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Elena tesaurizza la corrispondenza intercorsa tra suo padre e

D’Annunzio,

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col suo caratteristico culto delle memorie fami-

voleva tempo e lunga frequentazione prima che sotto la stilizzata compostezza del d’Annunzio esteriore si potesse scoprire un essere cordiale, capace di slanci d’amicizia, semplice e alla buona» (ibidem, 134ss.).

La vanità irrefrenabile di D’Annunzio in società è descritta anche nel diario di Berenson (che pure dimostra di sapere il valore linguistico del poeta, me- more forse del giudizio di Praz): «anche D’Annunzio in un salotto diventava una scimmia ammaestrata. D’Annunzio che a quattr’occhi era un delizioso in- terlocutore e parlava con la più grande naturalezza e dimenticando di sé, di- scutendo sempre impersonalmente di letteratura, di poesia e di libri con raffi- natissima scelta di parole, parole rare e sonore che accarezzava come il gioiel- liere accarezza pietre preziose, quel medesimo D’Annunzio non era più lo stesso non appena giungeva un’altra persona» (Berenson 1950, 31).

25 La persona educata non posa, in società si comporta con naturalezza e non si esibisce. Cfr. già il diario di Elena ventenne: «C’è la Robilant […] È una donna di valore e almeno con noi non posatrice» (Magnarelli 2007, 161; anche la madre, francesizzando, parla di «Sig.ra elegantissima ma poseusa quanto mai, l’unica posatrice che ho trovato in questo paese dove tutti hanno il merito di essere molto semplici », ibidem 146). Come nel caso di D’Annunzio, si nota la percezione che sia proprio la semplicità dei modi della famiglia Albertini a condizionare virtuosamente gli ospiti o gli interlocutori, sia pure eccentrici. La parola posare con i suoi derivati appartiene ad un lessico (familiare) e ad un’educazione che già nel ’44 suona demodé. Umberto Zanotti Bianco posa: «Esangue com’è, con quella poca voce strascicata nell’accentuazione un po’ straniera, un po’ voluta e ‘posatrice’ (come dicevamo un tempo), lui raggiunge i suoi scopi, sa persuadere e stimolare, nonché far soldi» (PS, 64).

26 Cfr. il carteggio tra Luigi Albertini e il poeta (D’Annunzio, Albertini 2003). Antonio Baldini, che ne pubblica una selezione sui primi numeri del «Mondo», nel febbraio e marzo 1949, dichiara introduttivamente: «Due uomini di più diversa tempra mentale e morale di Gabriele D’Annunzio e di Luigi Albertini sarebbe difficile immaginarli […] Lungamente viziato dall’ammi- razione e dall’indulgenza di quanti, uomini e donne, erano entrati nel giro della sua vita, solo di fronte all’Albertini D’Annunzio non trova il coraggio di ostentare quel suo letterario atteggiamento d’uomo fuori legge col quale si compiacque di far colpo sui poveri mortali. Si sorveglia, si modera e, all’occasione, umilmente si confessa e giustifica» (Baldini 1949, 11; il titolo riprende una frase del poeta: «Ho un amico all’ombra del Duomo»). Elena ne parla in 1949, 109. Il carteggio è ora edito in D’Annunzio, Albertini 2003.

Il rapporto tra D’Annunzio e Albertini ebbe fasi alterne. Fu freddo all’inizio; la collaborazione del poeta era cominciata nel 1906, con pezzi per «La Lettura» e per il «Corriere», dove nel 1907 esce la canzone Per la tomba

di Giosuè Carducci. Dal carteggio di Albertini con De Roberto si intuisce con

quanta diffidenza i due corrispondenti avessero guardato al successo, ad esem- pio del Fuoco, condividendo il giudizio di Torelli sulle Vergini delle Rocce

liari

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e l’interesse, che le vedremo dimostrare in molte occasioni,

per la biografia degli uomini famosi:

(«orrendo»; cfr. Zappulla Muscarà 1979, 35). Anche D’Annunzio era per- plesso, temeva di essere costretto dai ritmi del quotidiano, diffidava del pub- blico del «Corriere» (era preoccupato di «turbare i lettori candidi»), voleva maggior rilievo.

Il rapporto divenne caldo tra il 1909 e il ’10: «Mi son divertito sia interes- sandomi ai voli degli aeroplani, sia discorrendo con persone affabili, partico- larmente con D’Annunzio che conoscevo per aver scambiato con lui poche pa- role al “Corriere”. Ho trovato un D’Annunzio diverso da quello che credevo, cioè un uomo dalla conversazione semplice, disinvolta, cordiale, non troppo sostenuta. Con me D’Annunzio è stato cortesissimo e si è aperto su tutte le sue miserie di debiti, sequestri, ecc.» (Albertini 2000, 118; appunto del settembre 1909). Erano gli anni in cui D’Annunzio pubblicava trionfalmente sul giornale di Albertini e in sintonia con questi, fra l’ottobre del 1911 e il gennaio del 1912, le dieci Canzoni delle gesta d’oltremare, quarto libro delle Laudi (Me-

rope), eroicizzando l’impresa libica, e scriveva dall’ «esilio» per debiti in Fran-

cia (sulla visita di Albertini alla casa di D’Annunzio ad Arcachon, presso Bor- deaux, e l’offerta delle Canzoni ad un prezzo troppo alto, cfr. Albertini 2000, 130-131). Nel maggio del 1915, secondo la testimonianza di A. Albertini, i due erano passati dal Lei al tu (Albertini 1945, 138).

Venne, poi, alla fine della Grande Guerra, la rottura tra il Direttore e il suo poeta, costoso e infedele, che si consumò sull’affare di Fiume, quando Alber- tini si schierò a favore delle «nazionalità oppresse», in posizione di «rinunzia- tario» («D’Annunzio invece questo pericolo non vede perché lo circondano de- gli elementi giovani e irresponsabili i quali non sono in grado di valutare la si- tuazione. Di più D’Annunzio ha un atteggiamento ieratico. Si crede ispirato e non ragiona», Albertini 2000, 243; cfr. anche Albertini 1945, 126ss., dove si dice che Luigi Albertini «temeva che la marcia su Fiume fosse un precedente pericoloso nella storia politica italiana. Non fu infatti quella una prova generale della marcia su Roma?», 144). La posizione di Albertini in quella circostanza era stata coerente, ma gli aveva procurato una fastidiosa impopolarità («Noi ci trovammo isolati in mezzo a un mare in furore, Il “Corriere”, mio fratello, i no- stri collaboratori, Borgese, Amendola, furono subissati quali traditori della pa- tria e della vittoria […] Certo, né esitazione né scoramento; ma nausea, questa sì, disgusto della volgarità trionfante, della bolsa retorica», Albertini 1945, 171-172). Anni dopo, nel ’23, il poeta riusciva comunque ancora ad esprimere la sua solidarietà all’amico che aveva scelto l’opposizione al fascismo: «Am- miro intanto il tuo disdegno e il tuo coraggio solitario. Ed è bene che tu non de- sista» (Albertini 1945, 146). Pur nell’ambiguità dei suoi comportamenti verso il regime, il Vate dava chiari segni di insofferenza verso la volgarità del Duce e della nuova classe dirigente; Turati racconta con una certa sorpresa di un D’Annunzio che sta dalla parte di Albertini e che si diverte a umiliare il «vil- lico di Predappio», in visita a Gardone, e conclude: «Si tratta di un pazzoide o di un beffardo, che fa il pazzoide calcolatamente? Questa seconda opinione è più probabile. Beato chi può prendere la vita per quel verso» (Turati, Kuliscioff 1959, 427).

27 D’Annunzio stesso aveva pensato agli eredi di Albertini mandando per loro l’autografo delle Canzoni delle gesta d’oltremare: «Il manoscritto –ver-

Lume di candela. Stasera non c’è corrente. E delle candele, che sono perfide e care, siamo avari. Osservando il moccolo che si liquefa malamente sotto i miei occhi, evoco le tante candele di Arcachon che papà rimproverava a D’Annunzio in una sua lettera dopo essere stato da lui. In assenza di linea elet- trica, allora, il vate si circondava di lucerne e doppieri. Profondeva centinaia di quelle lire per tanta dolce luce attorno al suo lavoro, ai suoi amori, ai suoi le- vrieri. Come ricordo l’arrivo delle sue grandi buste di sostanziosa carta su cui ammiravo la più grandiosa ed espressiva calligrafia di quel tempo che il Vate si era fabbricata a un certo punto della sua ascesa.28 Papà amava il suo confidente contatto con lui. Esplorerò quella loro lunga corrispondenza (PS, 81-82;29 per il ricordo di un altro spreco, i «magnifici asparagi fuori stagione», cfr. invece

gato con mano di ottimo copista, com’Ella vede – l’offro ai Suoi figlioli, i quali forse un giorno avranno un latifondo in Tripolitania» (Baldini 1949, 12).

28 Vedremo poco più avanti come la grafia di D’Annunzio avesse colpito la fantasia di Elena. Cfr. anche Carlo Sforza, che, al tempo del suo ministero gio- littiano, aveva ricevuto spesso lettere dal Vate: «tutte vergate su larghi fogli di carta a mano colla sua scrittura immaginifica, con inchiostro di Cina, sotto la sua insegna di allora: una rete squarciata da un pugnale» (Sforza 1944, 106).

29 Dal diario di Albertini: «A sera tutta la casa è illuminata da candele. Ce n’è a profusione dappertutto. Ma come fare se la luce elettrica manca? D’altra parte chi è la vittima maggiore di questo lusso? Lui, il poeta.» (Albertini 2000, 131). E scriveva a D’Annunzio, che aiutava a liberarsi dai debiti: «Gli amici sono scettici; constatano che Lei, anche quando afferma di essere nel piede della più stretta economia, spende dieci o ventimila lire al mese […] Ai periodi di economia di tal genere succedono quelli di maggiore sfarzo. E allora, essi pensano, vale la pena di sacrificarsi: o non è più salutare per D’Annunzio stesso che venga meglio a contatto con la realtà? […] mi sono un po’ cascate le braccia, non Le nascondo […] La sincerità è un abito da cui non so spogliarmi nemmeno al cospetto della gloria»; Albertini non aveva che «il desiderio di giovargli nei limiti concessi a chi tiene e deve tenere i piedi in terra» (Baldini 1949, 12). La pacatezza, il concreto buon senso di Albertini inducono D’Annunzio a promettere di essere più prudente e a dare delle giustificazioni o delle garanzie: «So bene che la colpa è mia. Mi voglia bene; e creda che io sono infinitamente migliore di quel che la malignità altrui mi rappresenta» (ibi-

dem).

È evidente la diversità di temperamento, ma anche di scrittura dei due per- sonaggi. Albertini, non a caso, esprime riserve sul modo dannunziano di scri- vere diari: «E mi mostra tre o quattro quaderni contenenti un suo diario scritto durante la pazzia della Mancini, diario per ora, e sempre in quella forma di- retta, impubblicabile» (Albertini 2000, 131). A. Albertini aggiunge una critica personale allo stile poetico di D’Annunzio («Seguirono altre canzoni, non tutte egualmente felici, talora troppo infarcite di evocazioni e richiami oscuri») e alla sua oratoria politica, viziata dal dilettantismo («Purtroppo a quando a quando […] il D’Annunzio cedeva al malvezzo dell’ingiuria e del turpiloquio che è antica tradizione della rissosa letteratura politicante italiana, prodotto di stati psicologici morbosi che vanno dal complesso di inferiorità alla mania di persecuzione», Albertini 1945, 140).

PS, 168; D’Annunzio «spendeva e spandeva in Francia. Il Corriere strapagava i suoi scritti», 1949, 233).

Di quel periodo Elena non conserverà un ricordo solo positivo.