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La lettera napoletana a Francesco de’ Bard

LA FORMAZIONE DI BOCCACCIO FONDAMENTI DI UN’IDEA DI POESIA

2. P ROVE TECNICHE DI SCRITTURA : UNA VISTA SULLA CULTURA DELL ‟ AUTORE

2.3 La lettera napoletana a Francesco de’ Bard

Coeva per elementi interni a quelle in latino, la lettera a Francesco de‟ Bardi ha con esse molti punti di contatto, al di là dei peculiari tratti linguistici che ne fanno un unicum nella produzione boccacciana. La particolarità di questo testo risiede nell‟articolazione in due parti, la prima in fiorentino illustre, la seconda in volgare napoletano: uno sdoppiamento linguistico cui corrisponde quello stilistico tra il registro alto della sezione iniziale, la “lettera di inoltro” (in cui si motiva con exempla storici la necessità di uno svago dagli impegni), e quello comico-realistico della seconda, l‟“allegato” cui si affida lo svago promesso (anch‟esso una lettera, che in vernacolo fornisce al destinatario un quadretto realistico di gaudente vita partenopea).

La parte toscana della lettera si rivela ricercata non solo nella lingua, ma anche nella struttura, che anticipa la Fiammetta e il Decameron nella sua impostazione di passaggio dal generale al particolare. Si prendono le mosse dall‟affermazione che l‟uomo ha bisogno di interrompere le fatiche con «alcuno onesto diletto»114, parere comunemente accettato e sostenuto dall‟autorità di non meglio identificati «savi uomini», cioè dei sapienti o filosofi115. A sostegno, si apportano gli exempla di Socrate, Cornelio Scipione e Lelio. Infine si passa al caso particolare, che, a differenza delle opere più mature, non è direttamente autobiografico, in quanto riferito all‟amico Francesco de‟ Bardi. Tuttavia, l‟ammissione che ciò che si invita a leggere è stato scritto anche per diporto di sé suggerisce una motivazione personale, che si può intendere come bisogno di dare luogo all‟impegno forse troppo gravoso di studio cui l‟autore si sta sottoponendo116

. Il procedimento deduttivo,

114

BOCCACCIO, Epistole e lettere, cit., Lettera I, 1. 115

BOCCACCIO, Epistole e lettere, cit., Lettera I, 1; cfr ivi, p. 871 nota 2. 116

96 analogo a quello che apre il Convivio, risponde già in questo testo all‟esigenza, che sarà costante in Boccaccio, di giustificare la propria scrittura, in quanto offre la possibilità di tenere insieme ragioni individuali e interesse universale.

Diverso appare il rapporto tra le sezioni in cui il testo si suddivide, rispetto ai due primi dictamina boccacciani che, esemplati sul modello dantesco delle epistole a Cino da Pistoia e a Moroello Malaspina, pure simulano l‟invio di un testo, ma poetico e di esplicazione-amplificazione sentimentale. Nella lettera napoletana entrambe le parti sono missive, l‟una seria e l‟altra un divertissement; tra di esse intercorre un rapporto oppositivo di vero-falso, che è tuttavia sfuggente, se non proprio ribaltabile. Il carattere “vero” della prima parte è reso infatti incerto da quel sospetto di finzione letteraria che inficia lo sbandierato autobiografismo di tutte le opere giovanili di Boccaccio, mentre il “realismo” della seconda farebbe supporre una “presa diretta” sulla vita napoletana dell‟autore, se la critica non ci avesse avvisati da tempo della convenzionalità della poesia giocosa medievale e del registro che ad essa si ispira. Insomma, la relazione tra i due atti dell‟epistola napoletana sembra ruotare attorno all‟ambiguo confine tra realtà e finzione letteraria, in un gioco di specchi riprodotto dalla diffrazione dell‟autore tra (almeno) due personaggi. A firmare il testo in napoletano (a nome di un gruppetto di amici gaudenti: «Dalli toi, per… ») è infatti Jannetta di Parisse, «ovvero Giannetto il Parigino»117, controfigura in versione giocosa dell‟autore; della sezione in fiorentino manca l‟attribuzione esplicita, anche se verrebbe spontaneo assegnarla a quello stesso côté serio, che veste i panni dell‟austero «abbate Ja‟ Boccaccio», da Jannetta ricordato a Francesco come comune amico, di cui lamenta l‟eccessivo impegno di studio, che potrebbe nuocergli:

Loco sta abbate Ja' Boccaccio, como sai tu, e nín juorno, ní notte perzì, fa schitto ca scribere. Aggiolìlle ditto chiù fiate e sòmmene boluto incagnare con isso buono buono. Chillo se la ride e diceme: «Figlio meo, ba' spícciati, ba' jòcati alla scola colli zitielli, ca eo faccio chesso pe' volere addiscere». E chillo me dice judice Barillo ca isso sape quant'a lu demone e chiù ca non sape Scacciuopole da Surriento. Non saccio pecchéne se lo fa chesso, ma pe lla Donna de Pederotto pesammènde. Non pozzo chiù, ma male me nde sape. Bien mi la persone pòttera dicere: «Tune, che nci a' che fare a chesso?». Dicotìllo: sai ca l'amo quant'a pate; non bòlsera inde

117

Cfr. BOCCACCIO, Epistole e lettere, Lettera I, ed. cit., p. 874, nota 35: «Designandosi in questa curiosa maniera il B. riprende il motivo a lui molto caro in questo periodo di una probabilmente mitica origine francese».

97

l'abbenisse arcuna cuosa ca schiacesse ad isso, néd a mene mediemo. Se chiace a tene, scribelìllo118.

Ja‟ Boccaccio e Jannetta di Parisse sono due facce della stessa medaglia, opposte ipostasi di due ambiti di personalità che l‟autore vuole siano letti come suoi propri (quello spensierato e quello posato, il gaudente e l‟impegnato, il vernacolare e il colto), secondo una duplicazione riecheggiata dalla bipolarità della lettera. Lo sdoppiamento dell‟Io autoriale rientra nel gioco di rispecchiamenti che attraversa, tra false autobiografie ed identificazioni narrative, tutta la prima produzione boccacciana119. Jannetta è personaggio inedito, che, fedele al suo ruolo di cronista, ci dice poco di sé, al di là della sua partecipazione alla società bohémienne della quale racconta e sul cui sfondo risalta, per contrasto, la figura di Ja‟ Boccaccio. Quest‟ultimo personifica invece l‟ambizione culturale dell‟autore, una meta rispetto alla quale appare ancora in cammino («faccio codesto per voler imparare»), ma al contempo già arrivato: «ne sa quanto il demonio e più che non sappia Scacciuopolo da Sorrento»120. La distanza tra le due affermazioni dipende da chi le pronuncia: la prima è attribuita allo stesso Ja‟ Boccaccio e va quindi vista come dettata dalla modestia, la seconda è attribuita a Giovanni Barrili, che può dunque in seconda persona lasciarsi andare ad un

118

BOCCACCIO, Epistole e lettere, Lettera I, 13-16, ed. cit.; la traduzione a p. 865 recita: «Là dimora l‟abate Ja‟ Boccaccio, come tu sai, e né giorno né notte fa altro che scrivere. Gliel‟ho detto più volte e mi sono voluto arrabbiare con lui bene bene. Lui se la ride e mi dice: “Figlio mio va‟ sbrigati, va‟ gioca a scuola (?) coi ragazzetti, ché io faccio codesto per voler imparare”. E il giudice Barrili mi dice che quello lì ne sa quanto il demonio e più che non sappia Scacciuopolo da Sorrento. Non so perché faccia così, ma per la Madonna di Piedigrotta me ne dispiace. Non ne posso più, ma me ne sa male. Ben qualcuno potrebbe dirmi: “Tu, che ci hai a che fare con codesta faccenda?” Te lo dico: sai che l‟amo quanto un padre; non vorrei che gli accadesse qualcosa che dispiacesse a lui e a me stesso. A tuo piacere, scriviglielo».

119

Si noti la vicinanza tra la lettera napoletana e le epistole latine II e IV (ma in parte anche la prima), segnate dalla opposizione-integrazione tra il mittente (che nella cultura aspira a trovare un rimedio alla propria ignoranza ed infelicità) e il destinatario (già in possesso di superiore cultura e serenità).

120

Il registro comico giustifica l‟accostamento della sapienza alla destrezza o astuzia, che accomuna Ja‟ Boccaccio ad un altro scolare, cioè studente universitario, quello in cui ha la sventura di imbattersi la vedova di Decameron VIII 7: gli scolari, infatti, «non dico tutti ma la maggior parte, sanno dove il diavolo tien la coda» (Decameron VIII 7,149). Spesso nel medioevo il diavolo è associato all‟abilità dialettica, come ad es. nella Commedia dantesca (Inf. XXVII), e nella leggenda di S. Alberto Magno, di Giacomo (o Jacopo) d‟Aqui (?), domenicano italiano, risalente agli inizi del 1300, citata sia da GLORIEUX, La Littérature quodlibetique de

1260 à 1320, vol. I, cit., pp. 36-40, sia da MANDONNET, Saint Thomas, créateur du Quodlibet, Le Saulchoir

98 elogio, sia pure scherzoso, senza infrangere le regole del buon gusto. Del resto, considerato il tenore “carnevalesco”, ossia di ribaltamento, dello scritto vernacolare, le recriminazioni circa l‟esclusiva dedizione allo studio vanno anch‟esse interpretate come una lode indiretta. Nella presentazione di Ja‟ Boccaccio si trovano dunque affiancati i due aspetti che i dictamina sopra richiamati distribuiscono invece tra il mittente ed il destinatario; anche in quelle epistole latine, infatti, il topos dell‟affectatio modestiae, corroborato dal tono elegiaco, suggerisce a chi scrive di insistere sulla propria ignoranza, sulla distanza rispetto all‟obiettivo di sapere incarnato dai fittizi destinatari, che sono invece già in possesso di quella cultura che per il mittente è ancora aspirazione e meta da conquistare, una terra promessa in cui si ha però fiducia di porre prima o poi piede.

Sfruttando le possibilità di identificazione e mascheramento offerte dalla creazione di personaggi pseudo-autobiografici, nelle sue prime lettere Boccaccio veste di concretezza la propria appassionante esperienza di giovane scrittore. Il caleidoscopio di personaggi e ruoli, opposti e insieme complementari, in cui l‟autore incarna aspetti diversi della propria vicenda conferisce a questi testi un carattere narrativo, facendone quasi la “messa in scena” del valore umano dell‟arte. Se si ricompone, sia pure strumentalmente, ad unità il gioco di diffrazione messo in opera nelle prime epistole da Boccaccio, ci si rende infatti conto che il suo interesse primario, ciò di cui ci sta parlando, è il valore della poesia. Tra le lettere in latino e quella in volgare, al di sotto delle diversità di tono, lingua, stile, corre costante l‟esigenza di manifestare ed articolare un‟ideologia, che accomuna scrittura e cultura in un‟unica meta verso cui tendere; la finzione pseudo-autobiografica consente al giovane Boccaccio di mettere in scena un processo di perfezionamento interiore, nel quale poesia e filosofia sono presentate come tappe ineludibili del cammino verso la verità.

2.4 La «Caccia di Diana»

Un‟analoga traccia si può individuare nella (più o meno) coeva Caccia di Diana, considerata per tradizione il primo esperimento letterario boccacciano, di cui Vittore Branca indica come sicuro termine ante quem il 1338-39, anche se vari indizi ne autorizzano un‟ipotetica anticipazione al 1334121

. Poemetto in terzine dantesche, intermedio tra il genere della “caccia” e quello del “sirventese”, la Caccia appare finalizzata a celebrare le dame della corte angioina di Napoli, riprese in movimento su uno stilizzato sfondo naturale di

121

Cfr. V.BRANCA, Introduzione a G. BOCCACCIO, Caccia di Diana, a cura dello stesso, in Tutte le opere di

99 gusto gotico-cortese. Lungo l‟arco del breve racconto, le giovani si rivelano quali perfette seguaci di Diana nel fare strage di selvaggina; il finale a sorpresa le vedrà però ribellarsi alla casta dea della caccia, per votarsi a Venere, che dalle prede a lei combuste in sacrificio, farà nascere altrettanti bei giovani innamorati. Al di là dell‟evidente scopo elogiativo, e nonostante l‟altrettanto chiara immaturità artistica dell‟opera, è tuttavia possibile leggervi, suggerita in primis dall‟ingombrante dantismo, un‟impostazione allegorica che prelude alle ben più impegnative opere del primo periodo fiorentino, la Comedia delle ninfe fiorentine e l‟Amorosa visione. La fictio della Caccia è infatti leggibile come allegoria di un percorso di purificazione che, passando attraverso l‟amore, mira alla sapienza, personificata dalla salvifica figura femminile, la «donna gentile»122 amata dal narratore, la quale costituisce il vero centro del movimento narrativo. La «bella donna il cui nome si tace»123 è infatti , per la sua nobiltà d‟animo, posta a guida e custodia delle altre:

Ma quella donna cui Amore onora più ch'altra per la sua somma virtute, che tutte l'altre accresce e rinvigora, fu l'ultima chiamata, e per salute dell'altre, quasi com'una guardiana, avanti gio per guidarle tute124.

Il valore di virtù che ella simboleggia (la temperanza o forse la prudenza, tra le cardinali, le più adeguate all‟ambito amoroso) emerge in un episodio di caccia, che da un lato si modella sui sogni della Vita nova e del Purgatorio dantesco, dall‟altra anticipa il sogno dell‟adunazione di uccelli nel quarto libro del Filocolo. Nel canto quarto, la donna “lascia” un‟aquila, che, dopo un sanguinoso combattimento, uccide una lonza. La comune ascendenza dantesca dei due animali individua per l‟aquila un significato positivo, per la lonza uno negativo. Secondo gli antichi commentatori della Commedia (e lo stesso Boccaccio delle future Esposizioni), la prima delle tre fiere rappresenta la lussuria; è un significato simbolico che non contrasterebbe, nella Caccia, con la preoccupazione della bella donna di salvaguardare sé e le sue compagne (negli altri momenti della caccia invece piuttosto ardite) dal male che la bestia può arrecare loro: «Acciò nuocer potesse né far male,

122

BOCCACCIO, Caccia di Diana, XVII 4. 123

BOCCACCIO, Caccia di Diana, IV 1. 124

BOCCACCIO, Caccia di Diana, I 46-51, ed. a c. di Branca, cit.; alla nota 35, pp. 689-690, si riportano le varie ipotesi avanzate sull‟identità di questa figura femminile che non è ancora Fiammetta e che, per Branca, coincide forse con la bella lombarda del ternario Contento quasi ne‟ pensier d‟amore, Rime LXIX .

100 / sé e le sue ritrasse in salvo loco»125. Il secondo emistichio di quest‟ultimo verso ricalca il dantesco «in basso loco»126, ma tutta la triade rimica di cui fa parte («loco / foco / poco») lega il passo boccacciano all‟episodio infernale delle tre fiere, dove compaiono, quasi identiche, le rime «poco / loco / fioco»127. La stessa terna rinvia peraltro al sogno dell‟aquila, che in Purg. IX, simboleggia il percorso di elevazione del Purgatorio, richiamato inoltre nel brano boccacciano da precisi elementi testuali: l‟aquila dantesca che rapisce Dante alla sfera del fuoco (ovvero la grazia che solleva l‟uomo dal peccato) è presente a quella che nella Caccia uccide la lonza e ne divora il cuore128, suggerendo dell‟episodio venatorio una lettura allegorica di tipo morale, quale potrebbe essere quella della temperanza che vince le tentazioni della lussuria129.

La donna gentile avrà un ruolo determinante nella ribellione a Diana da parte delle cacciatrici, che decidono nel finale di votarsi a Venere; è lei a suggerire un sacrificio (il rogo delle prede), che si prospetta come atto di culto accompagnato dalla preghiera collettiva. Le donne oranti chiedono eccellenza e grandezza d‟animo, quasi doti propedeutiche alla capacità di amare:

Caccia de' petti nostri i pensier vili, e per la tua virtù fa eccellenti

gli animi nostri, e' cor larghi e gentili. Deh, fa sentire a noi quanto piacenti sieno gli effetti tuoi, e facci ancora, alcuno amando, gli animi contenti130.

La preghiera avrà l‟effetto immediato di tramutare le prede in giovani innamorati che si immergono in una fonte e poi si vestono di un manto vermiglio (secondo alcuni critici allegoria del battesimo)131; la metamorfosi (descritta in termini religiosi: «il sovrano /

125

BOCCACCIO, Caccia di Diana, IV 16-17. 126

DANTE ALIGHIERI, La divina commedia, Inferno I, 61. 127

DANTE ALIGHIERI, La divina commedia, Inf. I, 59-63. 128

Cfr. Caccia di Diana, cit., p. 692 nota 5. 129

Un altro episodio della Caccia di Diana che può essere letto in chiave allegorica è quello del girifalco che atterra e divora una gru, dopo vari tentativi e una forte resistenza (canto VIII). Nel «Libro della natura degli animali» (XXXIII) si legge infatti che il falcone che caccia le gru è il più nobile e simboleggia gli uomini che sono in grado di conoscere le divine cose.

130

Caccia di Diana, XVII, 22-27. 131

A.K. CASSEL, V. KIRKHAM, Introduction to Diana‟s Hunt, ed. and transl. by Cassel and Kirkham, Philadelphia, Univ. of Pennsylvania Press, 1991, pp. 3-68.

101 miracol fatto in non lunga stagione, / maraviglioso ad intelletto umano»)132, a sorpresa coinvolge anche il narratore-testimone, che scopriamo aver assistito alla caccia sotto specie di cervo. Rivestito dello stesso mantello, il narratore viene offerto alla bella donna e si tramuta in uomo, ovvero in essere razionale:

mi ritrovai di quel mantel coperto che gli altri usciti dello ardente agone; e vidimi alla bella donna offerto, e di cervio mutato in creatura umana e razionale esser per certo133.

Il ritorno alla natura umana da quella ferina (tema che si ripresenterà spesso nella scrittura boccacciana, in chiave non più allegorica ma metaforica), non è tanto mediato dalla donna, come per gli altri giovani, quanto operato nel narratore dalla dedizione a lei («donandomi a lei, uom ritornai / di brutta belva»)134; il suo potere di umanizzazione e civilizzazione, suggellando la trama di richiami al ruolo di salvaguardia delle virtù, ne fanno un plausibile emblema della ragione e della filosofia. Non solo infatti l‟appellativo finale di «donna gentile»135 è quello che della filosofia si dà nel Convivio, ma l‟elogio tessutone dall‟amante, all‟atto della propria trasformazione, amplifica il tema dantesco dell‟effetto salvifico dell‟amore con l‟elenco dei vizi capitali che la vista di lei scaccia: «superbia, accidia ed avarizia ed ira, / quando la veggio, fuggon della mente, / che i contrari lor dentro a sé tira»136. La metamorfosi del narratore non è ovidiana, ma apuleiana: l‟esatto opposto della trasformazione in cervo di Petrarca nel poemetto Nel dolce tempo della prima etade137. Il ritorno all‟umanità avviene per virtù dell‟amore, ma assume il senso di un totale rinnovamento interiore, che si colora di significati etico-filosofici138.

132

Caccia di Diana, XVIII 4-6. 133

Caccia di Diana, XVIII 8-12. 134

Caccia di Diana, XVIII 23-24. 135

Caccia di Diana, XVII 4. 136

Caccia di Diana, XVIII, 33-35. 137

FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere 23, vv. 157-60, citato da C. MUSCETTA, Boccaccio, Bari 1974, p. 23. 138

Non è un caso che Muscetta individui molti richiami al Purgatorio dantesco, soprattutto ai canti XVII- XXX, quelli del Paradiso terrestre. Forse allo stesso autore il tutto non è ancora chiarissimo, ma lo diverrà con le successive opere, specie quelle allegoriche incentrate sul tema della renovatio dovuta all‟amore (Comedia

102 Con la Caccia di Diana non siamo lontani dai dictamina, dove pure attraverso l‟impostazione pseudo-autobiografica si delinea un percorso di perfezionamento; il fatto che nel poemetto la spinta al cambiamento venga (stilnovisticamente) dal potere nobilitante d‟amore, mentre nelle epistole tale ruolo sia ricoperto dalla cultura e dall‟amicizia, è una discrepanza meno sostanziale di quanto appaia in prima battuta. Nella Caccia, infatti, la trasformazione del personaggio-narratore avviene sì per opera della donna amata, ma al termine di un percorso che coincide con la narrazione e quindi con la scrittura, equivalente negli effetti all‟«ardente agone» (cioè al fuoco purificatore) da cui sono usciti trasformati gli altri animali. «La miracolosa trasformazione che nell‟animo dell‟uomo opera Amore»139, vissuta in prima persona attraverso la scrittura, assume nel primo Boccaccio i tratti allegorici di una vittoria sui vizi (in primo luogo la lussuria, versione degradata e corrotta dell‟amore), ottenuta grazie alla guida della ragione. La dedizione alla filosofia consente all‟uomo di diventare veramente tale, cioè un essere razionale, abbandonando uno stato ferino in cui errore ed inconsapevolezza di sé coincidono. Per chi possiede la cultura e la capacità di porla in atto nello scrivere, l‟amore per la donna è il livello letterale di un senso allegorico, che nel desiderio del sapere nobilita l‟animo fino alla conoscenza delle cose divine.

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APITOLO QUARTO

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