• Non ci sono risultati.

Na calda, ‘na fréda

Nel documento Guastalla in chiaroscuro (pagine 77-82)

Il piacere per il racconto paradossale, che caratterizza con forza la cultura maschile guastallese, si valorizza ai massimi livelli nei racconti sulla seconda guerra mondiale, combattuta da parte di giovani partiti militari per paesi lontani e regolarmente sconfitti su tutti i fronti. È probabile che, partendo, non mancasse loro l’atteggiamento baldanzoso dei giovani conquistatori, che si sentivano guerrieri di quella che la propaganda presentava come una grande potenza. Oggi l’età dei più anziani tra i testimoni non permette comparazioni con lo spirito di altri soldati che negli anni precedenti avevano combattuto le altre guerre fasciste in Etiopia e Spagna: esperienze belliche poco brillanti, ma terminate con quelle che vennero presentate alla gente come vittorie, sebbene poi non sembrino avere lasciato tracce ben individuabili nella memoria collettiva. Per i soldati avviati alla guerra nel giugno 1940, l’atteggiamento disincantato rispetto alla serietà ed efficienza di quella macchina bellica deve aver preso lentamente, ma in modo deciso, il sopravvento

sulle illusioni riguardanti la superiorità militare degli italiani, lasciando tutto lo spazio a un sarcasmo dissacrante nel rendere conto del funzionamento della macchina militare nazionale.

Costruito nel corso di una lunga guerra di logoramento, disastrosa su tutti i fronti per le forze armate italiane, da loro esce una sorta di epopea del disfattismo, da contrapporre alle velleità megalomani da impero straccione, che costituivano il sistema di valori fascisti con cui diverse classi di soldati erano state avviate alla guerra, dopo quasi un ventennio di indottrinamento alla vocazione di una superiore civiltà italiana a dominare i popoli mediterranei. Questi racconti posteriori al ritorno a casa divennero l’antidoto spontaneo all’ideologia razzista dell’Impero mussoliniano, causa della peggiore catastrofe nazionale. Poche sono però le fonti che abbiamo raccolto per costruire un’analisi delle narrazioni dei soldati al fronte in luoghi lontani da Guastalla e che, del resto, non risultano particolarmente anomali rispetto alle tendenze della memoria dei combattenti in quella guerra.

Soffermiamoci sopra uno di questi racconti autobiografici - Na calda e na fréda, di Nello Aldrovandi – da cui estraiamo alcuni episodi.[1]

Nello narra, tra gli altri, dell’arrivo in Sicilia - recluta diciannovenne - due mesi prima dello sbarco anglo-americano. Finiranno travolti dalla superiorità avversaria, senza neppure aver modo di combattere. Una circostanza che diviene qui luogo letterario: la rappresentazione antieroica del soldato italiano, inviato sul fronte in strutture militari disorganizzate e con armamenti inadeguati. Per quanto proveniente da famiglia di militanti del Pnf, l’antiretorica risulta così - almeno a distanza di tempo - il modo di descriversi, impotente, in una mancata battaglia in difesa del suolo nazionale. Il sito medesimo dello scontro scomoda l’epica nazionale: il colle di Calatafimi, dove però -constatata la capacità dell’aviazione e dell’artiglieria statunitensi di farli a pezzi prima di qualsiasi contatto con le forze di terra - al Regio Esercito divenne penosamente impossibile ripetere le vittoriose gesta leggendarie delle pur improvvisate bande guerrigliere di Garibaldi. Le colonne corazzate di Clark, posizionate a grande distanza, concluderanno rapidamente il loro accerchiamento.

Una notte arrivò l’ordine di prepararci e con esso il primo impulso di liberarmi del moschetto, ma il mio proposito fu vanificato dal successivo ordine di lasciare

tutto nelle tende e munirci di bastoni. Tra l’apprensione e mille pensieri funesti, ironicamente mi ricordai di Don Chisciotte. [...] Spezzoni lanciati da chissà chi, avevano provocato incendi sparsi nella sterpaglia e nostro compito era quello di spegnerli a randellate. Primo battezzo col fuoco, unica occasione che mi venne offerta per mostrare il mio valore di soldato, il resto fu odissea. Dal fondo della mente rimbalza ancora quel tumulto di paura misto ad ironia d’una guerra combattuta lontano dai campi di battaglia. Trascorse ancora qualche giorno, poi l’ordine definitivo della resa.

Un secondo episodio concerne il “razionamento”.

Siamo tra il 1942 e il 1943. La guerra va male, la popolazione è sempre più affamata. Comincia a filtrare la nuova parola d’ordine della propaganda clandestina comunista: sottrarre i prodotti agricoli agli ammassi annonari, evitare di farli arrivare sin nelle mani dei tedeschi. In tale clima, Nello - giovane garzone da muratore semi-disoccupato e pagato con una cazzolata sul sedere - vede rapidamente sfumare la credibilità dei valori nei quali era stato cresciuto, in una famiglia proletaria militante del Pnf. Fa così il verso al proprio contesto, presentando la caccia alle rane e la raccolta furtiva di legna - mentre si svaga vagabondando tra le valli di bonifica attorno a casa - come “le mie prime partecipazioni alla guerra”.

Nella mia giovanile incoscienza non potevo rendermi conto della drammaticità di quei fatti che si susseguivano ogni giorno più cruenti, ma la tristezza che leggevo sui volti della gente, i patimenti materiali e spirituali che mi stavano attorno, quella povertà divenuta stato permanente dell’anima, ebbero il potere di coinvolgermi e ben presto, forse troppo presto, trovarono la mia partecipazione. [...] Gli episodi amari di quel periodo erano molteplici, quasi sempre rivolti a soddisfare la fame del corpo, ma da quelle facce dove usciva solo il rilievo delle ossa, m’accorgevo che era assente la speranza. I tempi della carta annonaria, la tessera che dava diritto a cento grammi di pane al giorno per ogni componente la famiglia, era la benedizione che durava un’alba, poi di nuovo la fame prepotente che spingeva ad arrangiarsi nei modi e nelle forme più o meno lecite. [...] La desolazione mia era grande durante le giornate invernali quando si distribuiva il rancio statale. Lunghe teorie di ciclisti sospinti da lente e fiacche pedalate - del resto la denutrizione non permetteva di fare di più - code di uomini avvolti nel tabarro per riparare le mani dal gelo e gl’occhi carichi d’umiliazione, la pentola non aveva scampo, penzolava in bella evidenza dal manubrio come fama degenerata che la gente cercava di tacitare con quella brodaglia che le autorità d’allora dispensavano per i più indigenti tra i poveri.

Quell’elemosina fatta senza carità aveva assunto popolarmente il nome di sgagiòna, termine dalle origini ignote come erano ignoti gli ingredienti che la componevano.

Si può immaginare che sgagióna derivi dal termine dialettale sgàgg, ovvero essere lesto, fare le cose lestamente [cfr. anche il cap. 8]; come quella minestra di guerra, troppo liquida e inconsistente per fermarsi nel povero stomaco affamato… Tra quelli in fila per la sgagióna di guerra - è la seconda osservazione da farsi - in realtà non abbondavano certo né i tabarri né le biciclette, i quali erano oggetti denotanti una povertà almeno dignitosa.

Con sarcasmo, Aldrovandi racconta di un paese dove pure i servizi - la cui moderna efficienza era stata incessantemente decantata dal regime - vanno presto e irrimediabilmente in blocco, mostrando a tutti la povertà sconsolante di ciò che la propaganda presenta come l’utopica società futurista e l’egemonica potenza militare mediterranea.

A quei tempi nulla funzionava, dai pubblici uffici alle poste, solo i bollettini di guerra arrivavano puntuali ad informarci sulle avanzate delle nostre truppe dislocate sui vari fronti. L’ufficio postale era letteralmente preso d’assalto da parte dei familiari dei militari, in attesa di notizie che non arrivavano mai. La mia prima lettera arrivò dopo ben sette mesi dalla partenza e mia sorella la sventolò tra le mani come un certificato di esistenza in vita, ma che dagli avvenimenti successivi nel frattempo poteva essere un attestato di morte.

Con il definitivo tracollo degli apparati militari e civili, nella primavera-estate del 1943, appare a tutti che la fine di Mussolini - prima ancora che il re lo faccia arrestare, e diversi mesi prima che i carri armati tedeschi rimettano il suo fantasma a capo di un governo senza amministrazione, con sede a Salò, in prossimità dei confini tedesco e svizzero - è imminente. Gli atti di aperta protesta, impensabili un tempo per la paura delle polizie, diventano frequenti. Notissimi sono gli scioperi operai fermentati tra le fabbriche metallurgiche del triangolo industriale nella primavera del 1943. Tra questi, largamente trascurato dalla storiografia, c’è lo sciopero alle trancerie Mossina, del quale ci è giunta memoria attraverso le pagine di Alfredo Gianolio.[2]

Un’operaia esasperata si mise a gridare in stabilimento: con un etto e mezzo di pane al giorno non si può lavorare! Cercarono di calmarla, ma quella gridava sempre più forte, aggiungendo anche parole non proprio rispettose verso le autorità del tempo. Allora intervennero le guardie e la portarono a Reggio. Noi rimanemmo molto colpite dall’accaduto, e davamo ragione in cuor nostro alla compagna, stando anche in pensiero per lei. Si formò quindi una commissione di una decina di operaie che andò in municipio dal podestà per chiedere che venisse rilasciata e per protestare per il pane. Ma la delegazione venne minacciata e messa contro il muro con le mani alzate. L’8 marzo tutte le operaie, indignate, non si presentarono in fabbrica.

La voce narrante dell’episodio è l’operaia Iolanda Chierici, principale riferimento del Partito comunista in fabbrica. Il riferimento all’otto di marzo, in realtà, sembra richiamare piuttosto le proteste organizzate tra le donne (sempre dal Pci) contro la penuria alimentare. Le grandi agitazioni nelle fabbriche torinesi, peraltro, sono posteriori di qualche giorno. Anche i protagonisti della repressione non sono messi bene a fuoco: le “guardie” stanno forse per i fascisti, mentre in quelle occasioni - siamo prima dell’8 settembre 1943 - erano piuttosto i soldati, come ricorda la stessa [Alfa, 1922] nella sua testimonianza.

Ad ogni buon conto, memorie come quella di Nello e di Jolanda - proprio perché provenienti da culture politiche differenziate, come diverso è il punto di vista di genere - ci restituiscono la netta percezione di un apparato fascista in via di dissoluzione. Una crisi storica destinata ad investire, non è banale ricordarlo - che fu guerra non solo mondiale nelle geografie, ma totale nella sua dimensione di scontro fra civiltà -, ogni remoto cantone d’Italia, compresa la nostra “piccola città” in guerra.

Note al capitolo

1. Nello Aldrovandi, Na calda e na fréda, Mantova, Tip. Alce, 1990.

2. Alfredo Gianolio, Fascismo e classe operaia a Reggio Emilia (1920-1945), in Aspetti e momenti della Resistenza Reggiana, Amm.ne Provinciale di Reggio Emilia, Tecnostampa cfr. pp. 159-160.

Nel documento Guastalla in chiaroscuro (pagine 77-82)