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Big Data e Social Media attraverso lo Storytelling

I numeri di accesso degli utenti/prosumer ai social media è sempre più elevato e differenziato a livello di target di età (Fuchs, 2019). Il prosumerismo produce attenzione, e l’audience e le interazioni creano un grosso ammontare di dati che possono essere ceduti alle compagnie, alle aziende come base di partenza per la profilazione e il targeting per creare a loro volta attenzione. Grazie al browsing il prosumer produce continuamente dati di ogni sorta, basati sui propri

58 interessi personali. Google, come Facebook e Instagram per esempio, vendono i loro dati come merce (Fuchs, 2017b) a coloro che si occupano di advertising. Il prosumerismo quindi può essere visto sotto una prospettiva più ampia, per cui i dati del soggetto utente – consumatore saltano di livello e arrivano indirettamente ad avere una risonanza più elevata, dato che le aziende produttrici sfruttano i dati degli utenti a loro volta per creare contenuti in armonia con il gusto del prosumer - utente. In questo circolo si crea perciò una sorta di condivisione di interessi comuni. Nell’alveo del paradigma capitalista in cui viviamo ciò che si produce e crea, anche se gratuitamente viene fornito anche a coloro che possono trarne vantaggio economico creando engagement a livello di consumo. A sua volta il prosumer, diventato potenzialmente cliente, acquisterà determinati prodotti sponsorizzati e a sua volta ne parlerà probabilmente nei suoi canali e attraverso i mezzi a disposizione. Da questo meccanismo le aziende traggono moltissimi vantaggi e moltissimi vantaggi possono essere in potenziale nelle mani degli stessi utenti, che condividono gratuitamente, per motivazioni intrinseche i propri contenuti.

Quindi in potenza, ogni individuo può produrre, e quindi anche consumare, che sia anche un ente, un’azienda, un esercizio commerciale. In tal modo vengono prodotti contemporaneamente una serie di meta-dati che rivelano molto degli interessi individuali. In base a questo fatto quindi gli advertising che ogni individuo vede sono generalmente adattati in base all’attività di browsing del prosumer. Ciò si ricollega anche alla rete di network sociali e di profili personali di interesse, con l’emersione di influencer che possono essere punti di riferimento per orientarsi nel mondo del consumo attraverso la creazione di contenuti, sponsorizzati o meno. L’influencer marketing ad oggi infatti ricopre una parte molto importante per gli advertising delle aziende. I cosiddetti opinion leader, creando una community attorno alla loro persona e condividendo i loro interessi, sono la base ideale per arrivare al potenziale cliente a relativamente basso costo e a seconda del target, coprendo un ampio target. Sono persone che creano ma anche consumano e sono soliti mettere molto della loro vita a disposizione dei follower nei canali social. Si tratta di un meccanismo apparentemente molto semplice, ma che si rivela in pratica molto complesso: è necessario infatti che le imprese scendano a compromessi con gli opinion leader e viceversa. Da una parte l’azienda necessita di ricercare le persone di riferimento giuste che possono rappresentare il proprio brand al meglio e che ne condividano le caratteristiche e i messaggi intrinsechi del brand, dall’altra parte l’influencer, se svolge un’accurata comunicazione, nei suoi interessi personali, deve essere convinta di ciò che sponsorizza o mostra ai propri follower o alla propria community. Questo sistema da giugno 2018 è stato reso più chiaro agli utenti su Instagram, per ora la piattaforma di riferimento per questo di veicolazione di messaggi. Gli Influencer devono dichiarare con un hashtag specifico (ad esempio #adv) se le proposte che inseriscono nel proprio canale sono payed partnership o sponsorizzazioni, oppure ancora segnalare tramite i propri profili business se si tratta di una collaborazione con un marchio particolare riguardo a uno specifico contenuto messo in rete.

59 Ciò è molto centrale poiché vi è una maggiore limpidezza nella gestione dei contenuti, e gli stessi sponsor possono monitorare i post payed, in modo da verificare se la campagna promossa risulta efficace e se i propri follower quindi possono trovarla di loro interesse. Si gioca quindi un equilibrio tra engagement e intrattenimento e business, dal lato delle imprese, che sempre più attraverso i social media e attraverso gli influencer vogliono raccontare storie e dare un’immagine al brand più umana e che si avvicini di più al gusto e all’interesse del prosumer. Ciò che infatti emerge è una ricerca di maggiore prossimità con il potenziale cliente da parte delle aziende che ricercano al meglio, grazie ai dati degli utenti-creator, il modo migliore per veicolare un messaggio che sia consono a una parte di pubblico piuttosto che ad un’altra, filtrando tutto attraverso una persona di riferimento del web con un certo seguito, che sia riuscito a creare una community più o meno ampia.

La creazione di big data come merce di scambio è una sofisticata forma di sorveglianza e sfruttamento del tempo libero che le persone passano online (Fuchs, 2019), in tal modo si crea la possibilità anche di monetizzare quel tempo che diventa per molte fasce di età, soprattutto tra i 18 e il 40 anni circa, il punto di riferimento principale per informarsi anche a livello di prodotto. Ciò va ovviamente a sostituire principalmente i mezzi tradizionali di divulgazione pubblicitaria, in primis la televisione: la pubblicità televisiva infatti va sempre più a concentrarsi solo sul prodotto in sé nelle proprie generalità (il prodotto esiste), non tanto sul messaggio dell’azienda e sulla propria comunicazione corporate: aspetti che per il cliente diventano essenziali ed importanti per avvicinarsi all’acquisto di un prodotto. Il legame di fiducia che si crea all’interno delle community, insieme alla comunanza di interessi, fa si che le persone possano essere più inclini ad appoggiare determinati brand, grandi o piccoli che siano. La comunicazione da parte delle persone di riferimento di una community però deve essere coerente con la persona e con i contenuti del canale, la creazione di dissonanze è rischioso per l’engagement e quindi per chi lavora con il web. Non si deve dare per scontato alcun dettaglio: e qui entra in gioco nuovamente la consapevolezza e l’abilità d’uso del mezzo.

La comunicazione online quindi, non può essere vista solo in ottica democratica, per cui ogni persona può creare e condividere contenuti, ma dal punto di vista corporate è un ottimo strumento di strategia di business. Dall’altra parte tutte le operazioni economiche che possono essere poste in essere non devono essere viste in ottica di massimizzazione dei profitti, ma in ottica di cooperazione e co-creazione nel caso di prosumer che non hanno intenzione di trarre profitto dalle loro azioni networked.

Questo ultimo aspetto riconduce al concetto di individualismo in rete, per cui il prosumerismo è una parte del cerchio che si sta man mano ampliando per quanto riguarda l’utilizzo del media digitale, unendo sia il profitto che l’aspetto amatoriale in quello che è la grande condivisione di dati in rete. Le interconnessioni possono essere più o meno dense e tutto sta in mano agli utenti, che decidono che direzione dare al proprio network.

60 Pensiero creativo, conoscenza del comportamento umano, capacità spontanea di prendere decisioni e un certo senso estetico legato all’arte e alla cultura rendono la comunicazione molto efficace (Lukàcs, 1963b, 68) per chi la riceve, in quanto alla luce anche della psicologia dei gruppi, ciò crea coinvolgimento, attenzione e partecipazione emotiva che ingenera ordine mentale e confidenza e prima di tutto una relazione di qualsiasi natura.

Tutti questi aspetti risultano essenziali per un efficace storytelling, strategia alla quale le aziende guardano sempre più con attenzione: al centro vi è l’individuo con i suoi interessi, e il prodotto deve fare da contorno a questo, cercando di dialogare con la personalità, o con le aggregazioni di personalità che creano le communities.

L’advertising quindi diventa uno strumento molto potente, in grado di raccontare storie, e sono le storie che alle persone interessano: tanto più vicino la storia è al loro cluster di riferimento, tanto più ne saranno coinvolti.

Si può prendere ad esempio un caso di qualche anno fa: “The Blair Witch Project”, un film che creò una campagna di advertising diventata virale in pochissimo tempo, un pezzo di storia della pubblicità, del cinema, ma anche di internet. Il film venne presentato al Sundance Film Festival nel 1999, un film horror: il mistero della strega di Blair. Ebbe notevole successo perché oltre ad essere un film aveva la pretesa di far credere al pubblico che si trattasse di una storia vera, fu girato infatti come un documentario, come se fosse una storia realmente accaduta e che gli attori professionisti fossero in realtà i veri protagonisti della storia. Questo fu un dei primi casi di fake news più ben congegnato di sempre: con internet già a portata di mano le persone erano impreparate totalmente all’utilizzo corretto del mezzo e quindi dell’elaborazione del messaggio: c’è chi lo prese come una storia vera, chi come un documentario, perché su internet si scriveva così. Internet infatti ricoprì un ruolo centrale nel successo del film, che partì con la sua sponsorizzazione da una piccola menzogna. Si fece credere che tre registi in erba fossero scomparsi e mai ritrovati qualche anno prima, mentre stavano girando un documentario e che questo fosse stato ritrovato solo qualche anno dopo, senza ovviamente i suddetti registi, scomparsi misteriosamente. Il film non ha avuto successo per la sua trama o il suo montaggio, ma per la storia creata attorno al film stesso. I due registi del film inventarono tutto partendo da un corto copione di 35 pagine, praticamente senza alcun dialogo di sorta e fecero dei provini per scegliere i protagonisti del film. Nessuno di loro però era a conoscenza della vera storia, anzi l’unica cosa che sapevano era che dovevano andare nel Maryland, in un bosco dove succedevano cose strane e surreali e che bisognava essere coraggiosi per poter intraprendere tale “avventura”. I tre attori principianti furono lasciati in un paesino nelle vicinanze del posto dove furono invitati a intervistare gli abitanti, che messi al corrente delle risposte che dovevano dare, rispondevano assertivamente quando i tre ragazzi chiedevano loro di parlare delle strane faccende nel bosco che si verificavano dal diciottesimo secolo. I ragazzi furono quindi mandati ad esplorare il bosco con delle videocamere e i registi si premuravano di istruirli tramite bigliettini su ciò che dovevano fare e inoltre provocavano rumori

61 e suoni ad effetto in modo tale da spaventare i tre attori in erba. Per smettere di recitare avevano una parola d’ordine: bulldozer, che se detta al GPS, venivano fatti rientrare in base.

Dopo le riprese e il montaggio del film, prima e dopo la sua uscita arrivò una sensazionale campagna di marketing: i registi diffusero dei volantini in internet nei quali c’era scritto che i tre attori/registi erano scomparsi, con tanto di foto segnaletica. Si creò una grande confusione, dove i confini tra realtà e menzogna risultavano agli occhi delle persone davvero labili, tanto che gli stessi protagonisti ebbero anche problemi con conoscenti e parenti che li credettero scomparsi o addirittura morti.

“The Blair Witch Project” ebbe un grande successo per la storia che si creò intorno al film, un inganno architettato alla perfezione, che mando in confusione milioni di utenti. Oltre che una bufala ben congegnata, si rivelò un geniale piano di marketing per il successo del film, oltre che un enorme storytelling che andò a toccare persino gli attori, per lo più ignari del vero ruolo che ricoprivano le loro parti: pedine di un gioco ben ideato in cui la paura di ciò che non si vede, che non si sa, prende il sopravvento sul discernimento tra vero e falso. Si creò dunque uno storytelling sensazionale attorno a un prodotto che era tra i più semplici che potessero essere in ambito cinematografico, tanto da suscitare molto interesse nei confronti del pubblico innescando la sua curiosità e creando un forte senso di hype.

Questo esempio può far capire come una buona storia, coerente con il prodotto possa avere grande effetto nei confronti delle persone, un advertising che racconta storie diventa essenziale per comprendere al giorno d’oggi i messaggi e le intenzioni delle imprese: ciò che infatti le persone si chiedono ormai è cosa fa un’impresa, un ente, oltre a produrre il prodotto stesso.

In Instagram, il social più utilizzato per raccontare storie, il processo si può osservare in maniera molto chiara e attuale. Da sottolineare che le persone di spicco, gli influencer, tendono a sponsorizzare certo i prodotti che a loro piacciono, ma anche di una certa qualità se appunto come scritto sopra, lo storytelling risulta coerente con la loro figura e i loro interessi. Il prosumerismo capitalista si fa più sociale e paritetico, le aziende dipendono sempre di più dal parere delle persone a livello corporate, è infatti centrale che si occupino di faccende legate ai più svariati ambiti sociali, ambientali e di welfare. Il processo può partire dai social, anzi i social network si rivelano un canale essenziale per le imprese al fine di avvicinarsi il più possibile al consumatore, e questo vale anche e sempre più frequentemente per le piccole medie imprese.

La vita di tutti i giorni infatti, a livello comunicazionale e di interazione, partendo dal presupposto espresso prima ovvero che non esiste una vita online e una vita offline, ha a che fare con i comportamenti e il lavoro, le tradizioni e le convenzioni degli esseri umani che vivono e lavorano producendo insieme, fissando tutte le proprie esperienze con il linguaggio (Fuchs, 2018). Ciò che è quindi importante sottolineare è che per un efficace dialogo occorre entrare nell’ottica del comportamento umano intersecandone le abitudini e gli stili di vita, non tanto soverchiandoli, ma creando degli stimoli in modo da poter ricavare considerazione e curiosità, che possano traslare

62 il punto di vista dei soggetti prosumeristici di modo che si inneschi un meccanismo di attenzione reciproca.

Un esempio più recente che può essere ben interessante per osservare degli aspetti dello storytelling, intrecciato alla cultura e all’uso del social network come pista di atterraggio per il messaggio promozionale, è la presentazione che fece Marco Missiroli a febbraio 2019 in occasione dell’uscita del suo nuovo libro. L’autore il 12 febbraio 2019 ha percorso all’interno di un tipico tram milanese i luoghi raccontati nel suo romanzo finendo la serata nel bar dove lo ha scritto. Missiroli in tale occasione, e solo all’interno del tram decide di togliersi “la membrana” e raccontarsi, di fronte a cultori dei libri, tra cui moltissimi book influencer, che non hanno mancato di postare foto della serata sui social. In tal modo i follower sono potuti venire a conoscenza in maniera più immediata dell’evento milanese sponsorizzato da Einaudi, e hanno a loro volta avuto l’occasione di potersi informare meglio sul titolo, rimasto in cima alle classifiche per molti mesi a seguire.

In questo caso, l’autore, l’artigiano del prodotto-libro si presenta davanti a un pubblico di interesse per sponsorizzare direttamente la propria ultima produzione letteraria. In questo contesto è molto importante sottolineare la presenza degli influencer del campo, invitati ad assistere alla presentazione. Ed ecco che si manifesta il meccanismo di intersecazione tra abitudini e interesse del pubblico prosumeristico con il prodotto culturale soggetto dell’evento. In tal modo i seguaci vengono informati, si innesca la curiosità e un circolo virtuoso per cui, gli influencer esperiscono direttamente mentre incoraggiano i loro followers a vedere la presentazione del libro all’interno del tram, ripresa interamente dalla redazione Einaudi.

Questo è un ottimo esempio di racconto di una storia, uno storytelling appunto, di un’altra storia: quella raccontata nel romanzo. Si incontrano cosi la figura dello scrittore e della sua produzione, insieme a punti di riferimento utili per allargare il messaggio ad un pubblico di potenziale interesse. Si sono cosi creati sia senso di inclusione, che partecipazione, oltre che voglia di saperne di più. Gli interessi dell’editore in tal modo, hanno incontrato quelli dello scrittore che a sua volta ha incontrato quelli del pubblico a bordo del tram milanese, regalando loro un’esperienza da condividere, amplificandola, con i seguaci online.

Il messaggio e il contenuto dell’evento, oltre che l’esperienza dei soggetti all’interno del tram, come l’esempio riportato sopra illustra, possono arrivare lo stesso, attraverso i media, sebbene non vi sia stata l’effettiva presenza dei soggetti informati dalle loro persone di riferimento online, anche se nell’effettivo non si ha esperienza diretta del fatto attraverso i media, se ne può carpire il lato emozionale e d’interesse filtrato attraverso i propri influencer di fiducia, tornando ai concetti di affiliazione e community.

Se però da una parte i social media possono essere considerati strumenti di socializzazione e interazione, intrattenimento e stimolo culturale reciproco tra individui, dall’altra possono apparire come alienanti, poiché creano attraverso la raccolta di dati dell’user e delle sue attività

63 in rete, un recinto digitale di persone comuni (Andrejevic, 2012), ed ecco che si palesa l’aspetto quasi-negativo dell’appartenenza a un gruppo e dell’identificazione che può presentare forme disfunzionali anche nel web, considerando sempre che non vi è differenza tra online e offline nella vita quotidiana. L’utente infatti è talmente ben profilato che appena apre il suo feed social vede ciò che vorrebbe vedere senza lasciare un sottofondo, e le community rischiano quindi di chiudersi e diventare autoreferenziali. Andrejevic (2014), parla di alienazione algoritmica, di distacco tra la realtà sociale e quotidiana e la grande massa di dati che le compagnie delle piattaforme social utilizzano per plasmare la “vita digitale” di ogni individuo secondo una algoritmicamente precisa profilazione dei dati messi in circolo dall’utente stesso.

Eran Fischer (2012) percepisce il fenomeno dell’alienazione digitale in modo differente, trovandovi anche una possibile soluzione. Il fenomeno è riconducibile secondo l’autore al fatto che gli individui non percepiscano o non siano consapevoli di non avere il controllo su qualcosa. Nello specifico di non avere il pieno controllo di dove e come i propri dati circolino e ricostruiscano in un processo algoritmico molto poco fallace i loro interessi o il loro desiderio di intrattenimento eccetera. La soluzione più facile secondo l’autore (Fuchs, 2018) per risolvere il problema dell’alienazione algoritmico-digitale, gli utenti prosumer devono necessariamente comunicare e socializzare, condividere, leggere i post dei propri contatti, informarsi attraverso i propri network. Si può notare facilmente però, dal punto di vista capitalistico e prosumeristico che questo processo è paragonabile ad un circolo chiuso, poiché maggiori condivisioni e interazioni producono maggiori quantità di dati secondo un criterio direttamente proporzionale. Ciò non deve essere necessariamente visto in modo negativo, anzi, nel paradigma socio – economico attuale, più tempo libero il prosumer utilizza per creare e condividere, più avrà più discernimento e facilità di scelta come prosumer as consumer. Il modo in cui gli interessi vengono incanalati aumenta la consapevolezza e la capacità di comprensione dell’ambiente networked e i processi di consumo e produzione diventano più efficienti ed efficaci.

I consumatori ormai dichiarati prosumer vengono quindi sempre più coinvolti nei processi creativi, e sono sempre più partecipi, sia attraverso un uso sano o meno dei network digitali. Vi è un’implementazione orizzontale dei contenuti, non più top-down, e questo innesca inevitabilmente una serie di azioni determinate dai dati rilasciati come “scia”, creando in complesso una promozione più democratica e meno centralizzata. Questo appunto perché la parola del consumatore, che diventa poi produttore di contenuti ha la potenzialità di avere un ampio raggio di azione, e di raggiungere molti altri individui che in atteggiamento prosumeristico faranno la stessa cosa. Il costo maggiore infatti è il tempo speso a creare e condividere contenuti, piuttosto che il budget spendibile per la loro diffusione, che se non si tratta di corporate è pari a zero.

Ciò che risulta fondamentale è la creazione di una comunicazione che sia sana, sfruttando le community in modo altruistico, in modo da far accrescere la qualità della vita e riducendo i costi