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Espressione di un modo civile di vivere, dell’accettazione di re gole sociali basate sulla ragione e sull’esercizio della misura,

espressione dello stile di famiglia, insomma, anche il diario ha la

forma di un comportamento in pubblico:

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colo e, incontrando Coward durante il loro più lungo soggiorno inglese, nel ’45, verranno a sapere della Printemps, che «she is as young and lovely as ever!» (PS, 119). Nel giugno del ’47 Coward offrirà ai Carandini il suo nuovo spettacolo, Present Laughter («Benché così manierato, Coward rimane un uomo simpatico e ci piace come parla», PS, 326).

37 Riferisco qui anche un’osservazione che mi è stata fatta a voce da Stefano Majnoni, cognato di una figlia di Elena, a proposito dei diari, non infrequenti nelle abitudini delle loro famiglie; egli nota che sono più sincere le lettere, in cui emergono in tutta la loro verità attuale (anche linguistica, aggiungo) i rap- porti interpersonali: i diari, invece, seguono dei modelli e sono scritti per essere letti e durare nel tempo.

Un’ulteriore conferma viene dai diari di Nicolson, di cui è nota la complessa relazione con la moglie, come lui omosessuale; i diari esprimono regolarmente (si direbbe con buona educazione) sentimenti di affettuoso marito e di padre e delicati apprezzamenti della vita familiare: «La sera i ragazzi mi attaccano sul mio stile letterario. Dicono che ho così paura dell’ovvio che cerco deliberata- mente rifugio nell’arcano; dicono che amo a tal punto le parole straordinarie che le infilo dentro senza la minima idea del loro significato. È una conversa- zione molto piacevole e mi sono immensamente cari» (Nicolson 1996, 426); «Mai come in questi ultimi giorni ho sentito in modo tanto acuto che famiglia affettuosa e unita è la nostra. C’è un fondamentale senso di armonia e affetto. È forse la cosa migliore che la vita possa offrire» (ibidem, 429). Sulla singolare famiglia Nicolson-Sackville cfr. la testimonianza del figlio (Nicolson 1973) e la testimonianza della stessa Carandini: «È ben altro che vorremmo sapere di lei e mai si saprà: il suo legame con la Woolf, romanzo certo affascinante, il

Sono convinta che non bisogna sfogarsi, che nello sfogo c’è qualcosa di in- decente. Soprattutto mai sfogarsi nell’ebullizione, come il latte che subito scappa fuori e si riversa sul fornello con cattivo odore. Semmai come il brodo che a lungo ribolle, e brontola assorbendo intanto sostanza. Il brodo che va schiumato e poi passato (1949, 367;38 ritorna, come si vede, la similitudine ga- stronomica);

che gran donna Lisin [Elisa Carandini, la cognata]! Dice: «Credimi, non bisogna mai smettere di fare dei frais, cioè di spenderci, e proprio pei nostri congiunti. Mai lasciarsi andare. La forma che si mostra di fuori serve di den- tro» (1948, 168);

suo matrimonio che ha dato due figli maschi alla strana coppia più di amici che di coniugi, dediti ad amori strani. Amicizia basata su reciproca indipendenza e tolleranza, su affinità intellettuali. Lei ora non si muove quasi più e sono i tre suoi uomini a raggiungerla lì ai week-ends, se appena possono. Dose di fre- quentazione giusta, in casi come questi» (1948, 137).

38 Un piccolo sfogo sfugge una volta («Mi sfogherò un momento», 1950, 551), ma non di tipo personale: è una espressione di insofferenza nei confronti della mondanità nostalgica del fascismo e dell’ «Italia fasulla» del regime.

Rarissimi sono invece i riferimenti a qualche tensione in famiglia: «Mi sento così incompetente, e anche sola, incontrando resistenze persino in fami- glia» (1950, 474).

Un’utile riflessione sulle prospettive storiografiche ancora aperte nello stu- dio sociale delle «buone maniere», anche attraverso i diari (e quelli femminili del ’900 sono certo tra i meno esplorati a riguardo), si può trovare in Tasca 2003. Anche per Elena è fondamentale l’educazione familiare: una buona edu- cazione borghese, laica ma non irreligiosa, con un tratto «vecchio piemontese» di riservatezza e sobrietà, intransigente nell’autodisciplina, non disgiunto da una programmatica naturalezza nei rapporti con le persone (l’abbiamo visto: si tratta di «evitare le pose») e dalla preoccupazione di non annoiare. Questa «forma» passa attraverso l’imitazione delle donne di casa (si vedano le due ci- tazioni a testo, riferite a Lisin e a Clarin, ma altre riguardano Mottola, la madre, che appare molto vivace in famiglia anche attraverso i diari di Luigi Albertini). La solidarietà con gli uomini, le figure intellettuali di casa, invece, permette a Elena di reinterpretare l’educazione ricevuta sviluppando una personalità più libera e moderna, insofferente dei formalismi. Ma se Elena si definisce «si- gnora» è perché sa di essere parte di un’aristocrazia della «civiltà», di cui lei conosce bene l’etichetta e i doveri sociali, la «distinzione» rispetto al mondo circostante; conosce bene, come si è visto, anche il suo ruolo, di figlia, moglie, madre, ospite perfetta, negli spazi circoscritti della famiglia e del salotto. Il dia- rio ha una funzione pedagogica anche quando trasmette la memoria di figure e comportamenti esemplari sul piano della sociabilità, destinandoli all’imitazione dei figli; è un galateo. L’elezione dei comportamenti e degli oggetti di consumo quotidiano, alieni dalla volgarità dell’uso maggioritario, l’alta interpretazione del proprio impegno civile, o intellettuale, della propria agiatezza e dell’uso del tempo (letture, conversazioni, incontri, eventi culturali, visite d’arte, viaggi, collezionismo) sono rappresentati con piena consapevolezza, anche con orgo- glio. Questo non toglie che Elena avverta sempre più spesso, nel dopoguerra, il destino all’esaurimento del modello in cui si è formata ed è vissuta.

[zia Clara Albertini, Clarin] mai indulge a sentimentalismi, tutta concreta ed equilibrata, d’una fermezza antica. È la versione femminile di papà (1949, 353). 39

I dubbi sulla riuscita del diario, l’insoddisfazione per quello che