LA FORMAZIONE DI BOCCACCIO FONDAMENTI DI UN’IDEA DI POESIA
1. B OCCACCIO A N APOLI : VITA E LETTERATURA
1.1 La Napoli di Roberto d’Angiò
La formazione artistica ed umana di Giovanni Boccaccio affonda le sue radici nell‟humus culturale della Napoli angioina, dove egli visse, tra il 1327 e il 1340-41, un periodo fondamentale per la definizione della sua fisionomia di autore1; Napoli infatti, «con il suo Studio, la ricchissima Biblioteca di Roberto d‟Angiò e la cultura letteraria dei nobili della corte»,2 aprì a Boccaccio la vastità del suo panorama culturale, le cui varie vie il giovane fiorentino seppe perseguire con originalità, sperimentandole e intrecciandole nelle sue prime prove letterarie. Sotto Roberto d‟Angiò (il cui regno si estende dal 1309 al 1343), la capitale partenopea conosce un periodo di fervore intellettuale, che alla presenza dei più noti eruditi del tempo, richiamati a corte dal mecenatismo del sovrano, unisce la passione con cui presso gli ordini mendicanti si dibattono temi teologici e filosofici dagli inevitabili risvolti politici. Gli Studia religiosi, dopo l‟oscuramento da parte di Federico II, il quale mirava alla creazione di uno Stato anche culturalmente accentrato, vivono con gli Angioini un momento di grande vivacità; Carlo d‟Angiò «si affretterà a chiedere e favorire la
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Boccaccio probabilmente visse a Napoli dai quattordici ai ventisette-ventotto anni. Le date di arrivo e di partenza sono indiziarie, l‟una desunta dal trasferimento nella capitale partenopea del padre di Boccaccio, probabilmente quale collaboratore dei Bardi, l‟altra dalla mancata attestazione della presenza di Boccaccio all‟esame pubblico cui si sottopose il Petrarca a Napoli nel 1341. Per queste informazioni, ma in generale per l‟intera biografia del nostro autore, si veda V. BRANCA, Giovanni Boccaccio. Profilo biografico, Firenze 1977. 2
64 presenza e gli stanziamenti dei Mendicanti»3, visti come importante strumento di mediazione culturale e organizzazione del consenso. E se lo Studium domenicano è illustrato, tra il 1272 e il 1274, dall‟insegnamento e dalla predicazione di Tommaso d‟Aquino, sotto il regno di Roberto Napoli è «punto di riferimento per le correnti spiritualistiche ed eremitiche in conflitto con la Curia pontificia»4; tuttavia, pur assumendo «un atteggiamento ben più deciso a favore dei movimenti escatologici e di riforma religiosa»5, il re accolse a corte anche i sostenitori del potere temporale della Chiesa, acerrimi nemici dei Fraticelli.
L‟insegnamento della teologia impartito presso i Mendicanti era «ufficialmente riconosciuto e sussidiato»6, affiancandosi, quasi un‟integrazione, all‟Università laica, la quale conservava il peculiare carattere statale impressole da Federico II, all‟atto della cui fondazione vi aveva inglobato l‟antica scuola medica salernitana. Lo Studio si articolava nelle Facoltà di Arti, Medicina e Diritto, quest‟ultima particolarmente rinomata e all‟avanguardia, tanto che, anche quando l‟università napoletana conosce il declino, proprio durante il regno di Roberto, la fama degli studi di diritto resta alta, potendo vantare maestri del calibro di Pietro Piccolo da Monteforte7 e Cino da Pistoia. Il poeta e amico di Dante (come si accennava nella sezione dedicata alla quaestio disputata) appartiene all‟innovativa scuola dei Commentatori, che introduce il metodo dialettico negli studi giuridici, fondandolo «sull‟analisi interna e sulla ricerca della ratio legis»8
. Chiamato a Napoli da re Roberto, nella cui biblioteca appare inoltre una copia del suo commento al Corpus iuris civilis, Cino da Pistoia vi insegna per uno o forse due anni accademici, dal 1330 al 1332: una circostanza che si ritiene abbia permesso a Giovanni Boccaccio di conoscerlo
3
ANTONELLI, L‟ordine domenicano e la letteratura, op. cit., p. 698. 4
F. SABATINI, Napoli angioina, Cultura e società, Napoli 1975, p. 62; oltre a questo testo, per il panorama culturale del regno di Roberto d‟Angiò si vedano: N. DE BLASI,A.VARVARO, Il regno angioino. La Sicilia
indipendente, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Storia e geografia, Vol. I: L‟età medievale,
Torino 1987, pp. 457-488; S. KELLY, The New Solomon Robert of Naples (1309-1343) and Fourteenth-century
Kingship, Leiden 2003.
5
SABATINI, Napoli angioina, p. 62. 6
Ivi, p. 20. 7
Sulla figura di Pietro Piccolo da Monteforte, cultore dei nuovi studi umanistici e amico di Petrarca e Boccaccio vd. G. BILLANOVICH, Pietro Piccolo da Monteforte tra il Petrarca e il Boccaccio, in Medioevo e
Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, Firenze 1955, pp. 1-76.
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65 personalmente 9. Ad indurne il sospetto è la precoce presenza, negli autografi e nei primi esperimenti letterari del giovane autore, di testi letterari poco o nulla diffusi, che unicamente da Cino egli può aver appreso; non solo infatti nel Filostrato (1335?)10 Boccaccio adatta alle proprie ottave gli endecasillabi e settenari della canzone ciniana La dolce vista e „l bel guardo soave, di circolazione in quegli anni ancora limitata, ma trascrive nello Zibaldone laurenziano, imitandola inoltre nel dictamen Crepor celsitudinis del 1339, riportato nello stesso quaderno, l‟epistola dantesca a Cino, Exulanti Pistoriensi Florentinus exul immerito, a noi trasmessa esclusivamente dal testimone boccacciano11.
1.2 Diritto canonico vs poesia (?)
Benché Boccaccio possa essere entrato in contatto con il Pistoiese nell‟ambiente dei mercanti fiorentini, la cui colonia partenopea era in quegli anni numerosa e prospera, appare tuttavia plausibile che il loro incontro (da cui a Boccaccio la conoscenza di Dante, Cavalcanti e Cino stesso)12 sia avvenuto proprio all‟Università, l‟uno nei panni del maestro, l‟altro dello studente. Boccaccio infatti segue i corsi di diritto canonico per sei anni, presumibilmente «fra il 1330-31 e il 1336-37»13. Entrambi i poeti, per motivi diversi,
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Per la biblioteca di re Roberto, vd. KELLY, The new Solomon, cit., pp. 26-31. Sostiene la durata biennale dell‟insegnamento di Cino a Napoli BRANCA, Giovanni Boccaccio. Profilo biografico, cit., p. 31; ne riduce la presenza a Napoli ad un solo anno accademico, invece, G. DE BLASIIS, Cino da Pistoia nell‟Università di
Napoli, in «Archivio storico delle Province napoletane», 11 (1886), pp. 139-50. La questione non è di poco
momento, almeno per la critica boccacciana, poiché mette in gioco l‟incontro tra Boccaccio e Cino. 10
Cfr. BATTAGLIA RICCI, Boccaccio, cit., p. 76: «La cronologia, assoluta e relativa, delle opere giovanili del
Boccaccio, è incertissima». Per un cenno sulla datazione del Filostrato vedi, nel capitolo seguente, il paragrafo dedicato al giovanile poemetto boccacciano.
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Sulla questione del probabile contatto tra il giovane Boccaccio e Cino da Pistoia, si veda V.BRANCA,P.G. RICCI, Notizie e documenti per la biografia del Boccaccio. IV: L‟incontro napoletano con Cino da Pistoia, in «Studi sul Boccaccio», 5 (1969), pp. 1-18.
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A parere di Branca, echi di Cavalcanti si riscontrano nelle prime rime di Boccaccio (I, IX, XI, XIII, XXIV), nel Filostrato (IX 5, 6, 7, 8) e nel Teseida (X 55-7); cfr. BRANCA, Profilo biografico, p. 32 e nota; per
un‟opinione contraria, si veda invece A. E. QUAGLIO, Prima fortuna della glossa garbiana a «Donna me
prega», in «GSLI», 141 (1964). Non si può peraltro negare che i luoghi delle Rime indicati da Branca
riprendano l‟uso cavalcantiano del diminutivo e l‟immagine della pastorella; nel congedo del Filostrato è chiara l‟eco della ballatetta cavalcantiana. Nel Teseida (X 55-57) Cavalcanti presta ad Arcita morente gli accenti dolorosi e la descrizione del teatro interiore.
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BRANCA,RICCI, Notizie e documenti, cit., p. 6. Il fatto che Boccaccio studiasse diritto canonico e non civile non è un ostacolo all‟ipotesi che abbia seguito il corso di Cino, poiché «frequentava (...) un corso affine, in un
66 vivono con probabile disagio l‟ambiente universitario partenopeo. Cino, infatti, non pare si sia visto ben accolto dai giuristi napoletani, come testimonia il testo satirico, Deh, quando rivedrò 'l dolce paese, che scrisse a loro denigrazione; per Boccaccio, la frequenza dei corsi di diritto non è frutto di una libera scelta, ma dell‟imposizione paterna, che segue ad un altro tentativo di “coercizione”, quello alla pratica della mercatura.L‟insanabile inconciliabilità di tali pur lucrative occupazioni con la precoce vocazione poetica emerge da un pagina retrospettiva ed autobiografica delle Genealogie deorum gentilium, enciclopedia mitologica degli anni maturi:
Verum ad quoscunque actus natura produxerit alios, me quidem, experientia teste, ad poeticas meditationes dispositum ex utero matris eduxit et meo iudicio in hoc natus sum. Satis enim memini apposuisse patrem meum a pueritia mea conatus omnes, ut negociator efficerer, meque, adolescentiam non dum intrantem, arismetrica instructum maximo mercatori dedit discipulum, quem penes sex annis nil aliud egi, quam non recuperabile tempus in vacuum terere. Hinc quoniam visum est, aliquibus ostendentibus indiciis, me aptiorem fore licterarum studiis, iussit genitor idem, ut pontificum sanctiones, dives exinde futurus, auditurus intrarem, et sub preceptore clarissimo fere tantundem temporis in cassum etiam laboravi. Fastidiebat hec animus adeo, ut in neutrum horum officiorum, aut preceptoris doctrina, aut genitoris autoritate, qua novis mandatis angebar continue, aut amicorum precibus seu obiurgationibus inclinari posset, in tantum illum ad poeticam traebat affectio. Nec ex novo sumpto consilio in poesim animus totis tendebat pedibus, quin imo a vetustissima dispositione ibat inpulsus; nam satis memor sum, non dum ad septimum etatis annum deveneram, nec dum fictiones videram, non dum doctores aliquos audiveram, vix prima licterarum elementa cognoveram, et ecce, ipsa inpellente natura, fingendi desiderium affuit, et si nullius essent momenti, tamen aliquas fictiunculas
tempo in cui gli scambi di studenti, di professori, di lezioni erano correnti» (ivi, p. 7).Esiste una traccia, ancora piuttosto vaga, che potrebbe provare che Boccaccio abbia seguito i corsi di Cino da Pistoia. Si tratta di una carta rinvenuta in un codice miscellaneo della Biblioteca Czartoryski di Cracovia, il 2566; questa carta, contrassegnata originariamente con il numero 83, appartiene ad un altro manoscritto, il Magliabechiano XXIX 169, della prima metà Trecento, che riporta la Lectura supra codicem di Cino da Pistoia, esemplata da varie mani e frettolosamente, quindi da studenti che si sono divisi il compito di copiare il testo del maestro. Una parte, quella a cui appartiene la carta ritrovata a Cracovia, potrebbe essere di mano del Boccaccio, ma mancano conferme, perché noi conosciamo bene la scrittura calligrafica del Certaldese, molto meno invece la corsiva (solo nello Zibaldone Magliabechiano e in un letterina a Leonardo del Chiaro). Cfr. BRANCA,RICCI,
Notizie e documenti. IV, cit., pp. 11-18; G. AUZZAS, I codici autografi. Elenco e bibliografia, in «Studi sul Boccaccio», 7 (1973), pp. 1-20, a p. 20.
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edidi; non enim suppetebant tenelle etati officio tanto vires ingenii. Attamen iam fere maturus etate et mei iuris factus, nemine inpellente, nemine docente, imo obsistente patre et studium tale damnante, quod modicum novi poetice, sua sponte sumpsit ingenium, eamque summa aviditate secutus sum, et precipua cum delectatione autorum eiusdem libros vidi legique, et, uti potui, intelligere conatus sum. Et mirabile dictu, cum nondum novissem quibus seu quot pedibus carmen incederet, me etiam pro viribus renitente, quod non dum sum, poeta fere a notis omnibus vocatus fui. Nec dubito, dum etas in hoc aptior erat, si equo genitor tulisset animo, quin inter celebres poetas unus evasissem, verum dum in lucrosas artes primo, inde in lucrosam facultatem ingenium flectere conatur meum, factum est ut nec negociator sim, nec evaderem canonista, et perderem poetam esse conspicuum14.
In ogni modo, a qualunque fine la natura abbia prodotto gli altri, me trasse certamente dall‟utero della madre disposto, come mostra l‟esperienza, alle meditazioni poetiche e a mio parere sono nato per questo15.
Ricordo infatti molto bene come mio padre, fin dalla mia fanciullezza, abbia fatto ogni sforzo perché io diventassi mercante e come, quando ancora non ero adolescente, dopo avermi fatto istruire in aritmetica, mi abbia affidato come allievo ad un grandissimo mercante, presso il quale per sei anni altro non feci, che perdere invano tempo non recuperabile. Poiché da questo si vide, mostrandolo alcuni indizi, che ero più adatto agli studi letterari, lo stesso genitore ordinò che iniziassi lo studio del diritto canonico, affinché ne diventassi ricco, e sotto un famosissimo maestro faticai invano quasi altrettanto tempo. L‟animo aveva tanto a noia queste cose, da non poter essere piegato a nessuno dei due compiti, né dalla preparazione del maestro, né dall‟autorità del genitore, dalla quale ero continuamente oppresso con nuove imposizioni, né dalle preghiere o dai rimproveri degli amici: a tal punto lo traeva l‟amore verso la poesia.
Né per una decisione estemporanea l‟animo tendeva con tutte le sue forze alla poesia, ché anzi procedeva spinto da un‟antichissima disposizione; infatti ricordo bene: non ero ancora giunto al settimo anno di età, né avevo ancora visto delle poesie, non avevo ancora seguito le lezioni di alcun maestro, a stento conoscevo i primi
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GIOVANNI BOCCACCIO, Genealogie deorum gentilium, XV 10, 6-8, a c. di Vittorio Zaccaria, in Tutte le
opere di Giovanni Boccaccio, a c. di V. BRANCA, Milano 1998, vol. VII-VIII, tomo II.
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«Meditazioni poetiche»: per Boccaccio l‟atto proprio della poesia è la meditazione, mentre quello della filosofia è la dimostrazione. Meditazione in primo luogo non ha a che fare con la retorica, in secondo luogo richiama l‟ambito religioso, se non proprio mistico, al quale Boccaccio fa tra l‟altro riferimento per la sua concezione di poesia.
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elementi delle lettere, ed ecco, sotto la spinta della natura medesima, sopraggiunse il desiderio di comporre, e, sebbene non fossero di alcun valore, tuttavia scrissi alcune cosette; non erano infatti sufficienti, per la tenera età, le forze dell‟ingegno ad un compito così impegnativo. Tuttavia, divenuto quasi oramai adulto e indipendente, senza che alcuno mi spingesse, o mi insegnasse, anzi con mio padre che si opponeva e condannava tale studio, spontaneamente l‟ingegno apprese quel poco che so di poesia, ed essa seguii con grande avidità, e con supremo diletto vidi e lessi i libri dei suoi autori e, per quanto potei, mi sforzai di capirli. E, mirabile a dirsi, quando ancora non sapevo con quali e quanti piedi procedesse una poesia, da tutti i conoscenti (nonostante mi opponessi per quanto potevo) fui chiamato poeta, cosa che ancora non sono.
Ma se mio padre l‟avesse tollerato di buon animo, non dubito che, finché l‟età era a ciò più adatta, sarei diventato uno dei celebri poeti; invece, mentre tentava di piegare il mio ingegno prima ad un‟attività lucrosa, poi ad una lucrosa disciplina, è avvenuto che né sono mercante, né sono diventato canonista, e ho perso l‟opportunità di essere un grande poeta16.
L‟inconciliabilità di due mondi, quello della poesia e quello del guadagno, cui appartiene il padre («un vecchio freddo, ruvido e avaro»)17, è già tutta nell‟organizzazione di questo brano; l‟autore ha evidentemente scelto di descriverli come due percorsi distinti della propria esperienza, benché cronologicamente in gran parte coincidano. Alla dichiarazione iniziale di devozione totale e innata alla poesia (dichiarazione che prospetta la seguente narrazione come prova esperienziale di quanto affermato), seguono infatti i due paragrafi centrali. Il primo, dedicato al cursus voluto dal padre, dopo l‟istruzione matematica (che seguiva quella del Trivium), vede un Boccaccio alle soglie dell‟adolescenza iniziare, tra gli undici e i dodici anni «il tirocinio pratico di “discepolo” nella mercatura e nel cambio, probabilmente sotto la direzione del padre e dello zio o di altri parenti o soci»18; l‟apprendistato, iniziato a Firenze, continua a Napoli tra i quattordici e i diciotto anni. È la normale trafila per il futuro mercante, ma Giovanni non vi appare affatto incline, tanto che il genitore, trascorsi inutilmente sei anni, pensa bene di mettere almeno a frutto la sua disposizione allo studio, iscrivendolo ai corsi di diritto canonico, che infatti
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La traduzione del brano è di chi scrive, così come la paragrafatura, voluta a fini di evidenza interpretativa. 17
BOCCACCIO, Comedia delle ninfe fiorentine, XLIX, v. 80, a cura di A. E. Quaglio, in Tutte le opere di
Giovanni Boccaccio, II, Milano 1964. Per una prospettiva più affettuosa, si veda il ricordo dei riti con cui il
padre, in qualità di capofamiglia, celebrava il capodanno, in Genealogie XII 65. 18
69 aprivano le porte (come esplicitamente attestano documenti dell‟epoca) ad una lucrosa carriera. L‟incomprensione è totale e anche questa via si rivelerà senza sbocchi per il giovane Boccaccio, che esce dall‟università dopo altri sei anni senza aver ottenuto alcun titolo, nonostante le pressioni di amici e parenti e l‟autorevolezza dei maestri (cui si allude con l‟indicazione generica, e classicheggiante, «sub preceptore clarissimo»)19
. Boccaccio dovrebbe essere ormai tra i 23 e i 24 anni; a questo punto, probabilmente, il padre si sarà arreso all‟evidenza di un‟incoercibile passione poetica. E alla luce dell‟amore per la poesia è ripercorsa da Boccaccio la propria storia nel secondo dei due paragrafi centrali. Con un flashback vi si ritorna alla fanciullezza, quando il piccolo Giovanni, avendo appreso appena i primi elementi delle lettere (presso la scuola fiorentina di Giovanni di Domenico di Mazzuoli da Strada), viene improvvisamente “posseduto” dal «fingendi desiderium»: la (divina) spinta a creare gli illumina un percorso, del tutto opposto a quello voluto dal padre, che egli seguirà con sempre maggiore consapevolezza. Alla scrittura in proprio si accompagnerà lo studio dei grandi autori, che, a differenza di quello impostogli, l‟autore condurrà (lo sottolinea con evidente orgoglio) di propria iniziativa e da autodidatta. Un cursus, questo poetico, che evidentemente si intreccia all‟altro, mercantesco e giuridico, giacché viene portato avanti negli stessi anni almeno fino al 1336-37, quando Boccaccio probabilmente lascia lo studio del diritto; e tuttavia il ricordo della vocazione letteraria viene affidato ad una narrazione distinta. I due percorsi si ritrovano riuniti solo nel paragrafetto finale, in un unico periodo che non può che avere il senso di un amaro rimpianto per il tempo e le energie sprecate, per l‟occasione perduta.
Il racconto autobiografico è condotto – e non potrebbe essere altrimenti – dal punto di vista del protagonista, che tuttavia forse esagera, per snobismo da letterato, la propria inidoneità ad occupazioni pratiche e miranti al guadagno, secondo quella prospettiva umanistico-petrarchesca in cui si inquadra tutta la polemica condotta nelle Genealogie contro i detrattori della poesia. Di mercatura Boccaccio rivela invece di intendersi, e anche parecchio, se guardiamo alle novelle del Decameron ambientate nel contesto degli scambi e dei commerci: la I 1 (che ha per protagonista Ser Cepparello), la II 5 (Andreuccio da Perugia), la VIII 10 (Salabaetto), per citarne solo alcune. In realtà, l‟importanza che la frequentazione dell‟ambiente mercantesco ha rivestito per Boccaccio si misura, nell‟opera maggiore, non solo sulla conoscenza dei costumi di uomini di provenienza geografica ed estrazione sociale diversa, ma anche sull‟abitudine ad una scrittura attenta e puntuale,
19
70 deputata a registrare i dati dalla realtà20. Allo stesso modo (e a differenza di quanto Boccaccio vorrebbe far credere) gli studi giuridici non sono scivolati su di lui impunemente: lo attesta non solo il titolo di dominus attribuitogli dai contemporanei (concesso sia ai giudici, sia a chi, avendo studiato diritto, avesse ricoperto «un pubblico ufficio legale»)21, ma anche «il fatto che egli in seguito appare varie volte impegnato e consultato appunto come canonista»22.
Non è certo da mettere in dubbio l‟avversione del Boccaccio per lo studio del diritto canonico, da lui esplicitamente dichiarata nel dictamen «Sacre famis»: la petitio, che secondo i canoni dell‟ars dictandi precede la conclusione dell‟epistola, giustifica la richiesta in prestito di una Tebaide commentata proprio con l‟urgenza di cercare libri che possano offrire un conforto al tedio delle decretali: «cum mihi nullum solatium remanserit amplius, nisi, visis meis decretalium lectionibus, me ab eis quasi fastiditus extollens, alios querere libros» («poiché non mi è rimasto altro conforto, viste le mie letture delle decretali, se non, allontanandomene quasi nauseato, cercare altri libri»)23. Tuttavia, il pur aborrito studio, condotto per diversi anni, sembra aver lasciato nel bagaglio culturale del Boccaccio un‟impronta di termini e tecniche; a partire proprio dalle espressioni che l‟autore adotta, nel brano autobiografico sopra citato, per definire la scelta paterna di avviarlo a tale attività: «iussit genitor idem, ut pontificum sanctiones, dives exinde futurus, auditurus intrarem, et sub preceptore clarissimo fere tantundem temporis in cassum etiam laboravi». La terminologia ivi impiegata risulta infatti attestata in ambito universitario, dove audire indica il compito dello studente ed è il complementare di legere, che specifica invece l‟insegnamento del maestro: «avendo l‟ultimo termine il significato di tenere un corso, leggendovi e commentandovi un testo; il primo di “ascoltare” questo corso, seguire questo insegnamento»24. Giacché dunque «nel contesto dell‟educazione audire ha spesso il
20
Cfr. V. BRANCA, Vita e opere di Giovanni Boccaccio, in BOCCACCIO, Decameron, a cura di V. Branca, Torino 1980, p. XLII; BATTAGLIA RICCI, Boccaccio, cit., p. 24.
21
V. BRANCA , P.G. RICCI, Notizie e documenti per la biografia del Boccaccio. V: Dominus Johannes Boccaccius, in «Studi sul Boccaccio», 5 (1971), pp. 1-10, a p. 7.
22
BRANCA,RICCI, Notizie e documenti. IV, cit., p. 6, n. 2. 23
GIOVANNI BOCCACCIO, Epistole e lettere, Epistola IV («Sacre famis»), a c. di G. Auzzas, in Tutte le opere