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Narrando un’altra fabula

Nel documento Guastalla in chiaroscuro (pagine 117-121)

[Arnaldo, 1900] interpellato da Marco sull’eventuale “cambio di passo” nei divertimenti popolari, in coincidenza dell’entrata in guerra, risponde in modo sorprendente, evocando una manifestazione di piazza tutta al femminile, poi sfociata - esito quanto mai paradossale - in un pranzo all’aperto tra donne e militari.

C’è stata una cosa importante, molto importante, della quale non si è mai parlato a Guastalla: lo sciopero delle donne, che son venute – mi ricordo bene, è vero -, son venute tutte le mondine, tutte le donne che lavoravano in campagna, c’è stato anche una manifestazione importantissima, che è venuto giù anche della truppa, è vero, comandata da un commissario. E po’ dopo i gh’an dè [le hanno picchiate]… Non so chi l’abbia organizzata, ma hanno organizzato una specie di pranzo, hanno organizzato, e allora le donne sono andate a mangiare e tutto è finito lì, con le operaie […].

Durante la guerra: c’è stata una dimostrazione delle donne, che volevano a casa… i figli.

[Marco] E l’han risolta facendo un pranzo?

Una gran mangiata e buna not [buona notte]! Anzi, c’era una cosa interessante: che a un certo momento le donne avevan fatto… s’erano… perché il commissario li mandava contro le donne, e invece, c’è stato una specie di affratellamento tra soldati e le dimostranti. Poi è andato a finire tutto così, perché a Guastàla… com as dis [come si dice], non c’è quella carica. Non so mica perché nessuno ne abbia mai parlato di questa cosa. Che è stata una cosa interessante! Mi ricordo il corteo che han fatto, li doni [le donne] a Guastàla: “Vogliamo a casa i figli! Vogliamo a casa i figli! Vogliamo a casa i mariti!”. C’era il commissario, puvrètt [poveretto], che aveva una bombetta in testa, era tutto sudato. [Arnaldo, 1900]

Le circostanze di quell’episodio sono talmente anomale per il periodo fascista, e non documentate da nessun’altra fonte o testimone, da farci sorgere qualche dubbio sulla loro verità fattuale. Probabile - data la presenza di tre soli soggetti: popolane, soldati e commissario di polizia, senza alcun cenno ai fascisti - che ci si riferisca a un episodio di protesta avvenuto nell’estate 1943, durante i “45 giorni di Badoglio”, in cui Arnaldo, con l’adesione alla rete cospirativa comunista, riprende ad assolvere nella piazza guastallese un ruolo sul piano politico, oltre che nell’ambito artistico-culturale.

Ma siamo per l’appunto nella sfera della storia orale, dove la verità storica coincide con la rappresentazione del mondo messa in scena dal soggetto narrante; in questo caso, un soggetto particolarmente anziano, con una spiccata vivacità narrativa, la cui memoria tuttavia cominciava ad essere piuttosto labile a causa dell’età avanzata. Occorre approcciarsi al racconto di memoria come si fa per ogni fonte. In primo luogo, interpretando il documento entro il contesto delle relazioni sociali in cui si è prodotto. Quindi, decostruendone la grammatica, talché qualunque documento si genera e vive come testo. Infine, assolvendo al compito precipuo dello storico, che è quello di attrezzarsi

per restituire nella contemporaneità (la semantica del proprio tempo) ogni testimonianza di un mondo trapassato o comunque altrimenti codificato.

Proviamo allora ad intendere che cosa Arnaldo abbia voluto rappresentare, con questo racconto aneddotico che, nelle intenzioni del narratore, vorrebbe essere tutt’altro: testimonianza di un episodio ingiustamente dimenticato. In primo luogo, ci sta dicendo che la guerra rappresentò una discontinuità sostanziale nella vita quotidiana. La manifestazione delle donne costituisce una rottura dell’ordine precedente, fondato su di una distinzione per luoghi e compiti tra i generi. Sono mondine, operaie: donne che lavorano, dunque già abituate a costeggiare, se non ancora a traversare, uno spazio pubblico. Ma ora, anche se rivendicando una loro tradizionale potestà sulla famiglia, amputata dei mariti e dei figli spediti in guerra, si spingono dentro la piazza della città. Sconvolgono un equilibrio sociale. Al punto che gli uomini, tentata ma poi scartata per manifesta inefficacia la soluzione repressiva, provano a ristabilire l’equilibrio alla maniera di un carnevale: spogliandosi per un attimo della propria divisa. La tavola addobbata in piazza per le donne celebra così una ricomposizione di genere, mentre salva (Arnaldo usa il termine “affratellamento”) l’unità della nazione in guerra.

[Umberto 1933] a differenza di Arnaldo impatta la guerra da ragazzino, ma registra ugualmente la novità delle donne che scendono in piazza. Anche in questo caso, ci si preoccupa immediatamente di ricondurre quel gesto ai codici noti: le donne, quelle della popolarissima Strada Longa, chiedono un bene primario per il desco familiare (il sale), tuttavia lo fanno perché teleguidate dagli uomini (il Comitato di liberazione nazionale, in un’epoca che vede le donne ancora escluse dalla rappresentanza politica).

Tanto per dire, una delle azioni compiute durante la Resistenza, molto più eclatante, fu la manifestazione per il sale, delle donne del rione che sta tra via S. Ferdinando, via Mentana, l’odierna Piazza Primo Maggio, allora Piasóla. Una dimostrazione organizzata dal Comitato di Liberazione di Guastalla, che si riuniva nella casa di tolleranza.

Sono quattro righe ma testimoniano con rara efficacia di una filosofia sociale. Tra fascismo e antifascismo, ci sta dicendo Umberto, la discontinuità è giocata sulla soglia ideologica, non ancora (per quello bisogna attendere il femminismo e il ‘68) antropologica. Gli antifascisti vi sono rappresentati per intero entro il campo semantico maschile, sino ad

accogliere di buon grado la circostanza di riunirsi - contro ogni remora rivoluzionaria e anche sfidando le regole del lavoro clandestino - in uno di templi riconosciuti (la casa di tolleranza) dell’ordine costituito. Un ordine, per la verità, che in sé sembra interessare poco Umberto - ne fanno fede le cronache appassionate di Guastalla stese nella propria carriera di giornalista e scrittore -, piuttosto funge da specchio in cui poter trattenere il riflesso del mondo che lo crebbe.

Il riferimento medesimo alla Piasóla appartiene ai codici di una generazione guastallese che ha inteso riconoscervi il luogo simbolico di una città tanto compresa della propria fondazione ducale quanto disposta a una visione scanzonata delle cose del mondo, sino a rischiare la propria parodia. Umberto, Udo, Nullo, Sergio, Professore e altri tra i nostri testimoni maschi raccontano quel luogo popolarissimo come il crocevia culturale tra mondi sociali altrimenti distanti, il ventre-crogiuolo dove si miscelano l’alto e il basso della città.

Nel documento Guastalla in chiaroscuro (pagine 117-121)