• Non ci sono risultati.

Basi e sviluppi della disciplina

7. Antropologia del lavoro

7.1. Basi e sviluppi della disciplina

Antropologia del lavoro e antropologia dell’impresa.

Da un punto di vista terminologico, gli studi antropologici sul lavoro sembrano aver avuto denominazioni diverse nel corso della storia. Come precisato da Cristina Papa, specializzata in antropologia dell’impresa, quello che ora è il suo ambito di studio in passato veniva definito antropologia dell’industria o antropologia del lavoro. Oggi, la diminuzione del peso dell’industria sul prodotto interno lordo dei cosiddetti paesi industrializzati e la crescita esponenziale del settore terziario hanno reso necessario l’utilizzo di una denominazione più generale - antropologia dell’impresa - in grado di comprendere tutto il tessuto dei servizi, delle informazioni e delle comunicazioni (Papa, 1999).

L’antropologia dell’impresa sembra dunque un’evoluzione storica dell’antropologia del lavoro che, nell’interfacciarsi con il complesso sistema dell’informazione e della comunicazione, si discosta dall’attenzione quasi esclusiva che

60

prima aveva nei confronti del lavoro in fabbrica per estendersi al mondo dei servizi della realtà contemporanea.

Come messo in luce da Papa attraverso un breve excursus storico, la nascita dell’antropologia dell’impresa viene fatta risalire ad Elton Mayo, a cui si deve l’applicazione della prospettiva funzionalista allo studio del lavoro in fabbrica. A partire da questa impostazione, ha poi origine dapprima la scuola delle Human Relations e, negli anni ’40-’50, l’antropologia applicata, i cui risultati vengono spesso utilizzati per ridurre o prevenire i conflitti in fabbrica. Negli anni ’50 un altro contributo fondamentale viene dalla Scuola di Manchester, sia per l’attenzione rivolta al conflitto presente nei rapporti di lavoro, sia per l’introduzione dell’osservazione partecipante degli etnografi accanto agli operai. Negli anni ’70, invece, l’attenzione comincia a concentrarsi sul sistema economico mondiale ed è proprio in questo periodo che in Francia nasce l’antropologia economica marxista (ibidem, 1999).

Nel corso degli anni ’80-’90, in Francia si sviluppa un approccio basato sullo studio dei saperi tecnici e del savoir-faire, mentre negli Stati Uniti ha origine la

Business Anthropology, i cui studi vengono finalizzati alla risoluzione dei problemi

legati all’interculturalità. La rassegna compiuta da Cristina Papa si conclude poi con Miller ed il recupero della nozione elaborata da Marcus di multi-sited ethnography: tale concetto risulta di imprescindibile importanza per lo studio di una realtà sempre più frammentata e multi-situata come quella derivante dal processo di globalizzazione e che ha notevoli influenze e manifestazioni nel mondo del lavoro (ibidem, 1999).

Come si può cominciare a notare, l’interesse dell’antropologia per il lavoro ha avuto evidenti manifestazioni in relazione ai contesti industriali, al lavoro in fabbrica e alla condizione degli operai: si tratta forse della più elevata espressione del contributo apportato dall’antropologia del lavoro.

61

I fondatori dell’antropologia del lavoro.

Gerd Spittler, professore emerito di antropologia sociale presso l’università di Bayreuth, cerca di individuare le origini dell’antropologia del lavoro e, con esse, i fondatori di una disciplina che deve ancora delineare le proprie fattezze. Partendo dalla convinzione che il lavoro è vitale per la maggior parte degli individui ed in ogni tipo di società, Spittler cerca di stimolare l’interesse degli antropologi che oggi si occupano di lavoro attraverso il recupero dei contributi di scienziati sociali tedeschi del passato (Spittler, 2008).

Proprio studiosi quali Karl Marx, Wilhelm Heinrich Riehl, Karl Bücher, Eduard Hahn, Wilhelm Ostwald e Max Weber sono ancora oggi un esempio e un monito per gli studi contemporanei: mettendo a confronto il lavoro industriale con quello non- industriale, essi hanno posto l’attenzione sul lavoro come performance, come attività umana carica di valori etici, sociali e culturali, intrisa di problematiche ma anche ricca di potenziale creativo. A causa dell’assenza di studi etnografici, le basi empiriche delle loro analisi sono rimaste deboli, ma ciò non ha impedito di lasciare indelebili nel tempo i lori contributi teorici (ibidem, 2008).

Una più articolata etnografia del lavoro ha poi cominciato a muovere i suoi primi passi con Karl Weule, Richard Thurnwald e Bronislaw Malinowski che, facendo propri i lavori degli scienziati sociali venuti prima, hanno introdotto nuove prospettive di studio basate sul lavoro di campo, soprattutto in Africa e in Melanesia (ibidem, 2008).

Ecco che risalta la centralità dell’esperienza di campo come nocciolo duro del contributo che l’antropologia del lavoro può offrire: la lente dell’etnografia rivendica la sua specificità nella possibilità di cogliere in vivo il lavoro, attraverso l’attenzione alle pratiche quotidiane, ai comportamenti minuti, alle strategie di vita e agli orizzonti di valore che permeano l’esperienza dei lavoratori e delle lavoratrici. L’indagine di campo è il valore aggiunto che l’antropologia può conferire agli studi sul lavoro, è lo sguardo

62

attento e particolaristico che raccoglie dall’interno le caratteristiche dei lavori e i connotati dei soggetti protagonisti.

Etnografia del lavoro.

Quello che sembra oggi di fondamentale importanza è lo sviluppo di una nuova

“cultura del lavoro” improntata sull’attenzione per i processi lavorativi come “attività

propriamente umane”. Si tratta di una consapevolezza già introdotta da Giorgio Bocca, che ha insistito abbondantemente sulla riconfigurazione del lavoro dalla prospettiva dei lavoratori, sia a livello di pratiche lavorative che sul piano della riflessione teorica (Bocca, 1999).

Bocca parla proprio di una evoluzione antropica e antropocentrica dell’organizzazione del lavoro che potrebbe essere sancita dall’alleanza fra discipline complementari: l’economia, l’etica, la pedagogia e l’antropologia. Ogni lavoro deve essere svolto e concepito sulla base di un duplice impegno: stabilire le esigenze di produzione e profitto e, parallelamente, salvaguardare ed incentivare l’interesse individuale alla realizzazione (Bocca, 1998).

Ecco che entra in gioco l’etnografia che, attraverso lo sguardo diretto sul campo, può captare il lavoro in tutta la sua concretezza e presentare il lavoratore da un punto di vista “umano”. Come visto in precedenza in merito agli studi storici, l’importanza dell’etnografia viene sostenuta non solo dagli antropologi, ma anche da altri studiosi che rintracciano in tale prassi un utile strumento di ricerca.

Proprio nel contesto dell’ “etnografia al di fuori dell’antropologia”, è interessante l’esperimento etnografico di Gideon Kunda all’interno di un’azienda americana ad “alta tecnologia”: esperto di lavoro e, in particolare, di teorie dell’organizzazione d’impresa, egli compie un vero e proprio lavoro di campo per comprendere “dall’interno” - e

63

soprattutto attraverso i lavoratori - come viene organizzato e svolto il lavoro nell’azienda (Kunda, 2000).

Questo esempio è qui di duplice aiuto: da una parte, come testimonianza del valore dell’etnografia e, dall’altra, in quanto circoscritto ad un contesto lavorativo strettamente legato all’innovazione tecnologica. Come mette in luce Kunda, l’ottimismo e il positivismo tecnologico all’interno dell’azienda, giustificati da una lunga serie di esempi di successo, innovazione e eccellenza, legittimano ogni decisione presa nell’ambito dell’organizzazione del lavoro. Quello che ne deriva è una “cultura lavorativa forte”, un controllo normativo esercitato con l’intento di legare cuore e mente dei lavoratori al bene e agli interessi dell’azienda (ibidem, 2000).

L’alone di positività dell’azienda trova origine nell’alto livello tecnologico che può vantare: proprio l’innovazione giustifica tutto quanto concerne il lavoro al suo interno e i lavoratori, rapiti dall’idea di poter contribuire all’immenso successo tecnologico, svolgono le proprie mansioni con grande impegno, ma senza curarsi troppo delle tattiche messe in atto dai piani dirigenziali per preservare gli interessi e i profitti dell’azienda (ibidem, 2000).

La forza dell’etnografia sta qui nell’esplicitare l’insieme delle dinamiche lavorative, cercando di comprendere i processi che stanno alla base di “impliciti radicati” e mansioni chiari in superficie, ma che in realtà nascondono strategie, scelte e relazioni umane per nulla scontate. L’innovazione tecnologica, unita alle logiche aziendali, rischia di schiacciare la figura del lavoratore e proprio la ricerca etnografica, trasformandosi anche in una sorta di “denuncia”, può dare un contributo alla ri- legittimazione dei soggetti-lavoratori.

64 7.2. Il lavoro nell’antropologia del cyberspazio

L’antropologia del cyberspazio, intesa come settore della disciplina interessato al mondo di Internet e della comunicazione-informazione digitale, affronta la tecnologia come un innovativo “campo sociale”. Il computer, le reti e la “Rete nelle reti” stanno cambiando profondamente il nostro modo di vivere e, dunque, anche quello di lavorare: il mercato delle tecnologie informatiche è tra i più grandi del pianeta in termini di volumi di affari e di occupazione e ciò che concerne il lavoro nel cyberspazio non può che rientrare negli interessi dell’antropologia contemporanea.

Come pone in evidenza Giuseppe Gaeta cercando proprio di offrire un quadro dell’antropologia del cyberspazio, oggi il lavoro deve essere posto al centro di ogni riflessione interna alla disciplina (Gaeta, 1998). Attenzione particolare viene data al fenomeno del tele-lavoro, ossia l’opportunità di lavorare in ogni luogo, compresa la propria casa, che disponga di un computer e di una linea telefonica. La gestione “ubiquitaria” del lavoro porta in sé molte opportunità:

- maggiori possibilità di connessione e movimento di informazioni; - minori problematiche legate agli spostamenti verso i luoghi di lavoro; - gestione personalizzata delle mansioni (ibidem, 1998).

I vantaggi sono però accompagnati da una serie di problematiche: - trasformazione della comunicazione in “ossessione”;

- assenza dell’ “atmosfera complessiva” propria del luogo fisso di lavoro; - frenesia e competizione sempre crescenti (ibidem, 1998).

Al di là del fenomeno circoscritto poco sopra riportato, nel contesto generale del lavoro - e della sua gestione - tutte le aziende, le imprese e i luoghi di lavoro nel complesso sembrano percorrere cammini di continua “re-ingegnerizzazione”: il riconoscimento dell’identità e del valore di un lavoro e del luogo in cui esso viene

65

svolto sembra passare attraverso l’adeguamento tecnologico e la gestione del piano informativo e comunicativo (ibidem, 1998).

Anche Alessandra Guigoni si addentra nel contesto dell’antropologia del

cyberspazio e la riflessione che qui ritorna utile è relativa ad un duplice piano di

consapevolezza - e indagine - antropologica: oggi l’antropologia fa di Internet e delle nuove tecnologie un vero e proprio terreno di studio (antropologia della Rete), ma è anche una disciplina che può rintracciare saperi e risorse proprio all’interno dell’ICT (antropologia in Rete). Il cyberspazio è dunque, da un lato, materia di studio e, dall’altro, strumento di ricerca (Guigoni, 2007).

Dalla prospettiva della riflessione sul lavoro, ecco che si inserisce un importante tassello: il lavoro dell’antropologo che si interessa delle nuove tecnologie e che, contemporaneamente, utilizza le stesse per portare avanti le proprie ricerche. La sensibilità dell’antropologo come studioso - e come uomo - che compie il proprio lavoro sta poi nel mettere in evidenza tutti i soggetti che si trovano al di là di queste tecnologie.