La particolare forma letteraria costituita come genere e definita autobiografia nell'ambiente culturale occidentale non esisteva tradizionalmente all'interno delle culture tribali native d'America.
Mancano, infatti, presso le popolazioni indigene due elementi fondamentali per dare origine alla rappresentazione della vita di una persona: l'individualismo egocentrico e la scrittura, sconosciuti alle culture indianoamericane.
Tra gli indiani pre-colombiani esistono il senso di libertà personale, del valore e di responsabilità, ma l'individuo è sempre concepito in subordinazione alle esigenze della comunità; il singolo non può essere immaginato fuori dalla propria società o, ancor di meno, contro di essa.
L'ideologia individualista poteva difficilmente nascere, svilupparsi e trovare collocazione all'interno delle culture tribali sprovviste di basi logiche ed ideologiche che potessero far nascere l'idea di celebrare un singolo individuo originale, diverso, migliore degli altri, insomma unico.
Le società indigene considerano l'individuo importante e speciale in quanto la sua esistenza si svolge all'interno di una data collettività; la grandezza personale, di conseguenza, doveva e poteva essere raggiunta in funzione del bene e della sopravvivenza della comunità.
Gli indiani sono depositari tradizionalmente di una letteratura ampiamente ricca e complessa nelle sue manifestazioni, ma esclusivamente di tipo orale.
L’intera struttura letteraria e culturale delle varie comunità indigene era costruita, espressa e tramandata alle generazioni successive attraverso le
performances e lo storytelling in cui avevano fondamentale importanza la voce, i gesti, i movimenti, i segni. Presso le popolazioni indianoamericane possono essere trovate pittografie su pelli di animali o sulla sabbia, ma non segni su carta come nel mondo culturale europeo ed euroamericano.
L'introduzione della scrittura nell'ambito delle civiltà indiane avvenne ad opera degli invasori, i quali cercarono di fissare su carta "the pale trace of what their voices performed".11
L'autobiografia nativa americana non è, dunque, una forma canonica, tradizionale della letteratura indiana, bensì nasce come conseguenza del contatto tra i bianchi colonizzattori-invasori ed i popoli che già abitavano il territorio americano.
Un canone autobiografico nativo non è stato ancora stabilito, non esiste un insieme di testi ed autori considerati convenzionalmente “maggiori”, fatta eccezione per alcuni titoli ormai noti al grande pubblico dei lettori e degli accademici.
Sono stati decisamente particolari eventi storici, sociali e politici che hanno provocato, stimolato e dato origine alla produzione narrativa autobiografica indigena; gli aspetti peculiari del genere creato sono, inevitabilmente ed indiscutibilmente, influenzati — ma probabilmente sarebbe più esatto dire modellati — dalle teorie e dai modelli della cultura dominante euroamericana.
Quando le narrazioni autobiografiche raccontate dai nativi a proposito della propria esistenza furono impresse su carta mediante la scrittura, sia come testi scritti in prima persona da indianoamericani che avevano acquisito un’istruzione di tipo occidentale, sia come frutto di collaborazioni tra il soggetto indigeno ed un curatore e/o editore bianco, assunsero due
11 A. Krupat, For Those Who Come After, University of California Press, 1985, cap. I;
forme diverse definite: "autobiographies by Indians" e "Indian autobiographies". 12
Le autobiografie "by Indians" sono narrazioni originate dal singolo individuo che racconta, come nelle autobiografie canoniche occidentali, la cronaca della propria esperienza personale in prima persona.
Il soggetto nativo diventa un autore nel momento in cui riceve un'adeguata istruzione e civilizzazione — molto spesso anche cristianizzazione —; la white euroamerican education gli consente, infatti, di essere in grado di appropriarsi del linguaggio inglese, di essere in grado di scrivere e di poter in tal modo usare gli strumenti della cultura letteraria dominante.
Nel 1768 il reverendo Samson Occom, un Mohegan, scrive un breve resoconto personale che è l'esempio più remoto di autobiografia nativa americana. Successivamente, il reverendo William Apess, un Pequot, scrive la prima autobiografia di un indiano che ottiene un positivo riscontro di lettori, A Son of the Forest (1829).
Questi due primi esempi sono la testimonianza tangibile che la prima fase del discorso autobiografico "by Indians" è, dal punto di vista storico, dominata dal rapporto creatosi tra religione bianca ed indiani. L'opera di conversione e di cristianizzazione dei colonizzatori nei confronti delle tribù comincia con i primi sbarchi dei pellegrini in terra americana. I racconti autobiografici dei cosiddetti 'indiani convertiti' sonoautorappresentazioni in senso occidentale, pur essendo biculturali; essi diventano l'espressione di soggetti familiari con i modi della cultura euroamericana restando comunque legati alle proprie radici culturali tribali.
12 A. Krupat, ed. by, Native American Autobiography, an Anthology, The University of
Nascendo da soggetti sociali che vivono in una posizione a metà tra due realtà profondamente diverse, ne osservano spesso anche gli aspetti negativi; non mancano, per questo motivo, i testi in difesa del punto di vista e del modo di concepire e vivere l’esistenza degli indiani che muovono implicite o esplicite accuse nei confronti dei soprusi, del razzismo e degli inganni attuati dai settlers.
In seguito questi testi perdono l'accento religioso e spirituale per fare spazio ai meccanismi ideologici e culturali della società euroamericana. Tra la fine del 1800 e gli inizi del secolo successivo, gli scrittori indiani se da un lato sono a favore dell'ascendente rivalutazione del valore delle culture tradizionali tribali accettano dall’altro, in ogni caso, i principi della
"civilization".
Nel corso del XX sec. le creazioni letterarie dei nativi americani conoscono una particolare produttività assumendo la forma di romanzi, di liriche e, naturalmente, di narrazioni autobiografiche. In questo periodo gli autori indiani di testi autobiografici hanno come motore trainante un profondo orgoglio nelle loro radici etniche e una voglia di rivendicare la propria identità e dignità culturale ed umana.
Vittime inevitabili della dottrina del melting pot, dell'idea di dover a tutti i costi uccidere l'indiano che è in loro e salvarne l'uomo per spezzare le radici che li legano al loro ambiente tribale, cercano ad ogni costo — stanchi di sentirsi come degli stranieri in patria e di ricevere lo stesso trattamento riservato agli animali selvatici — di far sentire la propria voce in nome della giustizia culturale ed umana.
Wisconsin Press, 1994; pag.93;
Il loro sforzo è compiuto in favore di una self-definition etnica ed individuale all'interno di un contesto biculturale nel quale gli indiani sono stati da sempre costretti a vivere; è un'orgogliosa rivendicazione della propria eredità ed identità culturale.
A partire dalla seconda metà del nostro secolo i nativi americani ostentano, in maniera crescente, una forte volontà e soprattutto una grande capacità di autorappresentarsi senza alcuna mediazione da parte dei bianchi.
Molti sono gli artisti che, una volta sottoposti all'attenzione del pubblico mediante la propria produzione di materiale poetico e narrativo, raccontano le proprie esperienze personali esponendo in primo piano il loro autentico punto di vista.
Tutto ciò avviene in maniera più marcata ed evidente con l’avvento del
“Native American Renaissance”, evento che si fa coincidere con la data di pubblicazione nel 1968 di House Made of Dawn da parte di N. Scott Momaday, vincitore del premio Pulitzer per la letteratura (1969).
Le recenti produzioni autobiografiche sono quasi tutte self-written e sono la testimonianza dell'orgoglioso legame esistente tra gli indiani e gli aspetti linguistici, morali, religiosi e letterari delle loro culture tradizionali tribali.
Esse evidenziano, d'altronde, l'abilità innegabile di tali artisti nell'uso, nella manipolazione delle tecniche e dei modelli letterari euroamericani, nel loro tentativo di costruirsi un'identità riappropriandosi del proprio retaggio culturale.
Le "Indian autobiographies" non sono racconti scritti da un individuo in prima persona; esse sono costituite come genere dal principio che lo
studioso Arnold Krupat definisce "original bicultural composite composition".13
La creazione di tali narrazioni avviene mediante un complesso processo produttivo. Tre sono le parti che, collaborando, originano questo peculiare tipo di racconto autobiografico non avente alcun modello precedente all'interno delle culture tribali.
La composizione composita dell'autobiografia indiana necessita di un indiano, che è il soggetto della narrazione e la cui esperienza di vita, presentata oralmente, performed, forma il contenuto del testo; un educatore bianco — un antropologo, un etnologo, un giornalista o un semplice dilettante amante delle civiltà indianoamericane — che revisiona, rifinisce, organizza e imprime in forma scritta il testo stampato.
In quasi tutti i casi, inoltre, è prevista la presenza necessaria di un interprete, spesso un mixedblood , che conoscendo sia il linguaggio tribale indiano che l'inglese, assume il compito di intermediario tra il bianco
"civilized" e l'indiano "savage", privo di un'istruzione euroamericana e incapace sia di parlare sia di scrivere l'inglese.
Quando nel 1830 viene approvato da parte del governo l“Indian Removal Bill”, la rimozione forzata delle eastern tribes ad ovest del fiume Mississippi, viene considerata come l'inevitabile passo da compiere in avanti nel cammino verso la civilizzazione.
Sono questi gli anni in cui il generale Sheridan dichiara che “the only good Indian would be a dead Indian”14; tale affermazione simboleggia l'idea diffusa tra gli americani secondo la quale l'indiano non può essere
13 A. Krupat, For Those Who Come After, University of California Press, 1985; pag. 31;
14 ibidem; pag. 56; (grassetto mio);
civilizzato e, dunque, l'unica alternativa è renderlo vittima di un feroce genocidio.
La graduale scomparsa dei nativi è determinata dalla legge dell'evoluzione culturale che fornisce una base logica, nonché un alone di santità, alla politica di annientamento delle civiltà indianoamericane messa in atto dal governo statunitense.
Se da un lato la linea politica adottata dagli organi governativi americani procede verso l’eliminazione delle comunità tribali, privandole della loro terra, di una storia, di una civiltà ma soprattutto di una dignità e di un’identità; dall’altro in questo periodo nascono diverse produzioni autobiografiche riguardanti l'indiano che viene considerato dagli studiosi e dagli appassionati americani (e non), un elemento da inserire nel percorso storico semplicemente, però, come “reperto archeologico”, un qualcosa al quale di lì a poco si guarderà come una rarità estinta.
Essendo ormai convinzione generale che la cultura indiana stia per scomparire, nasce un profondo interesse per la conservazione di testimonianze e documenti in nome della giustizia storica.
Tale particolare contesto storico-politico consente la produzione delle
"Indian autobiographies", documenti storici ed etnografici sul presunto vanishing American.
I soggetti protagonisti delle autobiografie sono i grandi guerrieri, i "great chief" che si sono resi protagonisti della storia distinguendosi nei conflitti e in diplomazia, resistendo ai soprusi governativi, ai tentativi di sottomissione militare, politica, culturale ed umana.
Nel 1833 viene pubblicato il primo esempio del genere, Life of Ma-ka-tai-me-she-kia-kiak or Black Hawk, edito da J. B Patterson. Seguiranno le
autobiografie di altri grandi protagonisti indiani come Geronimo’s Story of his Life di M. Barrett, Yellow Wolf: His Own Story di L. V. Mc Whorter, e Black Elk Speaks di J. G. Neihardt, probabilmente la più conosciuta delle autobiografie degli indiani d'America.
Le autobiografie indiane presentano le azioni individuali, gli “eroi”
indiani che diventano tali soltanto ammettendo ed accettando la propria sconfitta storica; una presenza parlante in prima persona è, contraddittoriamente ed ironicamente, l'elemento fondamentale per l'affermazione della propria inevitabile scomparsa nell'atto di raccontare la storia della propria esistenza.
Con l'inizio del XX sec., dopo l'avvenuta chiusura della frontiera nel 1890 e lo “schiacciamento” delle tribù nelle riserve, l'attenzione dell'autobiografia indiana si sposta verso il complesso insieme di elementi che formano la cultura dell'indiano.
Franz Boas inaugura un nuovo tipo di studio antropologico che esalta il valore del punto di vista dei protagonisti del fenomeno culturale. Gli antropologi approcciano individui ordinari che raccontando le proprie storie personali o comunitarie diventano "representative" della loro cultura nativa.
L'interesse antropologico che domina la produzione autobiografica fino al 1940 circa, è sensibile all'idea che gli indiani hanno di sé stessi e della propria cultura. Nel preciso momento in cui si cerca, attraverso la civilizzazione e l'assimilazione, di rendere l’“Indian American” un
“American Indian” mescolandolo nel calderone del “melting pot”
statunitense, il meccanismo autobiografico presenta l'uomo inscindibile, inseparabile dalla sua "indianness".
Ponendo, infatti, in risalto l'elemento etnico dell'identità indiana, si afferma automaticamente la necessità che gli indiani conservino e coltivino le radici tradizionali delle rispettive tribù d'appartenenza.
L'idea è che, sostanzialmente, i nativi possano appropriarsi (se lo vogliono e non attraverso sistemi coercitivi ed abusi) della cultura euroamericana e diventare "Americans", pur restando comunque principalmente "Indians".
A proposito di questo nuovo interesse è importante sottolineare che uno dei risultati del lavoro antropologico compiuto da Boas e dai suoi collaboratori, fu la documentazione delle vite e delle storie mitiche, tradizionali e personali raccontate dalle donne indiane d’America depositarie della cultura tribale allo stesso modo degli uomini.
A questo punto, diventa fondamentale evidenziare che, sebbene inizialmente la forma autobiografica indianoamericana sia stata creata essenzialmente come la prova dell'autenticità di un documento storico e/o scientifico prima, e la testimonianza di una civiltà culturale “in via d’estinzione” poi, essa presenta, comunque, il processo di sviluppo e di definizione personale di un determinato individuo esposto attraverso il proprio punto di vista. Tale convenzione centrale del genere autobiografico occidentale conferisce all’autobiogafia nativa americana un altissimo potenziale, consentendole di ottenere il giusto interesse di pubblico accademico e di lettori.
La narrazione si dispiega, infatti, mediante un "subject speaking for himself", un individuo che sceglie di autorivelarsi in prima persona autonomamente, sfruttando gli strumenti culturali “bianchi” dei quali (sia da
autodidatta sia attraverso il sistema scolastico) si è appropriato; tale meccanismo consente ad una voce vivente di emergere e raccontarsi.
Dopo circa duecento anni di storia americana la voce indiana — ascoltata in precedenza essenzialmente in forma “mediata e manipolata”—
non è più né "vanished", né silenziosa, né tantomeno priva di dignità; essa ha, al contrario, l'opportunità, in forma di “autobiography by Indian”, di essere considerata degna di ricevere attenzione ed ascolto, preservando il retaggio culturale delle diverse comunità tribali indianoamericane.
Bisogna, infatti, tener presente che all’interno delle “Indian autobiographies”, al contrario, la mediazione tra soggetto indiano e chi scrive il testo autobiografico compiuta da un interprete (nel caso delle collaborazioni meno complesse), l'organizzazione e la forma narrativa scelte dal “curatore amanuense” — vale a dire ciò che determina il peculiare modo di produzione di simili creazioni letterarie —, sono strettamente connessi con la domanda se la "real" o "authentic" voce indiana venga rispettata ed espressa, oppure debba ancora essere restituita a queste autobiografie.15
Se da un lato chi racconta la propria esperienza esistenziale può offrire un resoconto autentico, i problemi oggettivi esistenti nel colloquio tra chi parla il linguaggio tribale, chi lo traduce e l'editore "amanuensis" che raccoglie la traduzione di tale testimonianza, ne alterano inevitabilmente il contenuto e gli obiettivi. Non mancano casi in cui l'editore sollecita il soggetto attraverso specifiche domande per compiere un determinato percorso narrativo da lui ideato, creato ed organizzato.
15 A. Krupat, ed. by, Native American Autobiography, an Anthology, The University of Wisconsin Press,1994; pag. 8;
Le due forme autobiografiche native americane presentano i due elementi fondamentali — self e life story — del canone autobiografico, presentando variazioni che sono caratteristiche delle culture tribali tradizionali all'interno delle quali prendono forma.
La concezione nativa americana del self nasce da un rapporto integrativo e relazionale con il resto della comunità d'appartenenza.
L'idea euroamericana di identità personale si basa sull'opposizione tra il
"Great Man" e la società; questa concezione fondata sui principi dell'ideologia individualista, è impensabile tra i "Native Americans".
Questi ultimi si definiscono individualmente come persone trovando la giusta collocazione in armonia con il proprio raggruppamento societario; in tal senso l'individualismo e la volontà del singolo sono considerati tratti negativi ed antagonisti della tribù.
La self-definition etnica è, a mio avviso, ricollegabile al principio fondamentale del "cerchio sacro"; esso è il simbolo geometrico dell'equidistanza che separa gli esseri umani dall'essenza centrale della vita, del loro sostanziale apporto, che è in misura uguale a quello di qualunque altro essere.
Tale immagine simboleggia i principi di equilibrio ed armonia di tutte le cose presenti nel cosmo sui quali è basata la visione del mondo indianoamericana; una realtà di questo genere, nega automaticamente l'opposizione, il dualismo, l'egocentrismo caratteristici del pensiero occidentale.
Chi decide di autoraccontarsi o di raccontare il proprio "pezzo di storia", si rende protagonista di un atto finalizzato a dimostrare quanto è importante l'apporto comunitario in un gesto compiuto in favore della comunità.
L'indianoamericano che scrive in prima persona o narra attraverso un curatore la propria vita, è stimolato dalla volontà di consentire alle generazioni successive di ereditare un prezioso retaggio culturale, di capire la realtà storica fatta di abusi, soprusi, ingiustizie e rivendicazioni vissuta dagli abitanti nativi del continente americano, di agire, infine, in maniera sensata nel rispetto delle tradizioni.
Nello svolgimento del racconto narrativo sono molto importanti le storie; quando esse non sono private, l'esperienza personale viene celata da una storia mitica o tradizionale avente la duplice funzione di raccontare un
"fatto tradizionale", comunicando un "fatto personale".
Prendendo corpo attraverso le storie, la narrazione non è organizzata mediante un'impalcatura cronologica; la cronologia come categoria non può essere una concezione indigena. Nel mondo indianoamericano non c'è spazio per la concezione euroamericana del tempo; esso è, come ogni altra attività tribale, un'esperienza collettiva, è invisibile ma tangibile perché scandito soltanto attraverso le sue dimensioni visibili — le "lune", le "nevi", la raccolta di radici ed erbe, le cacce, ecc.
Se durante l'azione del raccontare il soggetto decide di presentare un determinato momento dell'evoluzione esistenziale della persona, ciò avviene in quanto qualcosa di importante happened in tale periodo.
La parola, infine, la potenza del discorso è indiscutibilmente di cruciale importanza all'interno delle culture orali tribali. Solitamente il racconto autobiografico dell'indiano al proprio interlocutore ha luogo in presenza di una parte della comunità.
La narrazione, come nel caso delle visioni e dei sogni, è performed, accompagnata da gesti, segni, modulazioni differenti della tonalità vocale,
in quanto la loro pregnanza non si ferma all'esistenza individuale, bensì va oltre, al fine di garantire la sopravvivenza e la fortuna della collettività.
Si è visto come il genere letterario autobiografico — "by and about Indians" — abbia potuto avere origine soltanto dopo il contatto con la cultura euroamericana che ne ha plasmato gli aspetti attraverso le sue ideologie, i suoi valori, i suoi modi di produzione ed il suo potere modellante.
Entrambe le forme di scrittura del self nascono dalla spinta radicata in un preciso contesto culturale, storico, politico, sociale ed anche religioso fortemente condizionato dalla presenza dei settlers europei nel territorio statunitense, come anche da quella non irrilevante degli indiani.
Queste autobiografie possono essere lette, pertanto, come l'equivalente della 'frontier' ; sono prodotti biculturali — anche quando non sono il frutto di esplicite collaborazioni —, testi che, non soltanto testimoniano fino a quale punto sia giunta l'operazione civilizzatrice ma nei quali, inoltre, si incontrano due culture radicalmente differenti che interagiscono (soltanto dal momento in cui la cultura indiana smette di sottostare a quella euroamericana).
Le autobiografie "Native American" sono una finestra sulla cultura nativa, sulla cultura euroamericana ma anche sul loro rapporto reciproco — che usualmente non fu tra eguali — mostrandoci i mutamenti d'opinione e di rapporti manifestatisi nel corso dei secoli tra esse.
Le recenti produzioni degli artisti indiani dimostrano che l'autentica voce nativa è in grado di condurre verso risultati sorprendenti e degni di essere inseriti all'interno di un canone letterario nativo americano.
Presentando le caratteristiche canoniche del genere autobiografico euroamericano hanno decisamente il diritto di entrare a far parte della letteratura americana, senza mai più correre il rischio di essere completamente ignorate dagli accademici, dai lettori nativi e non, e dagli studenti della civiltà letteraria "anglo-americana".