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Nel ’49 Elena ripensava con rimpianto, l’occhio rivolto ai va canzieri sulle nevi di Cortina, alla lunga stagione passata di quelle

amicizie che in tempi difficili avevano condiviso uno stile di vita

parco e schivo, animate da ben altre idealità:

Rimugino la mia condanna di ‘fuori classe’, che qui specialmente mi risulta fra la tanta gente. Vecchia storia. La verità è che proveniamo da famiglie sradi- cate e trapiantate in più città, che ad una vera e propria società borghese o ari- stocratica non appartennero, fosse Torino o fosse Milano. I Carandini in varie sedi prefettizie, a Milano l’ambiente più nostro era, come già quello del nonno Pin, fatto di intellettuali, artisti, giornalisti. Poche le famiglie amiche. E si era schivi da ogni mondanità, che pure sarebbe stata accessibilissima al tempo della mia giovinezza. Al largo benessere raggiunto corrispondevano gusti sem- plici, sani. E ci accorgemmo con l’arrivo del fascismo di ciò che molti «cono- scenti» valevano. Si fece poi parte, con legami molto belli, della «cricca antifa- scista» di varia provenienza e nacquero vere amicizie anche con alcuni nobili di alto e aperto sentire. A Roma noi due, col nostro titolo, siamo sempre rimasti in disparte dalla «società», fosse anche quella del mondo di affari, come da

fronte dei liberali era diviso: Brosio era contrario alla crisi e come lui lo erano i liberali torinesi; scrive Croce: «ho riveduto l’Antonicelli, che mi ha espresso la disapprovazione dei liberali torinesi per la crisi da noi provocata e pei pericoli che essa presenta» (Croce 2004, 378). Dai diari di Croce si ricava che Nicolò Carandini, incontratosi con Croce nei giorni della crisi, appena arrivato da Londra, rimase stupito e «molto contrariato» della caduta di Parri (il diario di Carandini mostra quanta speranza egli riponesse in Parri al governo, per le qualità morali e il prestigio acquistato nella Resistenza e come lo avesse pre- sentato entusiasticamente al Foreign Office); poi, informatosi meglio, avrebbe riconosciuto la necessità della crisi (ibidem, 366). La testimonianza di Elena conferma l’accondiscendenza non entusiasta di Carandini, preoccupato soprat- tutto degli effetti che la rottura della coalizione avrebbe avuto fuori d’Italia, particolarmente in Inghilterra (ibidem, 367). Al contrario di Nicolò e di Elena, la cugina Nina Ruffini (che Elena considerava comunque troppo accesa nelle sue passioni politiche) appoggiò la crisi e favorì Croce mandando una lettera in Inghilterra a un giornalista italiano che da lì criticava i liberali italiani (ibidem, 368; la lettera venne pubblicata su «Risorgimento liberale»).

Croce aveva giudicato fin dall’inizio Parri inadatto al ruolo per inesperienza di governo e di amministrazione e ne aveva previsto la rapida caduta, senza troppa simpatia, vedendo prevalere il partito che si proclamava «il vero e fer- vido partito liberale» e sbilanciarsi il governo «a sinistra» (ibidem, 307ss.); la decisione e la regia dell’«attacco» a Parri furono naturalmente sue (ibidem, 361ss.). L’accordo coi cattolici trovò un mediatore d’eccezione in Giovan Bat- tista Montini, con cui dialoga Croce a casa di Visconti Venosta riconoscendo a liberali e cattolici un nemico comune nel bolscevismo.

Per la soluzione della crisi Carandini sembrò, poi, più di Croce incline ad assecondare De Gasperi («È venuto anche il Carandini, contento che noi ab- biamo accettato la proposta del De Gasperi», ibidem, 370), ritenendolo, di fondo, un ottimo liberale «incappato nel clericalismo».

quello politico, o quello dei titolati, salvo pochi scelti esemplari. […] allora c’erano modelli a cui adeguarsi, un linguaggio da imparare con buone maniere non facili, e un certo stile. Si arrivava difficilmente a certi ambienti scelti. Ora la scalata è facilitata, come per lo sci. E regna una generale cafoneria (1949, 221).98

Il fastidio di Elena, «signora», come lei stessa si definisce («la

signora che sono», PS, 65; equivalente di lady), appartenente ad un

mondo «signorile», per la «gentuccia» ansiosa di ascesa sociale,

volgare consumatrice di mode, è alla confluenza del suo classismo

con la critica dei ‘ceti medi’,

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il gruppo sociale, una non-classe,

98 L’appunto è curiosamente in sintonia con alcune osservazioni della figlia di Croce sull’elitarietà dell’alpinismo estivo rispetto allo sci, sport di massa in montagna («La moda dello sci andava del resto respingendo l’alpinismo estivo nella torre di avorio di una piccola élite di tradizionalisti, che ancora venera- vano l’esempio dei pionieri inglesi di quello sport, e ne coltivavano il romanti- cismo», Croce 1964, 41); e ricorda la metafora eroica dell’arrampicata, cara a giellisti e azionisti, preceduti da un Turati giovane che racconta la sua ascen- sione solitaria sul Monte Rosa, cura alla nevrosi, nelle Lettere giovanili (Turati 1946; cfr. Isnenghi 2007, 25). Che l’alpinismo fosse uno sport esclusivo, di classe, prova e contrario la satira di Alpinisti ciabattoni (Cagna 1888; ristam- pato nelle Edizioni Piero Gobetti, nel 1925, e recensito da Montale sul «La- voro» di Genova), vicenda tragicomica di un malriuscito tentativo di conce- dersi una villeggiatura elegante da parte di una coppia piccolo-borghese di bottegai del Vercellese: metafora trasparente di una difficile ascesa sociale. Per la storia sociale dell’alpinismo cfr. Ambrosi, Wedekind 2000. Sullo sci (allora

sky) come espressione dell’attivismo moderno, «riduzione e triste parodia in

termini materialistici di un ideale etico», cfr. invece Croce 1932, 298.

99 In un’accezione diversa, naturalmente, da quella di Croce, di cui ho par- lato, e per molti aspetti vicina alla rappresentazione del Balzac di Les Petits

Bourgeois, autore caro a Elena. Un bilancio della fortuna, alterna, in tre «sce-

nari», del binomio ceti medi – fascismo, nella storiografia novecentesca, si trova in Salvati 1995, che distingue tra ceti medi come categoria socio-econo- mica, e cetimedietà, categoria invece di contenuto socio-culturale, quindi ideologica, solo parzialmente coincidente con la prima e, nella storiografia li- berale, negativa, in quanto indica all’origine il bacino dello scontento di status e della mancanza di sentimento civile, ovvero costituisce la prova dell’incapacità della borghesia di farsi classe dirigente del paese dopo l’Unità. Integrati nelle istituzioni corporativo-amministrative dello Stato fascista, pro- tetti, educati al consenso, massificati, i ceti medi avevano perso visibilità. Ma nel dopoguerra si ripropone un problema, che è insieme di mentalità (la «men- talità fascistica») e di moralità, cioè ritorna attuale il nodo ideologico della ce-

timedietà, di fronte alla preoccupazione della continuazione dell’apparato sta-

tale fascista o di una risorgenza del fascismo in forme non mussoliniane. Questi timori, come vedremo, sono ricorrenti nella scrittura di Elena, come nei di- scorsi delle persone che vivono con lei; li alimenta il giudizio sulle origini pic- colo-borghesi del fascismo e, ancora una volta, la constatazione della debo- lezza politica dell’élite liberale.

che più si era lasciato permeare dallo stile del regime, ne aveva ab-

bracciato la ‘pseudo-cultura’, praticato l’amoralismo. Nella «cafo-

neria generale» avverte nuovi pericoli per la neonata democrazia,

perdurando il malcostume italiano dell’individualismo di massa,

della corruzione e del provincialismo.

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Quando Elena scriveva di questo, nel ’49, appariva ormai evi-