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spalle un’immane piramide di sfruttatori» (p. 52). Al potere di una

borghesia spagnolesca il fascismo, che è stato «un regime di villan

rifatti […], a cominciare dal poeta nazionale» (p. 11), ha sostituito

quello di un ceto medio di origine popolare, retorico e antiproleta-

rio, ostile al lavoro, «borghesia di regime». La questione morale

non si risolve senza una classe dirigente moderna, con un forte

senso dello Stato e della solidarietà sociale. Deve estendersi a tutto

il paese il modello della «borghesia storica» («nel nord si formò

una borghesia agricola e industriale con un’iniziativa, una capacità

di trasformazione e di lavoro nella vita sociale, attiva e intrapren-

dente e dotata di senso civico», p. 51),

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perché «il paese è immo-

bile, segna il passo» (p. 89).

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123 Da questa borghesia, ricorda Alvaro, uscirono gli ufficiali della Grande Guerra, capaci di condividere con i loro soldati le passioni e le privazioni della vita militare, tanto diversi dai borghesucci della guerra successiva (era stato, questo, anche il caso di Jahier o di Carandini). Alvaro però non si nasconde che proprio gli imprenditori del Nord, i conservatori, sono stati «gli uomini che hanno allevato, aiutato, consolidato il fascismo» (Alvaro 1945, 15). Né si può dire che la borghesia abbia costituito un fronte contro il fascismo; durante il ventennio l’antifascismo è stato un movimento di «pochi intellettuali che non avevano niente da fare con la borghesia e coi liberali […] Nelle sfere alte della borghesia e fra gli uomini messi da parte perché incapaci, il dittatore era un di- spetto personale per tante probe e autorevoli e incapaci persone» (86). La «fa- mosa classe dirigente italiana conculcata e oppressa dal fascismo […] quanto ha potuto dare di meglio è proprio lo stesso fascismo» (87); nonostante venga riportata in auge nel dopoguerra per i suoi meriti antifascisti è stata dunque, se- condo Alvaro, semplicemente esclusa dalla gestione del potere, ma condivi- dendo l’ideologia del regime. Per questo lo scrittore non vede come questi «vecchi uomini», conservatori, monarchici, possano cambiare il paese, né si aspetta da loro un senso dello stato che hanno dimostrato di non possedere. Il giudizio sui vecchi liberali italiani è netto: «Il fascismo fu la naturale conclu- sione della politica italiana detta liberale» (91).

124 Montale, nella recensione che fece al saggio sul «Mondo» fiorentino di Bonsanti e Loria, nel maggio del ’45, reagì contro il meridionalismo salvemi- niano di Alvaro e soprattutto contro il suo populismo: «Venivano dal popolo Gobetti e Rosselli, cioè le figure più italianamente ispirate della lunga vigilia antifascista? Erano composte di borghesi le folle che si recavano in stato di perpetuo delirio coatto, dinanzi allo storico balcone di palazzo Venezia? Biso- gna giungere molto in giù nella scala sociale, bisogna giungere alla folla dei cafoni giustamente cara ad Alvaro oppure fermarsi alla classe operaia del pri- vilegiato nord per trovare un popolo che veramente sia rimasto immune dalla lebbra fascista» (Montale 1996b, 38-42). Montale ripropone, gobettianamente, la necessità di un’egemonia intellettuale per il popolo. Ma è preoccupato, non meno di Alvaro, di una possibile riproposizione politica del fascismo nel dopo- guerra («un nuovo fascismo senza guerre e senza Mussolini»).

Anche Carlo Levi,

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nel romanzo L’Orologio, riflette sui mali

cronici del paese e oppone, paradigmaticamente, due categorie, so-

cialmente trasversali, almeno in apparenza, divise più da «diffe-

renza di civiltà» (la mentalità) che dall’attività economica, la cate-

goria dei Luigini e quella dei Contadini, parassitaria la prima, ar-

roccata su privilegi, invischiata nella retorica, annidata nei luoghi

del potere e dell’amministrazione; e produttiva, lavoratrice, mo-

ralmente sana, la seconda, rivelata politicamente dall’antifascismo:

Ebbene: chi sono i Contadini? Sono, prima di tutto, i contadini […] Ma non sono soltanto i contadini. Sono anche, naturalmente, i baroni […] i baroni con- tadini […] E poi ci sono gli industriali, gli imprenditori, i tecnici: soprattutto quelli della piccola e media industria, e anche qualcuno della grande: non quelli che vivono di protezioni, di sussidi, di colpi di borsa, di mance governative […] Gli altri, quelli che sanno creare una fabbrica, quel poco di borghesia at- tiva e moderna che, malgrado tutto, c’è ancora nel nostro paese, per quanto possa sembrare un anacronismo […] e gli operai […] Sono contadini tutti quelli che fanno le cose, che le creano, che le amano, che se ne contentano. Sono Contadini anche gli artigiani, i medici, i matematici, i pittori, le donne, quelle vere […] gli intellettuali progressivi […]. E i Luigini, chi sono? Sono gli altri. La grande maggioranza della sterminata, informe, ameboide piccola bor- ghesia, con tutte le sue specie, sottospecie e varianti, con tutte le sue miserie, i suoi complessi d’inferiorità, i suoi moralismi e immoralismi, e ambizioni sba- gliate, e idolatriche paure. Sono quelli che dipendono e comandano; e amano e odiano le gerarchie, e servono e imperano. Sono la folla dei burocrati, degli statali, dei bancari, degli impiegati di concetto, dei militari, dei magistrati, degli avvocati, dei poliziotti, dei laureati, dei procaccianti, degli studenti, dei paras- siti. Anche i preti, naturalmente […] E anche gli industriali e commercianti che si reggono sui miliardi dello Stato […] Poi ci sono i politicanti […] E aggiun- gete infine, per completare il quadro, i letterati, gli eterni letterati dell’eterna

125 Carlo Levi, che frequentò Gobetti dal 1918, aveva contribuito a mante- nerne viva la memoria e a costruire su di lui un mito condiviso che sarà parti- colarmente significativo tra i liberali progressisti alla caduta del fascismo: cfr. Levi 1935, 33-47 (quaderno clandestino). A quasi dieci anni di distanza dalla morte dell’amico, Levi trovava nell’unità di pensiero, azione politica e vita per- sonale di Gobetti il motivo per sentirlo ancora, come ai tempi di «Rivoluzione Liberale», il modello concreto «di un gruppo di giovani, il nucleo vivo di una classe dirigente: unica, forse, eredità, ancor valida per il futuro». «Sacerdote di se stesso», luterano maturato politicamente nell’elitismo torinese, Gobetti in- carnava la morale della libertà, il liberalismo rivoluzionario proposto a solu- zione del problema dello Stato; e continuava a vivere negli altri, nel socialismo liberale di Rosselli e dei collaboratori di «Giustizia e Libertà», di tutti quelli che nella redazione delle sue riviste avevano trovato una «scuola di autoforma- zione» e avevano intrapreso con lui lo «sforzo per una visione totale della poli- tica italiana» (morto lui, «ciascuno salvò la propria dignità nell’intransigenza»).

Arcadia […] i Luigini sono la maggioranza […] Sono di più, lo dicono le stati- stiche, in questo paese piccolo-borghese.126

Tra i «Contadini»

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vengono contati «anche gli agrari, magari i

grossi proprietari di terre [...], ma quelli che sanno dirigere una bo-