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Lo spettacolo del sangue: vita breve e ingloriosa fine della Rsi

Nel documento Guastalla in chiaroscuro (pagine 195-200)

I nuovi fascisti: dalla Brigata nera alle Fiamme bianche

Nell’inverno ’43-’44 continua l’avvicendamento commissariale del Fascio guastallese, tra Quirino Codeluppi e Vittorio Conticini, finché il 28 marzo si arriva ad un’assemblea degli aderenti da cui è quest’ultimo ad uscire con la nomina di segretario del Pfr. Ma il punto è che non si può parlare di questo come di un partito, mancando ogni segno di esistenza politica, mentre la sola identificazione reale sarà con l’azione militare della Brigata nera, costituitasi – nella data simbolica del 25 luglio – quando già gli anglo-americani irrompono nell’Italia centrale, dopo la Liberazione di Roma. Al corpo paramilitare della Brigata nera, infatti, sono formalmente obbligati ad aderire tutti gli iscritti al Pfr.

Smobilitata la Wehrmacht da Roma, dall’Italia centrale e dalla stessa Romagna nell’estate 1944, di fatto in tutta la bassa reggiana i Fasci cessano di esistere e la Casa del Fascio guastallese viene riconosciuta unicamente come la caserma della Brigata nera: un luogo minaccioso, guardato con diffidenza e repulsione dalla gran parte della cittadinanza. Quella diventa la sede della 3ª zona - al comando di Vincenzo Bertani e comprendente anche Gualtieri, Luzzara e Reggiolo - della 30ª Brigata nera, operante in tutto il territorio provinciale, ad eccezione ovviamente delle zone dell’Appennino controllate dai partigiani. [1]

All’interno delle comunità locali dell’Italia settentrionale, dunque, i pochi repubblichini sanno di essere invisi a tutti, anche a parecchi ex fascisti, che non ne vogliono sapere di loro, né dei tedeschi. Gli stessi militi dei corpi militari fascisti, sempre più in apprensione per la propria sorte, sono riottosi a seguire le direttive militari ricevute dai propri comandi, i quali li spingono ad atti fanatici sempre più in rotta coi valori della società in cui vivono, fino all’ordine, non rispettato, di spostarsi con le proprie famiglie oltre il Po, per salvarsi dalle ritorsioni delle popolazioni in caso di ritirata tedesca, recidendo così tutti i possibili contatti col proprio ambiente d’origine e mettendo così se stessi e i propri parenti completamente in balìa degli apparati di Salò, poco credibili nel loro caos e nella loro evidente subalternità ai locali comandi tedeschi, del resto palesemente condannati a scomparire rapidamente e catastroficamente. [2]

Nemmeno la disperazione può spingere la maggior parte dei militi della Guardia nazionale, ma persino delle Brigate nere o delle divisioni Monterosa e Littorio, a seguire i tedeschi in rotta verso i passi alpini.

Guerrino Franzini, sfogliando una mole imponente di carte sulla situazione della provincia di Reggio Emilia, non usa perifrasi: i militi della Gnr e i legionari della Bn diventano arbitri della vita e dell’incolumità delle persone e agiscono senza più preoccuparsi di regole legali, non dovendo rendere conto del proprio operato all’infuori degli organismi, se non talvolta alla Wehrmacht.[3]

L’isolamento della Rsi, rispetto a quello che era stato il medesimo insediamento sociale del fascismo, comporta una reazione vendicativa che investe anche l’aspetto simbolico. Una rabbia particolare si accanisce contro ogni immagine simbolica che possa rievocare il 25 luglio. Se le armi si fanno temere e sentire, lo scontro investe la natura morale, prima ancora che istituzionale, della comunità nazionale. Il basamento posteriore del monumento a Frantón, nella piazza Mazzini, diventa così il fondale - il 17 dicembre 1944 - per concepire prima l’efferata esecuzione di un giovanissimo partigiano e poi la sua macabra esposizione priva di ogni pietà.

D’altra parte, come raccontano i testimoni intervistati, il nazifascismo non riuscirà mai a ritagliarsi in modo netto una propria scena all’interno della geografia urbana della città. La Wehrmacht non vi occupa caserme fisse, limitandosi a una stazione della feldgendarmerie in Largo dei Mille, ma funzionante ad intermittenza; mentre una unità di comando è posta nella villa di Cambi (un chimico e proprietario terriero guastallese, residente a Milano). Quanto alla Brigata nera, sovrappone la propria sede alla vecchia Casa del Fascio, nell’ex chiesa e convento di San Francesco; lì dove, tra l’altro, sarà raccolto tutto il materiale bellico rastrellato nei giorni successivi alla liberazione. La Gnr, infine, trova casa presso la ex mutua, tra via Trento e piazza Campanone.

Uno sguardo specifico lo merita la mobilitazione tentata dal nuovo fascismo presso i più giovani. All’indomani della creazione formale della Repubblica sociale italiana, tra novembre e dicembre, è ricostituita l’Opera Nazionale Balilla, sempre sotto la guida di Renato Ricci, simultaneamente alla guida della Guardia nazionale repubblicana. Nel comune di Guastalla si ha notizia della costituzione di alcuni reparti presso le scuole di Guastalla; contestualmente viene organizzata una mensa, sempre presso le scuole, rivolta a Balilla e Avanguardisti. In assenza di un progetto politico-organizzativo ben identificabile, sono in realtà queste le iniziative che si fanno tramandare presso i nostri testimoni: per i

figli delle famiglie più povere, sotto ogni bandiera, la prospettiva di poter mettere sotto i denti un pasto sicuro, per quanto gramo, soprattutto nei giorni invernali, rappresenta qualcosa di memorabile.

Nel febbraio-marzo del 1944, approfittando dell’afflusso di un minimo numero di adolescenti, prende corpo la formazione delle Fiamme bianche, di fatto una struttura armata di ragazzini aggregata alla Brigata nera. Per questi adolescenti, solo in parte guastallesi, inizia un addestramento speciale. Sono inquadrati in un reparto di Avanguardisti moschettieri, nella prospettiva esplicita - per quanto appaia oggi agghiacciante - di essere impiegati nella guerra civile. Ciò che prima dell’estate ’43 appariva come folclore di regime - le parate a passo romano e braccio destro levato al Duce, le adunate ginniche, i canti cadenzati per le strade – assume ora un significato del tutto sinistro. Questi ragazzi di 15, 16, 17 anni sono dotati di un moschetto vero, al posto di quello di legno in uso nel decennio precedente; l’addestramento all’uso delle armi è organico all’organizzazione della Guardia nazionale repubblicana. Alla fine di maggio, per chi non se la svigna prima, li attende un campo d’addestramento a Velo d’Astico, nelle Prealpi vicentine (mentre il progetto iniziale era di mandarli in Germania, una prospettiva poi evitata per evitare maggiori defezioni). Quindi, dall’estate, questi soldati-ragazzini saranno dispersi in varie parti dell’Italia settentrionale, di rincalzo alle Brigate nere nelle operazioni militari di antiguerriglia, od utilizzati nella contraerea (dove c’era).

La Todt, sotto il comando della Wehrmacht

La Wehrmacht riesce ad entrare in qualche modo nel respiro della città soltanto con la trasformazione del San Carlo in caserma dell’organizzazione Todt. Ciò si collega, peraltro, alla rinuncia definitiva a ricostituire l’esercito da parte della Rsi. Al San Carlo sono così convogliati tutti i civili maschi che sono validi e non hanno altri ruoli lavorativi indispensabili nella produzione e nei servizi. La centralità geografica e simbolica assunta dal San Carlo avrà un preciso riscontro nella scelta dei partigiani guastallesi di spingersi dalle campagne “amiche” sin dentro alla città per operare un ardito disarmo dei sorveglianti tedeschi, il 26 settembre 1944. Contemporaneamente, va detto, viene disarmato per ben due volte - a maggio e a settembre - il presidio Gnr di S. Rocco.

Nella Todt si è impiegati – ma si tratta di un servizio obbligatorio – nella costruzione di fortificazioni difensive e nella riparazione delle vie di comunicazione bombardate dagli anglo-americani o sabotate dai partigiani. Dall’ottobre 1944, ricorda sempre Franzini, da parte nazista si sviluppa una forte pressione sul sindacato fascista per fiancheggiare il reclutamento della mano d’opera maschile dai 16 ai 60 anni. Tale forma d’ingaggio risponde organicamente ad un’economia di guerra che non va sottovalutata. Da un lato, consente alla Wehrmacht di ricollocare un certo numero di giovani e uomini in genere entro la cornice dello sforzo bellico; dall’altro, genera una pur minima forma di legame assistenziale, assegnando a questi lavoratori una risibile retribuzione e ridotandoli della tessera alimentare (di cui da renitenti alla leva e disertori risultano privati, aggravando le difficoltà delle rispettive famiglie). Non ultimo, agendo su tali leve la Wehrmacht tenta di arginare - specie nei confronti dei più giovani - la tentazione di darsi alla clandestinità, una condizione che tracima facilmente nella scelta esplicita della Resistenza.

Va anche detto che, di fatto, i lavoratori della Todt - malamente sorvegliati da anziani gendarmi tedeschi o austriaci - diventeranno una massa collaterale alla Resistenza, dedita al sistematico sabotaggio notturno di quanto si sarebbe dovuto costruire di giorno. Per decenni, a Guastalla come altrove, è rimasta viva l’espressione pittoresca “al par n’uperai dla Tot” [sembra un operaio della Todt], per indicare un lavativo capace di procurare più danno che utile a chi lo impiega. Cosa abbiano poi fatto (e complottato) i dipendenti della Todt lungo il Po è stato ricostruito con cura da Paola Calestani per Boretto; ma già nel 1946 ce ne ha lasciato memoria dettagliata (per la sponda di Dosolo) Giannetto Bongiovanni, autore del romanzo autobiografico Cartolina verde.[4]

L’esercito scomparso (italiano)

Nei Comuni i commissari prefettizi sono chiamati a garantire quanto restava dell’amministrazione pubblica fascista, con un mandato preciso: assicurare, in raccordo con i comandi militari degli occupanti, le corvée di massa richieste alla popolazione. Sull’esigue economia locale cade la mannaia della requisizione, dall’incetta e trasporto oltre il Po del bestiame (bovino, suino, ovino ed equino), alla dotazione di viveri per le caserme, allo sgombero di edifici per attrezzare uffici e dormitori per i reparti della

Wehrmacht. Si giungerà, ad un certo punto, a “consigliare” la popolazione rivierasca al Po di allontanarsi almeno per una decina di chilometri dal fiume.

Il sostegno allo sforzo bellico nazifascista include dirette responsabilità nella cogestione della popolazione. Si precettano, ad esempio, guardiani notturni per salvaguardare dai sabotaggi i cavi telegrafici e telefonici, pena subire ulteriori provvedimenti punitivi da parte tedesca. La conclamata inefficienza nelle misure di vigilanza notturna (affidata a padri di famiglia) causerà ai Municipi di Guastalla e Novellara - come documentano Rolando Cavandoli e Pietro Pirondini - una tassa straordinaria a favore dell’esercito invasore.[5] Anche i tentativi di avviare un corpo militare di genieri, da adibire sempre all’apprestamento di fortificazioni e fossati anticarro, finiscono presto frustrati, parte per la disorganizzazione e soprattutto per l’incessante azione d’intralcio messa in opera dalle reclute, ostiche ad ogni forma di collaborazione.

Guerrino Franzini ha ricostruito in una memoria personale il fallimento del tentativo di riorganizzare un esercito al servizio della Wehrmacht. Guastallese per nascita, aveva frequentato il collegio degli Artigianelli a Reggio Emilia, uscendone come operaio tipografo; entrato nell’organizzazione comunista clandestina al momento del “cambio di regime”, il Pci lo rinvia nella sua città d’origine infiltrandolo nelle strutture militari per farvi occulta agitazione antifascista tra la truppa, giovandosi dei gradi da sergente. In quel frangente, Franzini rimane sorpreso dallo “spirito pubblico” ribelle alla Rsi che serpeggia tra i giovani, costretti alla divisa solo dietro minaccia di fucilazione e deportazione.[6]

Presentandomi a Guastalla, ero spontaneamente predisposto a svolgere questo tipo di discorso, naturalmente con la dovuta prudenza e a quei giovani che, a mio giudizio, potevano utilmente ascoltarlo. Sennonché, con mia grande meraviglia, mi trovai subito immerso in un ambiente quasi interamente ostile al fascismo. Non solo qualsiasi opera di convinzione sarebbe stata inutile, ma io avevo tutto da imparare. Le assenze arbitrarie erano all’ordine del giorno e quindi vi era una generale predisposizione a disertare. Tema quotidiano delle discussioni tra i soldati e i sottufficiali, era il modo di sottrarsi alla sorte riservata a quella particolare unità militare, il cui compito era quello di addestrare la truppa a scavare postazioni per armi di vario tipo. Questo compito di sterratori, i soldati avrebbero poi dovuto svolgerlo presso Anzio (cioè in zona di guerra) ove i tedeschi erano impegnatissimi nell’opera di contenimento della testa di ponte alleata. Seppi che altri due battaglioni, preparati in precedenza, si erano disciolti prima di giungere sul luogo d’impiego, e che prima di partire i soldati erano stati costretti a giurare di fronte ai mitragliatori puntati dei tedeschi. Gli ufficiali, conoscendo evidentemente questi fatti, non dotavano la truppa di nessuna

arma. I soli fucili che vidi durante i circa venti giorni di permanenza a Guastalla erano quelli delle ronde, ma erano privi di munizioni. Solo gli ufficiali avevano la pistola. Tutta la fase preparatoria del battaglione, si svolgeva sotto la sorveglianza (a volte discreta a volte meno) dei tedeschi, ai quali evidentemente interessavano questi uomini armati soltanto di attrezzi, che essi avrebbero dovuto impiegare, praticamente in prima linea. Una posizione rischiosa e assai scomoda che non sfuggiva alle reclute e che certo costituiva uno dei motivi del loro profondo disagio e del loro spirito di ribellione.

Guastalla mostra ai neofascisti la propria ostilità, ancor più che ai tedeschi. Sono i documenti di polizia (della stessa Rsi) a mostrarlo.

Il 14 marzo del 1944, di ritorno da una esercitazione di marcia a Gualtieri, le reclute diciottenni della 130ª brigata genieri intonano al Baccanello Bandiera rossa, incuranti del posto di blocco della Gnr a guardia del ponte.[7] Denunciati, in quattro ammettono di avere cantato e sono deferiti al tribunale di guerra. Solo cinque giorni dopo - ricordiamoci della congiuntura: siamo nel vivo degli scioperi operai - i carabinieri di Guastalla segnalano ai comandi di presidio che ben 19 giovani in abiti borghesi hanno ripetuto il canto proibito sulla corriera da Reggio a Reggiolo.[8] Ma non si tratta di renitenti alla leva, bensì di reclute formalmente in servizio militare presso il 41° Deposito misto provinciale. Circostanza, questa, che rende verosimile l’ipotesi di un arruolamento fittizio, utile ad evitare reali incombenze sui fronti di guerra, ma anche la pena opposta di vivere braccati perché latitanti. Il medesimo comandante del deposito mostra di optare per un atteggiamento più liquidatorio che persecutorio. Comunica ai propri superiori che la denuncia “apparve subito troppo generica per stabilire una responsabilità individuale fra chi aveva cantato e chi no”; commina una settimana di carcere ai soldati “per l’allontanamento arbitrario”; quindi se ne sbarazza rapidamente affinché non si propaghi il “contagio” al resto della truppa, inserendoli in un battaglione che viene trasferito in Piemonte.

Le tre compagnie in loco presentano una curiosa composizione. L’una ha una rilevanza di giovani reclute mantovane, l’altra concentra “romani” e giovani dell’Italia centro-meridionale, mentre la terza è fatta tutta di sergenti, per lo più veterani di guerra sfuggiti alle retate tedesche del settembre 1943, pertanto è difficile da comandare per i giovani ufficiali inesperti.

[Alceste, 1920] ricorda esercitazioni compiute solitamente senza armi, più simili a passeggiate che a prove di guerra, tanto che il sergente Dino Felisetti - allora studente in giurisprudenza, in seguito avvocato e deputato del Psi - si porta appresso un libro per

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