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un periodo a Londra, frequentando la British Library per le sue ri cerche di economia politica e presentandosi intanto nelle redazion

dei giornali londinesi.

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Girando per la City, ad Elena parrà di ve-

dercelo, rapidamente assimilato ai modi inglesi:

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alla base della buona educazione, e gli conquistarono un rispetto che nessuno avrebbe osato prevedere. Forse i suoi guardiani inglesi capivano che nel suo intimo egli era sempre stato dalla loro parte, ed è probabile che in fondo al suo animo egli si sentisse in qualche modo uno di loro, come del resto un po’ tutti gli antifascisti liberali dell’epoca […] Fu proprio lì [all’Ambasciata italiana] che un funzionario del Foreign Office, presentatosi una mattina per sistemare le questioni relative all’anomalo status dei diplomatici italiani […] e ricevuto dalla rappresentanza italiana al completo –quattro persone in tutto- fra i divani ancora ricoperti di teli bianchi e la mobilia accatastata, dopo aver stretto la mano a ognuno li fissò per un istante con aria perplessa, e disse, ridendo: «Im-

possible! » Quei quattro individui non potevano essere italiani, secondo il

luogo comune prevalente allora […] Quei quattro italiani di Grosvenor Square erano alti e snelli, due di loro biondi, tutti con gli occhi chiarissimi, e impecca- bilmente vestiti. Carandini, per di più, occhi grigi e capelli bruni, assomigliava in modo sorprendente al famoso attore americano Gary Cooper, col quale con- divideva, oltre che l’aspetto, anche il sarto. Il suo guadaroba d’anteguerra, il taglio dei suoi doppipetti, la sua nonchalance nell’indossarli, non potevano la- sciare in dubbio il visitatore su chi avesse di fronte. L’ambasciatore italiano era la personificazione dell’upper upper class, qualifica preziosa in un’Inghilterra ancora strenuamente devota alle differenze di classe» (Bartoli 2007, 11ss.).

65 Luigi Albertini si era laureato in legge a Torino, con la tesi ricordata, di Economia politica, relatore Cognetti De Martiis; lo studio sui vantaggi della riduzione dell’orario di lavoro fu pubblicato immediatamente dal «Giornale degli economisti», fra il 1893 e il 1894 e poi in volume, a Torino, Fratelli Bocca, nel 1894. Osserva il fratello Alberto: «In quelle 110 pagine sulla que- stione delle otto ore di lavoro c’è già in germe il Luigi Albertini futuro: diffi- denza delle formule correnti […], fede nel lavoro e nella possibilità di elevare le classi meno fortunate vincendo il pregiudizio e la grettezza» (Albertini 1945, 39).

66 Il viaggio di studio aveva avuto una copertura economica da parte di Luigi Roux, direttore della «Gazzetta Piemontese», ed effettivamente Albertini era stato pagato per le corrispondenze che mandava da Londra. Il contatto dall’interno con il moderno giornalismo inglese, favorito dall’amicizia stretta col direttore amministrativo del «Times», Moberly Bell («praticamente capo dell’azienda», lo definisce A. Albertini), determinò allora la conversione del giovane universitario alla carriera che, nel 1896, gli avrebbe aperto le porte del «Corriere della Sera». Un viaggio successivo, nel 1898, per conto di Torelli Viollier, gli permise poi di studiare da vicino i caratteri editoriali e tecnologici innovativi della stampa in lingua inglese che avrebbe portato nel «Corriere» e nella produzione collaterale (il settimanale illustrato «La Domenica del Cor- riere», dal 1899; il mensile «La Lettura», dal 1901; « Il Romanzo mensile», dal 1903; «Il Corriere dei Piccoli», dal 1908).

E ho quasi incontrato il mio papà, giovane e smilzo com’era allora. In bom- betta, con passi svelti e sguardi attenti a tutto. Sicuro in un certo senso, mal- grado la propia inesperienza di provinciale, di cui spesso ci diceva. Pieno di progetti e di sogni, passava dalla biblioteca del British ove completava i propri studi economici alle redazioni dei giornali di Fleet Street e a importanti signori cui era stato presentato. Il suo inglese era rimasto da allora con una leggera tinta di cockney (PS, 202);68

Venendo via passiamo per la Rotonda, la sala di lettura famosa in cui Karl Marx studiava e poi scriveva Il capitale sotto la protezione delle libertà inglesi in regime conservatore. (Questo è l’unico paese che egli riteneva maturo per un esperimento socialista. E così pensava anche il nostro Pareto). Ma io cerco so- prattutto il mio ventiduenne papà, qui giunto [...] senza ancora veder chiaro nel

Il fratello Alberto (Albertini 1945, 39ss.) informa che il giovane Luigi «sa- peva l’inglese; soleva leggere il “Times” e il “Daily Telegraph” e parecchie ri- viste settimanali, e immaginava bene quanto ci fosse da imparare e quanto le idee e il respiro si dovessero allargare in una metropoli come Londra, fervida di vitalità e di dibattiti fecondi. Era persuaso che conoscere il mondo britannico d’allora fosse un integrarsi ed arricchirsi spiritualmente»; parlando con le per- sone che incontrava, imparò «meglio l’inglese, che sinora egli conosceva più per aver letto che per aver conversato» (42). Nella formazione dei fratelli Al- bertini, di agiata famiglia borghese, le lingue straniere, inglese, francese e tede- sco, avevano subito avuto un posto di rilievo; questo permetterà più avanti an- che ai due fratelli minori, Antonio e Alberto, di essere assunti al «Corriere», già prima della laurea.

67 Il tratto anglosassone è rilevato anche nelle biografie di Albertini, ad es. in Bianchi: «fa toeletta con la cura e la puntualità di chi ha trascorso la giovi- nezza in condizioni d’agiatezza, ed ha rinsaldato le proprie abitudini in Inghil- terra. Questa ha infatti impresso nella figura, nel gesto, nel comportamento di Luigi Albertini la correttezza anglosassone» (in Albertini 1945, 105).

68 Piero Treves lo ricorda come figura nuova della destra liberale, nuovo an- che nella forma: «nell’atteggiarsi (anche nel porgere, nel gestire, nel vestire, nel suo stesso aspetto e profilo fisico) a liberal-conservatore britannico, ad

enlightened Tory, si costruì la propria concezione liberale su testi britannici: un

liberalismo, pertanto, liberistico ed a-statale, se non addirittura anti-statale, Stuart Mill anzi tutto» (Introduzione a Alvaro 1925, 20). Da notare la curiosa compresenza, nei suoi studi di economia politica, di Marx e Mill, una combi- nazione poco comune nella cultura italiana, su cui riflette ora Ginsborg 2006. Osservo incidentalmente che Ginsborg riporta un brano dalla traduzione ita- liana del ’43, fatta da Pietro Crespi per Bompiani, di Considerations on Repre-

sentative Government (1861) di Mill, dove è facile trovare non solo il concetto,

ma il tipico lessico dell’elitismo borghese liberale: la direzione dello stato, in una democrazia rappresentativa, spetta ad un’élite illuminata, «un piccolo nu- mero di uomini eminenti; esperimentati, preparati da una educazione e da una esperienza particolare, personalmente responsabili di fronte alla nazione» (Ginsborg 2006, 9).

proprio destino. Il mondo anglosassone lo ispirava col suo liberalismo illumi- nato (1948, 127).69

Per contrasto Elena insiste sul «malanimo anglofobo di pretta