il processo autobiografico

Nella sua introduzione ad una raccolta di saggi critici riguardanti l'autobiografia, lo studioso Robert Folkenflick sostiene che il processo di scrittura di un testo autobiografico, abbia delle norme piuttosto che delle regole.6

Di solito l'autobiografia è scritta da un "I", in prima persona e decisamente l'aspettativa di chi legge è di trovare un io; tuttavia non è esclusivamente una prima persona singolare il soggetto delle narrazioni.

Alcune delle maggiori storie di individui, come quella di Henry Adams, sono scritte anche in terza persona. Se da un lato assistiamo alla produzione di autobiografie scritte da chi possiede lo stesso nome del protagonista della propria narrazione, esistono, dall'altro lato, quelle scritte in collaborazione con altri o completamente ghostwritten.

I racconti riguardano generalmente il passato di una persona; non mancano però esempi in cui presente e passato sono alternati in un continuo interscambio. L'autobiografia è usualmente scritta in età avanzata, oppure nel mezzo della propria esistenza, ma può essere comunque scritto da persone giovani. Non c'è posto, quindi, nel genere autobiografico per le regole assolute.

In ogni caso, al di là delle scelte normative operate dall'autobiografo, scrivere o raccontare la storia della propria vita è un processo unico costituito, almeno in parte, da un insieme di requisiti fondamentali che lo rendono tale, definendo al tempo stesso il genere autobiografico.

6 R. Folkenflik, “Introduction: The Institution of Autobiography”, in ibidem; pag. 13;

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L'autobiografia è un testo che cerca di condurci nel suo interno senza riserve, in quanto essa è la testimonianza di un'esistenza unica. Il contatto che l'autore stabilisce con il lettore è basato sull'immediatezza; il testo ci sembra quasi abitato da una presenza metafisica poiché la sua natura formale risulta contraffatta dall'intimità, la sincerità, l'esattezza con cui pare rivolgersi a noi.

La narrazione autobiografica è sostanzialmente basata sulla consciousness, in quanto è la presentazione di una life in process. Non si può, infatti, affermare che l'autobiografia sia o possa essere un modo per riferirsi semplicemente ad una vita vissuta; "[...] there is no such thing as a 'life as lived' to be referred to".7

Attraverso l'atto autobiografico — l'intima unione di vita e processo di scrittura — una vita viene, al contrario, creata o costruita e, di conseguenza, interpretata.

Nella narrazione che una persona compie della propria esistenza, il fulcro dell'attenzione è la sua vita individuale e la storia della sua personalità. Raccontare di sé significa autoanalizzarsi; una riflessione profonda è innegabilmente il presupposto fondamentale per avviare il processo di autopresentazione.

L'autobiografo deve fare ricorso alla memoria, deve rintracciare informazioni dalle esperienze da lui vissute. Egli si riappropria del suo passato grazie al ricordo; è la memoria volontaria che analizza e seleziona gli eventi da porre in evidenza. L'azione del ricordare volontariamente è un meccanismo fondamentale che implica, chiaramente, una rivisitazione e un'interpretazione dei momenti vissuti dall'individuo.

7 J. Bruner, “The Autobiographical Process”, in ibidem; pag. 38;

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L'autobiografia non è una semplice ripetizione del passato, bensì la rievocazione, inevitabilmente selettiva, di un mondo personale che rende il senso di sé stessi.

Nonostante il racconto dispiegato sia autentico, il programma di recupero dei fatti, implica l'intervento di una componente fictional che non rende l’autobiografia “a true representation of the self in any absolute sense”; tale elemento fictional non è immaginazione, falsità, bensì indica un modo di raccontare che, attraverso il ricordo volontario, distorce il passato, effettuando delle scelte.

Il testo autobiografico prende forma, dunque, attraverso un "narrative plot" che non soltanto seleziona gli avvenimenti, ma li organizza. L'autore, raccontando la propria storia, impone un pattern, un disegno alla propria vita, allo scopo di dare unità alle vicende.

L'autobiografo ha lo scopo di imporre una totalità che razionalizzi la propria vita, la propria identità, mettendo in stampa “a whole”. Tale processo convenzionale crea l'impressione di aver vissuto una sola vita; la razionalizzazione degli eventi attraverso la retrospezione consente il racconto di una delle tante vite vissute da un individuo.

Il narratore sceglie di proiettare dinanzi ai nostri occhi un percorso che è creazione, imposizione fittizia, poiché il racconto autobiografico è fornito di una coerenza imposta e, di conseguenza, manca di una logica interna che ha diretto tale vita. Mediante l’atto autobiografico viene creata e costruita una vita.

L'autobiografia vuole l'unità del suo soggetto, la cui linearità è solo apparente; esistono dei gaps inevitabili poiché l'operazione compiuta è parziale.

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La configurazione autobiografica di una bios non è tanto una questione di scoprire nuovi particolari riguardanti le proprie esperienze passate, oppure di rivelare i contenuti di ricordi remoti, bensì di riscrivere una prosa narrativa attraverso una precisa linea interpretativa.

Fornire il racconto di una coerenza è un requisito inevitabile dal momento che l'autore dell'autobiografia ha una conoscenza privilegiata della coscienza del protagonista del suo racconto. Egli è, inoltre, l'unico artefice che conosce lucidamente il punto di partenza del percorso da lui disegnato ed il modo in cui esso, dispiegandosi, approda al finale.

L'autobiografia ha l'aspirazione di porre in primo piano gli aspetti della storia e del carattere personale dell'io narrante/ato, che siano claims distintivi. Il suo testo, in tal modo, può essere finalizzato a sostituire la sua persona come la prova tangibile della sua identità.

E' la costruzione di una vita attraverso la costruzione di un testo.

Alla luce di tali elementi è possibile affermare che il discorso autobiografico è "mimesi" ed al tempo stesso "diegesis".8

Esso si compone, infatti, di racconti di avvenimenti testimoniando l'immediatezza esistenziale da parte dell'autore, cioè la mimesi; inoltre c'è la componente dell'interpretazione, vale a dire l'organizzazione dei dettagli della testimonianza che sono trasformati in una vita.

Chi decide di presentare il processo attraverso il quale si è formata la propria identità ha il compito di riuscire a comunicare una 'reality', presentando in maniera convincente come naturali le convenzioni che ha adottato per raccontare la sua storia e per dare un'interpretazione della propria vicenda.

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Compiere una riflessione sul proprio self rende automatica una meditazione associata alla natura del mondo nel quale si dispiega la propria esperienza esistenziale.

Lo scrittore costruisce una realtà concernente una vita che prende forma in un dato luogo ed in un tempo preciso, in quanto "[...] it can no more be placeless and timeless than it can be 'self-less'".9

Il testo richiama all'indagine intima del suo autore; può difficilmente essere messo in dubbio il fatto che il contesto storico-culturale debba essere condotto all'interno, al fine di relazionare una peculiare autobiografia alle circostanze della vita e dell'epoca del protagonista che sono rimaste unrecorded.

Approfondire le nostre nozioni sul momento storico e la conoscenza dei modi della cultura all'interno della quale sorge un'autobiografia aiuta, a mio avviso, ad inserire il testo in una cornice chiara e completa; nonché a comprendere i motivi che hanno spinto tale individuo ad autoanalizzarsi offrendo una lettura personale della propria vicenda esistenziale.

Al pari di ogni altra forma d'interpretazione, il modo in cui si decide di costruire la propria vita subisce l'influenza delle proprie intenzioni, delle convenzioni interpretative di cui si dispone, del linguaggio e delle idee imposte dall'uso della propria cultura.

L'autobiografia può, infatti, essere letta come un prodotto culturale, oltre che come un'esperienza individuale. La cultura, in senso ampio, fornisce il giusto insieme di elementi per la costruzione delle vite. Essa esercita la propria "presenza-influenza" attraverso precisi strumenti che

8 J. Bruner, “The Autobiographical Process”, in The Culture of Autobiography, Stanford University Press,1993; pag. 45;

9 ibidem; pag. 44;

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sono le forme narrative, i generi convenzionali, i canoni che riflettono modelli culturali idealizzati, i modi, infine, di "confezionare" una forma di vita.

Se un individualismo egocentrico ed una profonda analisi introspettiva sono i motori centrali per dare corpo ad un'autonarrazione, l'apparato culturale ne condiziona fortemente il modellamento.

"Ogni cultura particolare favorisce una forma canonica di racconto autobiografico che costituisce la sua stessa impronta".10 L'essenziale componente culturale dell'autobiografia le ha consentito di diventare un genere universale presente ormai in tutte le società, sia presso quelle evolute, sia presso quelle non considerate tali.

Attraverso questa particolare forma narrativa le popolazioni e le culture tradizionalmente considerate prive di una storia letteraria, unitamente ai soggetti sociali alienati e messi a tacere dalla cultura dominante, hanno avuto la possibilità di emergere, di trovare il proprio spazio, di far sentire la propria voce, dialogando egregiamente nell'ambito del discorso letterario dominante.

Il paragrafo che segue illustrerà come l’autobiografia ha smesso di essere un genere considerato esclusivamente una prerogativa delle “grandi menti maschili” che si distinguono all’interno della società occidentale; il genere della cultura dominante è anche il genere delle culture “dominate”

e marginalizzate.

10 ibidem; pag. 48; (traduzione e grassetto miei);

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I.b Gli indiani d'America: l'autobiografia

La particolare forma letteraria costituita come genere e definita autobiografia nell'ambiente culturale occidentale non esisteva tradizionalmente all'interno delle culture tribali native d'America.

Mancano, infatti, presso le popolazioni indigene due elementi fondamentali per dare origine alla rappresentazione della vita di una persona: l'individualismo egocentrico e la scrittura, sconosciuti alle culture indianoamericane.

Tra gli indiani pre-colombiani esistono il senso di libertà personale, del valore e di responsabilità, ma l'individuo è sempre concepito in subordinazione alle esigenze della comunità; il singolo non può essere immaginato fuori dalla propria società o, ancor di meno, contro di essa.

L'ideologia individualista poteva difficilmente nascere, svilupparsi e trovare collocazione all'interno delle culture tribali sprovviste di basi logiche ed ideologiche che potessero far nascere l'idea di celebrare un singolo individuo originale, diverso, migliore degli altri, insomma unico.

Le società indigene considerano l'individuo importante e speciale in quanto la sua esistenza si svolge all'interno di una data collettività; la grandezza personale, di conseguenza, doveva e poteva essere raggiunta in funzione del bene e della sopravvivenza della comunità.

Gli indiani sono depositari tradizionalmente di una letteratura ampiamente ricca e complessa nelle sue manifestazioni, ma esclusivamente di tipo orale.

L’intera struttura letteraria e culturale delle varie comunità indigene era costruita, espressa e tramandata alle generazioni successive attraverso le

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performances e lo storytelling in cui avevano fondamentale importanza la voce, i gesti, i movimenti, i segni. Presso le popolazioni indianoamericane possono essere trovate pittografie su pelli di animali o sulla sabbia, ma non segni su carta come nel mondo culturale europeo ed euroamericano.

L'introduzione della scrittura nell'ambito delle civiltà indiane avvenne ad opera degli invasori, i quali cercarono di fissare su carta "the pale trace of what their voices performed".11

L'autobiografia nativa americana non è, dunque, una forma canonica, tradizionale della letteratura indiana, bensì nasce come conseguenza del contatto tra i bianchi colonizzattori-invasori ed i popoli che già abitavano il territorio americano.

Un canone autobiografico nativo non è stato ancora stabilito, non esiste un insieme di testi ed autori considerati convenzionalmente “maggiori”, fatta eccezione per alcuni titoli ormai noti al grande pubblico dei lettori e degli accademici.

Sono stati decisamente particolari eventi storici, sociali e politici che hanno provocato, stimolato e dato origine alla produzione narrativa autobiografica indigena; gli aspetti peculiari del genere creato sono, inevitabilmente ed indiscutibilmente, influenzati — ma probabilmente sarebbe più esatto dire modellati — dalle teorie e dai modelli della cultura dominante euroamericana.

Quando le narrazioni autobiografiche raccontate dai nativi a proposito della propria esistenza furono impresse su carta mediante la scrittura, sia come testi scritti in prima persona da indianoamericani che avevano acquisito un’istruzione di tipo occidentale, sia come frutto di collaborazioni tra il soggetto indigeno ed un curatore e/o editore bianco, assunsero due

11 A. Krupat, For Those Who Come After, University of California Press, 1985, cap. I;

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forme diverse definite: "autobiographies by Indians" e "Indian autobiographies". 12

Le autobiografie "by Indians" sono narrazioni originate dal singolo individuo che racconta, come nelle autobiografie canoniche occidentali, la cronaca della propria esperienza personale in prima persona.

Il soggetto nativo diventa un autore nel momento in cui riceve un'adeguata istruzione e civilizzazione — molto spesso anche cristianizzazione —; la white euroamerican education gli consente, infatti, di essere in grado di appropriarsi del linguaggio inglese, di essere in grado di scrivere e di poter in tal modo usare gli strumenti della cultura letteraria dominante.

Nel 1768 il reverendo Samson Occom, un Mohegan, scrive un breve resoconto personale che è l'esempio più remoto di autobiografia nativa americana. Successivamente, il reverendo William Apess, un Pequot, scrive la prima autobiografia di un indiano che ottiene un positivo riscontro di lettori, A Son of the Forest (1829).

Questi due primi esempi sono la testimonianza tangibile che la prima fase del discorso autobiografico "by Indians" è, dal punto di vista storico, dominata dal rapporto creatosi tra religione bianca ed indiani. L'opera di conversione e di cristianizzazione dei colonizzatori nei confronti delle tribù comincia con i primi sbarchi dei pellegrini in terra americana. I racconti autobiografici dei cosiddetti 'indiani convertiti' sonoautorappresentazioni in senso occidentale, pur essendo biculturali; essi diventano l'espressione di soggetti familiari con i modi della cultura euroamericana restando comunque legati alle proprie radici culturali tribali.

12 A. Krupat, ed. by, Native American Autobiography, an Anthology, The University of

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Nascendo da soggetti sociali che vivono in una posizione a metà tra due realtà profondamente diverse, ne osservano spesso anche gli aspetti negativi; non mancano, per questo motivo, i testi in difesa del punto di vista e del modo di concepire e vivere l’esistenza degli indiani che muovono implicite o esplicite accuse nei confronti dei soprusi, del razzismo e degli inganni attuati dai settlers.

In seguito questi testi perdono l'accento religioso e spirituale per fare spazio ai meccanismi ideologici e culturali della società euroamericana. Tra la fine del 1800 e gli inizi del secolo successivo, gli scrittori indiani se da un lato sono a favore dell'ascendente rivalutazione del valore delle culture tradizionali tribali accettano dall’altro, in ogni caso, i principi della

"civilization".

Nel corso del XX sec. le creazioni letterarie dei nativi americani conoscono una particolare produttività assumendo la forma di romanzi, di liriche e, naturalmente, di narrazioni autobiografiche. In questo periodo gli autori indiani di testi autobiografici hanno come motore trainante un profondo orgoglio nelle loro radici etniche e una voglia di rivendicare la propria identità e dignità culturale ed umana.

Vittime inevitabili della dottrina del melting pot, dell'idea di dover a tutti i costi uccidere l'indiano che è in loro e salvarne l'uomo per spezzare le radici che li legano al loro ambiente tribale, cercano ad ogni costo — stanchi di sentirsi come degli stranieri in patria e di ricevere lo stesso trattamento riservato agli animali selvatici — di far sentire la propria voce in nome della giustizia culturale ed umana.

Wisconsin Press, 1994; pag.93;

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Il loro sforzo è compiuto in favore di una self-definition etnica ed individuale all'interno di un contesto biculturale nel quale gli indiani sono stati da sempre costretti a vivere; è un'orgogliosa rivendicazione della propria eredità ed identità culturale.

A partire dalla seconda metà del nostro secolo i nativi americani ostentano, in maniera crescente, una forte volontà e soprattutto una grande capacità di autorappresentarsi senza alcuna mediazione da parte dei bianchi.

Molti sono gli artisti che, una volta sottoposti all'attenzione del pubblico mediante la propria produzione di materiale poetico e narrativo, raccontano le proprie esperienze personali esponendo in primo piano il loro autentico punto di vista.

Tutto ciò avviene in maniera più marcata ed evidente con l’avvento del

“Native American Renaissance”, evento che si fa coincidere con la data di pubblicazione nel 1968 di House Made of Dawn da parte di N. Scott Momaday, vincitore del premio Pulitzer per la letteratura (1969).

Le recenti produzioni autobiografiche sono quasi tutte self-written e sono la testimonianza dell'orgoglioso legame esistente tra gli indiani e gli aspetti linguistici, morali, religiosi e letterari delle loro culture tradizionali tribali.

Esse evidenziano, d'altronde, l'abilità innegabile di tali artisti nell'uso, nella manipolazione delle tecniche e dei modelli letterari euroamericani, nel loro tentativo di costruirsi un'identità riappropriandosi del proprio retaggio culturale.

Le "Indian autobiographies" non sono racconti scritti da un individuo in prima persona; esse sono costituite come genere dal principio che lo

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studioso Arnold Krupat definisce "original bicultural composite composition".13

La creazione di tali narrazioni avviene mediante un complesso processo produttivo. Tre sono le parti che, collaborando, originano questo peculiare tipo di racconto autobiografico non avente alcun modello precedente all'interno delle culture tribali.

La composizione composita dell'autobiografia indiana necessita di un indiano, che è il soggetto della narrazione e la cui esperienza di vita, presentata oralmente, performed, forma il contenuto del testo; un educatore bianco — un antropologo, un etnologo, un giornalista o un semplice dilettante amante delle civiltà indianoamericane — che revisiona, rifinisce, organizza e imprime in forma scritta il testo stampato.

In quasi tutti i casi, inoltre, è prevista la presenza necessaria di un interprete, spesso un mixedblood , che conoscendo sia il linguaggio tribale indiano che l'inglese, assume il compito di intermediario tra il bianco

"civilized" e l'indiano "savage", privo di un'istruzione euroamericana e incapace sia di parlare sia di scrivere l'inglese.

Quando nel 1830 viene approvato da parte del governo l“Indian Removal Bill”, la rimozione forzata delle eastern tribes ad ovest del fiume Mississippi, viene considerata come l'inevitabile passo da compiere in avanti nel cammino verso la civilizzazione.

Sono questi gli anni in cui il generale Sheridan dichiara che “the only good Indian would be a dead Indian”14; tale affermazione simboleggia l'idea diffusa tra gli americani secondo la quale l'indiano non può essere

13 A. Krupat, For Those Who Come After, University of California Press, 1985; pag. 31;

14 ibidem; pag. 56; (grassetto mio);

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civilizzato e, dunque, l'unica alternativa è renderlo vittima di un feroce genocidio.

La graduale scomparsa dei nativi è determinata dalla legge dell'evoluzione culturale che fornisce una base logica, nonché un alone di santità, alla politica di annientamento delle civiltà indianoamericane messa in atto dal governo statunitense.

Se da un lato la linea politica adottata dagli organi governativi americani procede verso l’eliminazione delle comunità tribali, privandole della loro terra, di una storia, di una civiltà ma soprattutto di una dignità e di un’identità; dall’altro in questo periodo nascono diverse produzioni autobiografiche riguardanti l'indiano che viene considerato dagli studiosi e dagli appassionati americani (e non), un elemento da inserire nel percorso storico semplicemente, però, come “reperto archeologico”, un qualcosa al quale di lì a poco si guarderà come una rarità estinta.

Essendo ormai convinzione generale che la cultura indiana stia per scomparire, nasce un profondo interesse per la conservazione di testimonianze e documenti in nome della giustizia storica.

Tale particolare contesto storico-politico consente la produzione delle

"Indian autobiographies", documenti storici ed etnografici sul presunto vanishing American.

I soggetti protagonisti delle autobiografie sono i grandi guerrieri, i "great chief" che si sono resi protagonisti della storia distinguendosi nei conflitti e in diplomazia, resistendo ai soprusi governativi, ai tentativi di sottomissione militare, politica, culturale ed umana.

Nel 1833 viene pubblicato il primo esempio del genere, Life of Ma-ka- tai-me-she-kia-kiak or Black Hawk, edito da J. B Patterson. Seguiranno le

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autobiografie di altri grandi protagonisti indiani come Geronimo’s Story of his Life di M. Barrett, Yellow Wolf: His Own Story di L. V. Mc Whorter, e Black Elk Speaks di J. G. Neihardt, probabilmente la più conosciuta delle autobiografie degli indiani d'America.

Le autobiografie indiane presentano le azioni individuali, gli “eroi”

indiani che diventano tali soltanto ammettendo ed accettando la propria sconfitta storica; una presenza parlante in prima persona è, contraddittoriamente ed ironicamente, l'elemento fondamentale per l'affermazione della propria inevitabile scomparsa nell'atto di raccontare la storia della propria esistenza.

Con l'inizio del XX sec., dopo l'avvenuta chiusura della frontiera nel 1890 e lo “schiacciamento” delle tribù nelle riserve, l'attenzione dell'autobiografia indiana si sposta verso il complesso insieme di elementi che formano la cultura dell'indiano.

Franz Boas inaugura un nuovo tipo di studio antropologico che esalta il valore del punto di vista dei protagonisti del fenomeno culturale. Gli antropologi approcciano individui ordinari che raccontando le proprie storie personali o comunitarie diventano "representative" della loro cultura nativa.

L'interesse antropologico che domina la produzione autobiografica fino al 1940 circa, è sensibile all'idea che gli indiani hanno di sé stessi e della propria cultura. Nel preciso momento in cui si cerca, attraverso la civilizzazione e l'assimilazione, di rendere l’“Indian American” un

“American Indian” mescolandolo nel calderone del “melting pot”

statunitense, il meccanismo autobiografico presenta l'uomo inscindibile, inseparabile dalla sua "indianness".

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Ponendo, infatti, in risalto l'elemento etnico dell'identità indiana, si afferma automaticamente la necessità che gli indiani conservino e coltivino le radici tradizionali delle rispettive tribù d'appartenenza.

L'idea è che, sostanzialmente, i nativi possano appropriarsi (se lo vogliono e non attraverso sistemi coercitivi ed abusi) della cultura euroamericana e diventare "Americans", pur restando comunque principalmente "Indians".

A proposito di questo nuovo interesse è importante sottolineare che uno dei risultati del lavoro antropologico compiuto da Boas e dai suoi collaboratori, fu la documentazione delle vite e delle storie mitiche, tradizionali e personali raccontate dalle donne indiane d’America depositarie della cultura tribale allo stesso modo degli uomini.

A questo punto, diventa fondamentale evidenziare che, sebbene inizialmente la forma autobiografica indianoamericana sia stata creata essenzialmente come la prova dell'autenticità di un documento storico e/o scientifico prima, e la testimonianza di una civiltà culturale “in via d’estinzione” poi, essa presenta, comunque, il processo di sviluppo e di definizione personale di un determinato individuo esposto attraverso il proprio punto di vista. Tale convenzione centrale del genere autobiografico occidentale conferisce all’autobiogafia nativa americana un altissimo potenziale, consentendole di ottenere il giusto interesse di pubblico accademico e di lettori.

La narrazione si dispiega, infatti, mediante un "subject speaking for himself", un individuo che sceglie di autorivelarsi in prima persona autonomamente, sfruttando gli strumenti culturali “bianchi” dei quali (sia da

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autodidatta sia attraverso il sistema scolastico) si è appropriato; tale meccanismo consente ad una voce vivente di emergere e raccontarsi.

Dopo circa duecento anni di storia americana la voce indiana — ascoltata in precedenza essenzialmente in forma “mediata e manipolata”—

non è più né "vanished", né silenziosa, né tantomeno priva di dignità; essa ha, al contrario, l'opportunità, in forma di “autobiography by Indian”, di essere considerata degna di ricevere attenzione ed ascolto, preservando il retaggio culturale delle diverse comunità tribali indianoamericane.

Bisogna, infatti, tener presente che all’interno delle “Indian autobiographies”, al contrario, la mediazione tra soggetto indiano e chi scrive il testo autobiografico compiuta da un interprete (nel caso delle collaborazioni meno complesse), l'organizzazione e la forma narrativa scelte dal “curatore amanuense” — vale a dire ciò che determina il peculiare modo di produzione di simili creazioni letterarie —, sono strettamente connessi con la domanda se la "real" o "authentic" voce indiana venga rispettata ed espressa, oppure debba ancora essere restituita a queste autobiografie.15

Se da un lato chi racconta la propria esperienza esistenziale può offrire un resoconto autentico, i problemi oggettivi esistenti nel colloquio tra chi parla il linguaggio tribale, chi lo traduce e l'editore "amanuensis" che raccoglie la traduzione di tale testimonianza, ne alterano inevitabilmente il contenuto e gli obiettivi. Non mancano casi in cui l'editore sollecita il soggetto attraverso specifiche domande per compiere un determinato percorso narrativo da lui ideato, creato ed organizzato.

15 A. Krupat, ed. by, Native American Autobiography, an Anthology, The University of Wisconsin Press,1994; pag. 8;

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Le due forme autobiografiche native americane presentano i due elementi fondamentali — self e life story — del canone autobiografico, presentando variazioni che sono caratteristiche delle culture tribali tradizionali all'interno delle quali prendono forma.

La concezione nativa americana del self nasce da un rapporto integrativo e relazionale con il resto della comunità d'appartenenza.

L'idea euroamericana di identità personale si basa sull'opposizione tra il

"Great Man" e la società; questa concezione fondata sui principi dell'ideologia individualista, è impensabile tra i "Native Americans".

Questi ultimi si definiscono individualmente come persone trovando la giusta collocazione in armonia con il proprio raggruppamento societario; in tal senso l'individualismo e la volontà del singolo sono considerati tratti negativi ed antagonisti della tribù.

La self-definition etnica è, a mio avviso, ricollegabile al principio fondamentale del "cerchio sacro"; esso è il simbolo geometrico dell'equidistanza che separa gli esseri umani dall'essenza centrale della vita, del loro sostanziale apporto, che è in misura uguale a quello di qualunque altro essere.

Tale immagine simboleggia i principi di equilibrio ed armonia di tutte le cose presenti nel cosmo sui quali è basata la visione del mondo indianoamericana; una realtà di questo genere, nega automaticamente l'opposizione, il dualismo, l'egocentrismo caratteristici del pensiero occidentale.

Chi decide di autoraccontarsi o di raccontare il proprio "pezzo di storia", si rende protagonista di un atto finalizzato a dimostrare quanto è importante l'apporto comunitario in un gesto compiuto in favore della comunità.

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L'indianoamericano che scrive in prima persona o narra attraverso un curatore la propria vita, è stimolato dalla volontà di consentire alle generazioni successive di ereditare un prezioso retaggio culturale, di capire la realtà storica fatta di abusi, soprusi, ingiustizie e rivendicazioni vissuta dagli abitanti nativi del continente americano, di agire, infine, in maniera sensata nel rispetto delle tradizioni.

Nello svolgimento del racconto narrativo sono molto importanti le storie; quando esse non sono private, l'esperienza personale viene celata da una storia mitica o tradizionale avente la duplice funzione di raccontare un

"fatto tradizionale", comunicando un "fatto personale".

Prendendo corpo attraverso le storie, la narrazione non è organizzata mediante un'impalcatura cronologica; la cronologia come categoria non può essere una concezione indigena. Nel mondo indianoamericano non c'è spazio per la concezione euroamericana del tempo; esso è, come ogni altra attività tribale, un'esperienza collettiva, è invisibile ma tangibile perché scandito soltanto attraverso le sue dimensioni visibili — le "lune", le "nevi", la raccolta di radici ed erbe, le cacce, ecc.

Se durante l'azione del raccontare il soggetto decide di presentare un determinato momento dell'evoluzione esistenziale della persona, ciò avviene in quanto qualcosa di importante happened in tale periodo.

La parola, infine, la potenza del discorso è indiscutibilmente di cruciale importanza all'interno delle culture orali tribali. Solitamente il racconto autobiografico dell'indiano al proprio interlocutore ha luogo in presenza di una parte della comunità.

La narrazione, come nel caso delle visioni e dei sogni, è performed, accompagnata da gesti, segni, modulazioni differenti della tonalità vocale,

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in quanto la loro pregnanza non si ferma all'esistenza individuale, bensì va oltre, al fine di garantire la sopravvivenza e la fortuna della collettività.

Si è visto come il genere letterario autobiografico — "by and about Indians" — abbia potuto avere origine soltanto dopo il contatto con la cultura euroamericana che ne ha plasmato gli aspetti attraverso le sue ideologie, i suoi valori, i suoi modi di produzione ed il suo potere modellante.

Entrambe le forme di scrittura del self nascono dalla spinta radicata in un preciso contesto culturale, storico, politico, sociale ed anche religioso fortemente condizionato dalla presenza dei settlers europei nel territorio statunitense, come anche da quella non irrilevante degli indiani.

Queste autobiografie possono essere lette, pertanto, come l'equivalente della 'frontier' ; sono prodotti biculturali — anche quando non sono il frutto di esplicite collaborazioni —, testi che, non soltanto testimoniano fino a quale punto sia giunta l'operazione civilizzatrice ma nei quali, inoltre, si incontrano due culture radicalmente differenti che interagiscono (soltanto dal momento in cui la cultura indiana smette di sottostare a quella euroamericana).

Le autobiografie "Native American" sono una finestra sulla cultura nativa, sulla cultura euroamericana ma anche sul loro rapporto reciproco — che usualmente non fu tra eguali — mostrandoci i mutamenti d'opinione e di rapporti manifestatisi nel corso dei secoli tra esse.

Le recenti produzioni degli artisti indiani dimostrano che l'autentica voce nativa è in grado di condurre verso risultati sorprendenti e degni di essere inseriti all'interno di un canone letterario nativo americano.

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Presentando le caratteristiche canoniche del genere autobiografico euroamericano hanno decisamente il diritto di entrare a far parte della letteratura americana, senza mai più correre il rischio di essere completamente ignorate dagli accademici, dai lettori nativi e non, e dagli studenti della civiltà letteraria "anglo-americana".

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I.c "Indian women's autobiographies":

le indiane d'America si raccontano

Sebbene le donne abbiano scritto racconti delle proprie esperienze di vita per molti secoli e continuato a pubblicarne durante il XX sec. — testi letti, recensiti, pubblicizzati ed insegnati in ambito accademico —, la discussione critica del genere autobiografico al femminile, finalizzata a delinearne una tradizione, è attiva soltanto da un ventennio.

All'interno di una tradizione androcentrica, le donne hanno subito nel corso della storia, evidentemente, un processo di alienazione dai modi della cultura dominante e, nel caso specifico, dall'autorizzazione autobiografica.

L'orientamento della narrativa occidentale ha messo a tacere, imposto il silenzio alla voce privata ed artistica delle donne; queste ultime, una volta rimpossessatesi del potere discorsivo della parola, sono finalmente diventate dei soggetti parlanti.

Le autobiografie al femminile sono, in tal senso, una letteratura di possibilità, un'opportunità di dar voce alle proprie aspirazioni rimaste per secoli inespresse.

Gli studi critici a proposito dei testi che raccontano esperienze femminili si sono concentrati su particolari momenti storici, poi sui fattori che determinano la forma e i modi di scrittura dell'autobiografia creata dalle donne.

Recentemente, inoltre, l'interesse è scivolato verso le produzioni di donne appartenenti a particolari gruppi etnici, contribuendo

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all'amplificazione del canone e delle teoria delle "women's autobiographies".

I primi esempi di racconti riguardanti l’universo femminile sono rintracciabili nel XIX sec., e dimostrano l'impegno delle donne nello scrivere secondo una linea spirituale e domestica, dando origine al cosiddetto 'domestic memoir'.

Non ci troviamo ancora, però, di fronte a delle vere e proprie narrazioni autobiografiche incentrate sulla rivelazione di esperienze personali private ed intime; tali opere sono, in ogni caso, sicuramente il segnale di un’attiva produttività femminile in ambito letterario.

Le donne, a quel tempo, vivono evidentemente all'ombra degli uomini e relegate alla sfera domestica del privato; non c'è posto per loro nella vita pubblica, o meglio, se tale collocazione esiste, è quella che gli uomini hanno deciso di riservare loro.

Essendo le relazioni femminili circoscritte agli ambiti che interessano i ruoli di figlie, mogli, madri, gli editori esaltano semplicemente le loro virtù domestiche, che ne determinano la fama letteraria. Il loro talento sono le virtù femminili. Una donna resta "letterariamente chiusa" nella forma letteraria decisa dai suoi editori maschi.

Storicamente assenti sia dalla sfera pubblica sia dai modi della narrativa scritta, le donne sono costrette ad autoraccontarsi in maniera diversa, differenziandosi automaticamente dalle produzioni maschili.

Verso la metà del nostro secolo, le donne cominciano a raccontare le proprie storie inglobando in esse esperienze private femminili mai espresse in precedenza; tale meccanismo consente loro di revisionare il contenuto e gli scopi dell'autobiografia, insistendo su storie alternative in cui

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convergono le politiche e le poetiche letterarie. Questi tipi di racconti, portandosi sempre più avanti sulla scena letteraria, rappresentano il meglio della produzione scritta presente.

Le prime critiche femministe, durante gli anni '70, evidenziano l'esistenza plurisecolare di un'estesa tradizione letteraria femminile, maggiormente se si osservano qui generi considerati marginali — memoirs, diaries, journals — e gli svariati tipi di scrittura "privata".

La tradizione è costruita attraverso un lavoro esplorativo nel vasto e trascurato magazzino delle opere personali femminili. Il posto delle donne all'interno della cultura letteraria è rivalutato attraverso l'azione di riportare alla luce i testi "seppelliti" di autrici donne, reclamandone i peculiari modi espressivi.

Questo gesto essenziale è alla base della discussione critica in fermento durante gli ultimi venti anni. I contributi femminili allo sviluppo del genere autobiografico non sono più marginalizzati; l'autobiografia non è più il genere "representative" delle migliori menti di un'epoca né della vita di un individuo che sia necessariamente ed indiscutibilmente white, male and western.

Gli studi critici degli anni '80 conducono all'accettazione dell'idea comune secondo la quale l'autobiografia al femminile rappresenta una tradizione distinta e separata e che l'elemento del "gender" ne determini — o ne motivi — la forma contenutisticamente e stilisticamente differente da quella delle narrazioni maschili.

La "Second Wave feminism" dell'ultimo ventennio definisce, dunque, tutte le donne come una collettività indifferenziata, considerando

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l'esperienza e la natura femminile come il fattore determinante delle

"women's autobiographies".

Importanti studi considerano il soggetto autobiografico nella sua specificità storica; cultura, storia ed istituzioni costruiscono, in un certo senso, un'identità al soggetto che ella sente come naturale ma che, in realtà, nasce delle convenzioni, dal linguaggio e dalle idee imposte dall’uso della cultura della classe dominante che influenza inesorabilmente la personalità degli individui.

Writing a Woman's Life (1988) di Carolyn Heilbrun è una "milestone"

nell'ambito della teorizzazione del genere autobiografico femminile.

Heilbrun pone l'attenzione sulla storia della produzione culturale femminile analizzando il passato recente in cui le donne cominciano ad affermare il proprio potere e non sulle prime autobiografie che sono, nella sua ottica, storie di nessuna vita, di silenzio, nate all'ombra della cultura patriarcale.16

La donna smette di essere dominata dall'uomo sia culturalmente sia storicamente, dando origine a delle opere che, presentando aspetti esclusivamente femminili, non sono più il frutto di “inibizioni culturali , letterarie ed editoriali”.

L’intersse critico che nasce, a partire dagli anni ‘70, nei confronti delle autobiografie scritte dalle donne genera varie linee interpretative, a seconda degli aspetti sui quali le/gli studiosi focalizzano la propria attenzione.

Ciò determina, ad esempio, il fatto che alcune narrazioni autobiografiche sono lette in termini di "differenza", considerando i soggetti femminili in

16 S. Smith & J. Watson, “Introduction. Situating Subjectivity in Women’s Autobiographical Practices”, in Smith & Watson, ed. by, Women, Autobiography, Theory, A Reader, The University of Wisconsin Press, 1988; pag. 13;

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relazione ad una varietà di elementi — classe, razza, sessualità, età, nazionalità, ecc. — che li determinano e li differenziano. I teorici della differenza sviluppano necessariamente nozioni alternative muovendo forti critiche alle teorie canoniche e totalizzanti.

Una forte sfida alle teorie che sostengono l'esistenza di una "universal woman —implicitly white, bourgeois, and Western—"17 proviene dalle donne di colore che focalizzano l'interesse su una produzione culturale di soggetti marginalizzati a causa della loro razza e/o etnicità.

L'attacco aggressivo è rivolto nei confronti della critica femminista

"bianca" che ha reso invisibili i soggetti come le donne di colore (non

"universal women"); c'è bisogno, invece, di un'affiliazione collettiva che accolga donne differenti ed una irriducibile pluralità di voci.

In quest'ottica della differenza, gli studiosi criticano necessariamente l'individualismo occidentale; il self, l'autocreazione e l'autocoscienza sono, infatti, radicalmente diversi nelle donne.

L'individualità separata è la precondizione necessaria per l'autobiografia occidentale (maschile); i modelli individualistici del self risultano, però, inapplicabili alle narrazioni delle donne.

Secondo Nancy Chodorow la personalità femminile sviluppa un'empatia definendosi in relazione con altre persone; la sua nozione di "relationality"

influenza notevolmente la teorizzazione della soggettività femminile nel racconto autobiografico.18 L'identità femminile si sviluppa in maniera collettiva e relazionale, dunque, in completa opposizione con l'egocentrismo isolante ed oppositivo maschile. Il senso d'identità collettiva delle donne è

17 ibidem; pag. 26;

18 ibidem; pag. 17;

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basato su un self autobiografico della protagonista che non costruisce la propria esistenza in opposizione, contro o al di fuori degli altri.

Non siamo di fronte alle testimonianze di grandi personalità che vogliono distinguersi dalla massa e dare, magari, degli insegnamenti su come agire in maniera degna all'interno dell'ambiente societario e culturale.

Il self che viene costruito attraverso il processo di narrazione di sé stessi nei testi al femminile, esiste in maniera interdependent con il resto della collettività ed il "[...] sense of identification, interdependence and community [...] are key elements in the development of a woman's identity".19

L'identità femminile è basata su di una coscienza di gruppo, infrangendo i modelli canonici imposti, le categorie e consentendo di rompere il silenzio imposto per secoli dal discorso narrativo maschile. Fortunatamente l'alienazione storica non ha distrutto la coscienza femminile della personalità, anzi ha motivato la scrittura di opere altamente valide consentendo la creazione di un self alternativo.

Risulta chiaro il fatto che in nessuna autobiografia al femminile troveremo i modelli archetipici dell'autobiografia maschile occidentale.

L'egoismo, la conversione, la lotta tra forze oppositrici per la costruzione di una propria identità, sono in disaccordo con le profonde realtà dell'esperienza femminile. L'atto di imprimere su carta il resoconto della propria vicenda esistenziale è un modo di recuperare un aspetto della vita che è un ricordo vivente e modella il presente, pur non facendo più parte di esso. Può essere un espediente per ricatturare la ricchezza della propria cultura.

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Tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90 del nostro secolo gli interessi della critica letteraria — grazie ai contributi di studiosi come A.

Krupat, William L. Andrews, G. Padilla ed altri — si spostano verso l'analisi delle produzioni letterarie autobiografiche dei particolari gruppi che formano la nostra società contemporanea multietnica, le quali offrono la possibilità di teorizzare l'identità etnica.

Lo studio approfondito delle autobiografie di donne di colore consente di confutare l'idea, generalmente accettata, che l'identità femminile si definisse esclusivamente in termini "gender based".

Le donne native americane, al pari di molte donne di colore, sono molto poco adatte ad essere definite in base alla loro natura sessuale. Nel particolare contesto socioculturale in cui le donne indiane vivono il proprio processo di formazione e di sviluppo individuale, l'etnicità contribuisce in maniera determinante alla costruzione del self.

L'identità personale della donna indianoamericana si definisce e si costruisce — in alcuni casi si ricerca —, in maniera relazionale, attraverso il legame con la famiglia, con la terra, con la propria gente attraverso connessioni tribali, nazionali e culturali. In tal senso risulta peculiare la condizione materiale di essere un'indiana, stato ancor più complesso di quello di essere soltanto una donna.

Da questo punto di vista è innegabile l'idea che ci troviamo di fronte a dei

"multiply marginalized" ma anche "multiply relational subjects"20, in virtù della loro natura e della cultura tribale.

19 S. Stanford Friedman, “Women’s Autobiographical Selves: Theory and Practice”, in ibidem;

pag. 75;

20 Hertha D. Sweet Wong, “First-Person Plural: Subjectivity and Community in Native American Women’s Autobiography”, in ibidem; pag. 170;

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