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Cambio di Regime

Nel documento Guastalla in chiaroscuro (pagine 121-178)

Un’estate tra entusiasmi e delusioni

La notizia, viene sussurrata già nella tarda sera del 25, anche se molti sono inizialmente increduli e temono che sia una delle tante vociferazioni poi rivelatesi infondate, circolate nel corso della guerra. Poi, giunta conferma dalla radio, o con telefonate nelle città maggiori, iniziano spontaneamente a manifestarsi segni di giubilo, per questa prima liberazione dal fascismo, senza che i carabinieri o la Milizia fascista intervengano a reprimerlo.

[Alceste, 1920] presenta degli intermediari sociali - famiglie di spicco di industriali, commercianti e artigiani - tutti ad invitare in piazza a fare festa.

I Bertazzoni, Lusuardi, i Manini hanno festeggiato il 25 luglio con un mastello di bottiglie in fresco, in piazza, dando da bere a tutti.

Sempre [Alceste, 1920], allora militare rientrato da tre mesi dal disastro in Libia e Tunisia, ricorda la compiaciuta sorpresa per il cambiamento di regime che si annuncia.[1]

Il 25 luglio, quando è cascato Mussolini, ero in licenza; in compagnia eravamo andati alla sagra di Villarotta e là la sera abbiam sentito dire sottovoce cosa sembrava successo. A mezzanotte, al ritorno in bici a Guastalla, dietro il monumento di Frantón c’erano i Bertazzoni - Vittorio e Rubens - e degli altri con un mastello pieno di bottiglie di vino, che festeggiavano dando da bere in giro. Poi han vietato gli assembramenti e a Guastalla non c’è stato niente.

[Tonino, 1926] più giovane e stabile in città, ricorda manifestazioni ben più intense il mattino seguente.

Il 26 luglio c’è stato un grande corteo, con alla testa don Baratti e Vitorio Bertason, poi sono andati in Municipio e don Baratti e Vitorio Bertasón han fatto il discorso, dal balcone.

In un susseguirsi di manifestazioni spontanee di piazza, dopo il 25 luglio, il simbolico centro ideale della città - il monumento di Leone Leoni al duca Ferrante Gonzaga - diviene così il palcoscenico dei festeggiamenti per la prima liberazione dal fascismo. Tanto che dalla lapide in latino dove sono elencati titoli e benemerenze del condottiero fondatore della Guastalla moderna, nel basamento della statua, si dice addirittura che qualcuno abbia scalpellato via l’antico appellativo di duce perché dopo la rimozione di Mussolini dalla scena pubblica non si voleva che di tale parola aborrita restasse traccia neppure nelle secolari vestigia della storia locale.

[Tonino, 1926] insiste sul significato ultimativo di quello scontro simbolico, tra la patria nazionale e il Fascio littorio che aveva preteso di fagocitarla.

Allora c’è tutta la questione di questo mutamento del 25 luglio, del 26 poi, perché il 25 l’han saputo nel pomeriggio, è successo il mattino dopo... Ci ho dei documenti dove Vittorio Bertazzoni, con quel prete che vi avevo detto - don Raffaele Baratti che era responsabile della biblioteca - si sono messi in testa al corteo e sono andati in Municipio a buttare giù la statua di Mussolini, e poi dopo sono andati in Palazzone, lì c’era un Mossina - Ferdinando, il maschio più giovane - che ci aveva la finestra in piazza, hanno buttato giù due statue di Mussolini. Che a lui [Mossina] gli è costato, che è dovuto scappare a Roma dopo, se no lo mettevan dentro, i repubblichini; e Bertazzoni s’è dovuto andare a nascondere nelle valli di S. Rocco. Ci sono state queste persone che hanno messo insieme questo corteo, ci sarà stato un corteo... ci saranno state 1.500 persone! C’era la piazza piena, piena, piena, nella Piazza Mazzini. Che sono andati sul balcone del Municipio a buttar giù il coso, il busto, e poi han tenuto... don Baratti ha tenuto un discorsino.

Nella confusione provocata dall’euforia generale e dalla mancanza di notizie sull’evolvere della situazione politica, i racconti degli immediati e spontanei festeggiamenti avvenuti a Guastalla – come ovunque – sono inevitabilmente diversi e contraddittori. Che le narrazioni tramandate dei festeggiamenti di quei giorni rispondano o meno a quanto realmente accaduto, e che nella confusione qualcuno abbia o no fatto uso di armi da fuoco contro i ritratti del duce negli edifici pubblici - come raccontano alcuni - ha un’importanza del tutto secondaria. Quello che preme a chi ha tramandato la memoria di quei giorni è che quel giorno l’immagine di Mussolini - attraverso i suoi busti che erano collocati nel Municipio e nel Palazzone - viene sottoposta a un dileggio senza ritorno, oggetto di una

pubblica e definitiva esecuzione dissacrante, e attuata in modo plateale proprio dagli esponenti del notabilato locale, a dimostrazione di quanto l’odio per il regime toccasse ormai la generalità della popolazione.

[Enzo, 1924] e [Udo, 1930] si collocano sul medesimo registro.

Il 25 luglio tutti sono andati in Via Gonzaga. E mi ricordo che c’era Mossina, che avevano qualcosa… quel busto sarà stato dentro da Mossina, non so. Lì hanno buttato fuori questo busto, e parlavano, e stop: erano contenti che era caduto il fascismo, e basta. Va beh, quando è crollato il fascismo in Italia, ci son state le manifestazioni in piazza, hanno spaccato la testa del duce, han rotto il monolite, quello lì dall’argine per andare a Luzzara: lì c’era il monolite. La testa del duce era lì vicino al palazzo Mossina, adesso non mi ricordo dove, c’era lì; infatti l’han buttata giù: un mezzobusto, adesso non mi ricordo neanche dove fosse, e l’han buttato giù. Poi han buttato giù le insegne, i manifesti, cioè poi io non ho visto bene cos’è successo dopo: è successo in luglio..., in agosto sono andato a militare.

Eh, mi ricordo veh, adesso ho il disegno, adesso. C’erano Mossina e Bartoli, lì dal Municipio – che io c’ero, lì - hanno buttato giù il testone di Mussolini. Dei Mossina c’erano i due fratelli, c’era l’ingegnere. Dopo, c’erano i più vecchi, tutti gli andavamo dietro, che demolivano i fasci! Ce n’erano dall’ammasso del Governo che c’era il fascio; poi quello là dal cippo, quello delle masse. Questo qua è Porta Po: venendo dalla Tagliata c’è la discesa c’è il cippo del monumento di Mussolini. Allora, tutti con una grande euforia, no? Che pensavamo che alla fine fosse finito davvero il fascismo. Dalla Casa del Fascio non mi ricordo se abbiano buttato giù le carte che c’erano. In Municipio... no, ma in Municipio hanno buttato giù le carte, le carte e il testone di Mussolini.

Per parecchi, quella resta una rivalsa attesa a lungo. Dopo aver dovuto dimostrare per vent’anni deferenza al simbolo odiato della propria sottomissione e di innumerevoli sopraffazioni ai propri danni, diversi anziani si tolgono la soddisfazione di abbattere i segni di un potere rovinatosi da solo. Si dice che dal basamento del monumento cinquecentesco a Ferrante Gonzaga si tenti addirittura di scalpellare l’iscrizione del 1774 a ricordo del restauro dell’opera, patrocinato al duca di Parma Piacenza e Guastalla Ferdinando di Borbone, essendo questi è qualificato in latino come duce. Oggi però non si notano sfregi o abrasioni su quella scritta. Tuttora invece fa mostra vistosa di sé - benché in parte coperta dai successivi innalzamenti dell’argine - la stele marmorea sull’argine maestro, presso Porta Po, a cui in quei giorni viene simbolicamente rotta la scure del fascio littorio,

Ridotta in quello stato, oggi appare un implicito monumento alle mobilitazioni iconoclaste dell’ultima settimana del luglio 1943. In quel momento, buona parte della popolazione anziana si sente sollevare da una ventennale sottomissione prevaricante, mentre per i giovani, anche quelli che hanno alzato proteste nei mesi precedenti, la notizia produce euforia e porta a moltiplicare platealmente gli atti di rifiuto del potere oppressivo. Questi numerosi sfoghi liberatori non sono però ancora supportati da una solida cultura antifascista, occorreranno ancora settimane o mesi per questo apprendimento.

[Gim, 1926] testimonia in prima persona di quella tensione liberatoria, tanto più radicale in quanto non ancora indirizzata dal punto di vista politico.

Io ero andato a finire al Banco di San Prospero, impiegato a Gualtieri, e allora il 25 luglio del ‘43, nel venire a Guastala, ho trovato il padre di James Malaguti e una donna di Novellara che aveva un’officina, e mi han detto: “È cascato il duce!” Tira e mola… sai, era gente anziana. Io, la prima reazione che ho, fatta memoria dalle cose dei francesi… Sono arrivato alla Pieve, c’era fuori il prete, gli ho detto: “Oh, cornacchie! Avete finito di rompere le balle!”. Io, più che altro, ero un anticlericale, non ero un comunista: non sapevo neanche cosa volesse dire.

Prima che l’autoritaria proclamazione dello stato d’assedio militare riporti al silenzio le piazze, le sedi delle organizzazioni fasciste cittadine vengono devastate: dalla Casa del Fascio posta nel convento di S. Francesco, ai sindacati corporativi e al Dopolavoro posti in Via Gonzaga.

[Tonino 1926] dice di avere anche le foto di questi assalti di folla.

Alla Casa del Fascio è stato bruciato tutto, è stato il 26 luglio. C’era il cortile, e allora hanno buttato giù la roba: c’era un gran quadro di Mussolini. E poi han buttato giù tutte le carte e via discorrendo. Poi erano andati anche dove c’è il fruttivendolo adesso, che c’era il sindacato, dove c’era Scaltriti, la bottega, anche lì han buttato giù tutte le cose in Via Gonzaga e han dato fuoco alle carte dei sindacati; ma c’era più roba alla Casa del Fascio.

Nel suo libro di memorie guastallesi, Gustavo Marchesi ha descritto pittoresche rivalse, con innumerevoli sberleffi ai fascisti e alle fasciste, umiliati sotto le loro case, collocando questi fatti alla data dell’armistizio: l’8 settembre, sei settimane dopo. Scene irriverenti di

questo genere - che probabilmente ci sono state per le strade anche a Guastalla - in larga parte d’Italia sono documentate nell’ultima settimana di luglio; in agosto e all’inizio di settembre i fascisti sembrano definitivamente scomparsi dalla scena civile.[2]

I più caldi denudarono un ex miliziano e si sollazzarono lanciando bottiglie vuote contro la porta di Sante Scansani, segretario del fascio. «Saluti al Ducce» urlavano accompagnandosi con rumoracci e risate. Scansani non reagì, ma non fu più lui. Quando altri camerati aderirono all’ultimo governo Mussolini, Sante continuò a rimanere in disparte e venne sostituito. Qualcuno orinò nei piatti che prendevano il fresco sul balcone della Bice, una fascistona, che vantava i suoi manicaretti, quando tutti avevano quasi soltanto l’appetito, da mettere in tavola. Poco distante, sotto le finestre dei Trancher, un coro improvvisato intonò la marcia funebre del bischero. I Trancher erano notoriamente dei fedelissimi al regime: la signora, la Nice, dirigeva le donne fasciste. Al suo indirizzo salivano le grida più irriverenti: «Vieni giù, budellona», «Spast’al cu cun la barba» - la barba del marito, un primario dell’ospedale. La figlia, la giunonica Dora, si chiuse nel bagno dalla vergogna [...]. Del resto anche alla famiglia di Achille-Renato furono riservati scherzetti molesti, ma non più che scherzetti, perché i Rossi passavano per buonissima gente.

Il colore rosso può prendersi una rivincita sull’emblema del Littorio.[3] [Gim, 1926] rimane colpito dalla parodia del “rosso” che vince il “nero” messa in scena dal burattinaio di S. Rocco, la frazione comunista di Guastalla.

C’era Marión il burattinaio, che da S. Rocco era venuto apposta a Guastalla, in via Gonzaga, con un piatto con dentro un pomodoro tagliato in due. E tutti quelli che incontrava con la cimice, col distintivo fascista all’occhiello, faceva la buffonata di costringerli a piantarlo nel pomodoro.

Schiacciato come tutti i giornali dagli accanimenti della censura delle autorità militari e prefettizie, il quotidiano provinciale “Il Tricolore” - subentrato nella testata a “Il Solco fascista” - pubblica il 29 luglio una cronaca molto addomesticata di quanto è accaduto per le strade di Guastalla nei giorni precedenti.

Colonne di popolo hanno percorso le vie imbandierate tra vivissime acclamazioni all’indirizzo del Sovrano e del Maresciallo Badoglio, mentre gruppi di giovani sostituivano emblemi e scritte del decaduto regime. Ora la vita

cittadina ha ripreso il suo ritmo normale. Tutti son ritornati al lavoro: gli operai alle fabbriche e gli impiegati agli uffici.

É invece probabile che i festeggiamenti e il fermento abbiano paralizzato anche per più di un giorno il lavoro nelle fabbriche e in diversi uffici, come mostra la vicenda drammatica delle vicine “Reggiane”, terminata con nove lavoratori uccisi a colpi di mitragliatore mentre tentano di uscire dai cancelli per una dimostrazione pacifista. Quelle manifestazioni rivolte contro i simboli del regime trovano come orizzonte comune l’aspettativa di una pace imminente. Dopo un paio di giorni, invece, con l’affissione dei manifesti di Roatta che proclamano lo stato d’assedio, a dettare disciplina al posto della Milizia sono i soldati, perché la popolazione padrona delle strade è considerata un pericolo per i piani della classe dirigente italiana. La circostanza dello stato d’assedio, tuttavia, non è stata trattenuta nella memoria collettiva. Ciò non deve sorprendere. I testimoni ricordano solo che in brevissimo tempo è tornata la calma, mentre la guerra è proseguita, secondo la parola d’ordine di Badoglio trasmessa alla radio: “La guerra continua”. In agosto si riscontra così uno stato di sospensione della vita sociale affatto irreale, cui corrisponderà - l’8 settembre - il più amletico tra gli armistizi possibili. Destinato a precipitare in uno stato di guerra ben più tragico di quello precedente.

[Enzo, 1924] restituisce bene il punto di vista di chi vide solo l’annuncio di una rivoluzione, alla maniera gattopardesca.

Se le hanno buttate fuori dalle finestre le carte della Casa del fascio, io non le ho viste. No, proprio no. Che poi, Guastalla, era un paese strano, eh? La gente se ne frega altamente, non è che… può darsi che qualcuno abbia fatto anche qualcosa… non lo so, io non… allora io non ho partecipato. […] Io proprio non l’ho visto. Non potevamo essere dappertutto, eh? Ma che io mi ricordo… non abbiamo delle cose che ti abbiano fatto senso, o che ti siano rimaste impresse, non me ne ricordo. Che poi è stato talmente breve: 25 luglio e 30 agosto [data della sua partenza per la leva militare], non è che abbia potuto vedere tanto. Perché poi anche quando è successo il 25 luglio, non è che i fascisti siano scappati poi via, eh? Son rimasti ancora loro, insomma, non hanno più fatto delle dimostrazioni, però erano sempre quelli, perché allora c’era Scansani che era - come si chiama? - segretario del partito, e Scansani è venuto in stazione a salutarci [alla partenza dei coscritti chiamati in guerra], ed eravamo in agosto, il fascismo era caduto. Sai quando siamo andati via noi eravamo in 3 o 4, non eravamo in 20 da far cerimonie, ma è venuto a salutarci. Perciò non è che fosse

crollato tutto, come in una specie di rivoluzione. Era padrone di quel palazzo lì dove c’è la stazione, sulla sinistra, poi tutto il dietro: era tutta roba sua, Sante Scansani.

In molti altri centri, l’azione preventiva dei militari impedisce assalti alle sedi fasciste. In questi movimenti di truppe viene coinvolto [Professore, 1919], all’epoca ufficiale sull’Appennino.

Quando il re ha fatto il colpo, io credo… dunque… io non ero a Guastalla, ero militare, carrista, nel terzo reggimento di Parma, dislocato a Bedonia [...], io non so bene perché mi trovavo dislocato a Bedonia di Parma; ed ebbi l’incarico - adesso mi sfugge perché – di andare dall’ex, da quello che fu segretario del Partito fascista della zona, a prendere le consegne o cosa della loro sede, avevano fin da allora l’esercito… - ecco, mi viene in mente, non l’ho mai ricordato ancora - e siccome si vede che il mio capitano conosceva le mie idee, ecco mi diede allora il primo incarico di poter fare questa cosa.

Mancano racconti su cosa accade nelle frazioni rurale, se ci siano anche lì segni di giubilo e rivalse sui fascisti, o se i loro abitanti si limitino a vedere cosa succedeva in città e a procurarsi qualche giornale, o ascoltare la radio. [don Paolo, 1927] in quelle settimane in vacanza estiva dal seminario, a casa dei genitori nella campagna novellarese, non ricorda incidenti, né a Guastalla, né nel proprio villaggio, S. Giovanni della Fossa.

Quando è caduto Mussolini, la gente ha detto: “Era ora!”. Non ho fatto in tempo a vedere attacchi a sedi fasciste. Anche perché in seminario non volevano farci vedere queste cose. Però io ero a casa, ma più di quello non è successo, perché è anche una frazione piccolina, non è che… Tutti si conoscevano.

Ancora più difficile - per i testimoni - è ricordare la riorganizzazione spontanea dei circuiti politici, in quel periodo in cui i comandi del Regio Esercito e della polizia, protagonisti del colpo di stato, mantengono con rigido autoritarismo la tutela dell’ordine, senza che a Guastalla avvengano però tragedie come a Reggio, dove il 28 luglio i bersaglieri fanno strage degli operai che tentano di uscire in corteo dalla grande fabbrica, chiedendo la fine della guerra. Nell’eccidio delle Officine Reggiane nessun operaio guastallese rimane

coinvolto, né alcun giornale - per la stretta censura - ne fa parola; per cui il pur vicino avvenimento drammatico non impressiona Guastalla, né se ne ha un’eco conseguente tra i nostri testimoni.

I ricordi più prossimi e purtroppo frammentari da noi registrati, per bocca di [Alfa, 1922], riguardano uno sciopero organizzato alla Mossina, quindi fatto rientrare in seguito alle intimidazioni dei soldati appartenenti al Regio Esercito dentro alla fabbrica: elemento che indurrebbe a pensare a un’interruzione del lavoro avvenuta durante i “45 giorni di Badoglio”. Ma pensare a soldati italiani che minacciano con le armi le operaie scioperanti è sempre un ricordo sgradevole, di quelli che facilmente sono destinati all’oblio, o che richiedono trasferimenti su altre figure della colpa per quei soprusi, quali la Milizia fascista, la Guardia nazionale repubblicana o i medesimi occupanti tedeschi.

Timide riorganizzazioni dei partiti politici sono ricordate dai protagonisti. A Guastalla, i vecchi socialisti Gino Castagnoli e Enrico Macca riprendono contatti per valutare come ripristinare un circuito politico tra i socialisti in città e nella zona, confrontandosi con i comunisti, che in quegli anni hanno invece mantenuto una propria rete clandestina, particolarmente attiva e radicata socialmente a San Rocco, soprattutto attorno al falegname Maino Malaguti. All’interno dell’Azione cattolica, laureati con una leadership già affermata, come Remo Emilio Tosi e Antenore Benatti, originario di Casoni, divengono un riferimento per la rifondazione di un circuito politico cattolico che tenta di subentrare con una posizione egemonica ai decaduti quadri sociali del Partito fascista, per dare una nuova guida alla società. È lo sbocco all’intensa preparazione di quadri idonei a svolgere propaganda politico-religiosa nella società, secondo le insistenti indicazioni che dal 1942 stanno arrivando dal Vaticano e dallo stesso vescovo Zaffrani. A differenza di quanto accaduto a Luzzara e Novellara - dove personalità non fasciste sono insediate a capo dei Municipi - per Guastalla e altri comuni limitrofi nel mese d’agosto la prefettura di Reggio non ha neppure il tempo di nominare un commissario prefettizio in sostituzione del podestà fascista. Il giovane magistrato Ernesto Dardani, pretore a Guastalla, ha comunque la particolarità - rara all’epoca - di essere in scarsa sintonia col regime; dall’estate 1943 mantiene contatti discreti ma costanti coi circoli antifascisti locali e provinciali.

Nel mese d’agosto, intanto, per la strada si vedono i segni inquietanti di un’invasione strisciante, con unità motocorazzate che transitano sotto gli occhi di tutti, per andarsi a posizionare sulla strada Modena-Brennero e attorno alla Via Emilia.

[Enzo, 1924] quel trapasso lo vive in presa diretta e nel modo più problematico, trovandosi tra quei giovani che furono richiamati alla leva dopo il 25 luglio e prima dell’8 settembre.

Sono arrivati i tedeschi in Italia, in luglio, quando è crollato il fascismo, il 25 luglio. Che già da prima i tedeschi sono venuti in Italia, coi carri armati che sono passati in Circonvallazione, che hanno rotto tutta la strada, e si sono fermati dai cordoli lì dalla stazione, e siamo andati noi ragazzini, a fare il giro dell’uomo sui carri armati. Sai, ne erano passati delle colonne, continuamente, no? Ma allora, sai, noi eravamo ancora presi dall’euforia del fascismo, che allora avevano vinto qualcosa in Libia, avevano vinto… Sembrava un aiuto, una bella cosa, e difatti alcuni anche li salutavano, che eravamo i suoi alleati. E poi sono andati giù, e poi noi…

Le parole di Enzo ci ricordano come quel brusco passaggio, dalla residua tronfia

Nel documento Guastalla in chiaroscuro (pagine 121-178)