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Eppur si muove: Guastalla mette radici industriali

Nel documento Guastalla in chiaroscuro (pagine 60-77)

Operaie in città: il tempo “dli Musinéri”

[Alfa, 1922] entra bambina alle trancerie “Mossina”, una delle fabbriche che negli anni Trenta partecipano dell’espansione economica alimentata dalla macchina bellica fascista. Il legno di pioppo utilizzato in precedenza per fabbricare gli imballaggi di frutta viene ora riconvertito per cassette di munizioni, armi e proiettili d’artiglieria. Molti giovani di campagna colgono l’occasione per emanciparsi dal mestiere di biolco dei genitori; allo stesso tempo, si ritrovano presi nella sfera d’influenza del nuovo ordine fascista. Il gustoso aneddoto narrato da Alfa – quando la madre mette mano al tessuto destinato alla divisa fascista per “convertirlo” in sottoveste - si può ben leggere come la testimonianza di una refrattarietà popolare a farsi inquadrare nei ranghi.

A tredici anni e mezzo ci sono andata. Non avevo ancora l’età, ma mi hanno preso lo stesso, perché mia madre, poveretta, l’è sta al pröm stipendi ch’a iò purtà a cà [è stato il primo stipendio che ho portato a casa] , a iò purtà a cà dü franc e mes [ho portato a casa due lire e mezzo], due, due e mezzo!

Cuminciava a gnir na ragaseta [Cominciavo a diventare una ragazzetta], sono andata alla Mossina e ho lavorato sei mesi senza libretto, perché allora ti prendevano dentro, basta ch’at föss stada [che tu fossi stata]…

[…] E niente, senza libretto e poi ho lavorato: ho fatto ventitre anni in fabbrica, però mi son stati conteggiati solo diciassette, perché in tempo di guerra i contributi in i a mia mandà so: gh’è sta tanti robi, che [non me li hanno mandati su: ci sono state tante cose, che]… Io lavoravo alla Mossina, mia mamma non aveva la possibilità di comprarmi una divisa, alla Mossina la volevano insomma, quando facevano lo... sport. Ci metteva a tutte – cercava tutte le belle ragazze – dei bei maglioni, con “Trancerie Mossina” davanti, in bicicletta facevamo proprio la nostra figura... Andavamo a Mantova, siamo andate a Modena, sempre in bicicletta. Poi facevamo il salto in lungo, le staffette, a gh’era tót un tràfic che chisà [c’era tutta un’attività che chissà]. Però eravamo quasi tutti compagni, insomma, contro al padrone, perché quando ci diceva qualche cosa: “Mi raccomando la divisa!”. Ma io la divisa non potevo comperarmela, ci voleva la sottana nera e la camicetta bianca, da Giovane Italiana, allora succede che io non ce l’ho, mia madre non aveva la possibilità di prendermela, e niente, me l’ha fatta avere la ditta, che era di un fascista di Guastalla. Sono andata là a

prenderla, sul libro ci aveva scritto di dargliela “perché è una bella ragazza e sta bene nei ranghi”. Ha capito che cosa aveva? Allora mia madre, puvrèta – cl’era puvrèta cme chisà – invece ad farum la divisa la m’a fàt du sòtvésta [poveretta – che era poveretta come chissà – invece di farmi la divisa mi ha fatto due sottoveste]. Eh! Allora anche lì, l’insgnèr, quànd al m’a vést [l’ingegnere, quando mi ha visto] – l’ingegner Mossina – che non avevo più la divisa addosso, a comincià a tirarum so [ha cominciato a tirarmi giù]...

[Cesira, 1922] Dopo la guerra gestirà sempre la cooperativa-casa del popolo di Guastalla. Ma anche per lei l’emancipazione personale e politica passa dalla fabbrica, dove entra ragazza.

Me s’era in cuperasion [Io ero in cooperazione]. Mo’ prima dla guera, lavurava da Musìn, e anca lè da Musìn, quand a gh’era [prima della guerra, lavoravo da Mossina, e anche lì da Mossina, quando c’era] sciopero, gh’era sciopero! A gh’era i capurai ch’i gneva töti [C’erano i caporali che entravano tutti], ma i operai...

[…] Al prim sciopero, a l’om fat prima dla guera, an so mia in che campo, però a gh’era quel ch’a n’andava mia, parché me gh’ava an capural… ch’l’è mort, Veronesi, al dgeva: “Beh, che sciopero e sciopar!”. A gh’o det:”«Veh, s’a s’ciapa gninto, gh’è da far sciopero, parché bisogna ch’i’s daga quel, al padron”, ch’l’era po’ Musìn. Però anca al sciopero al gneva mes: coi ch’andava dentar, chi a stava föra. Me e l’Alfa, me cügnada, cercavum da tgnirli föra, ma cli là, cli [*teroni??] lè, i’andava dentar. A dzeva: “Ma püteli, a gh’iv da pensar: as ciapa mia di besi!”. At se, alura la crisi la gh’era.

[Il primo sciopero, l’abbiamo fatto prima della guerra, non so mica in che campo, però c’era qualcosa che non andava, perché io avevo un caporale… che è morto, Veronesi, che diceva: “Beh, che sciopero e sciopero!”. Gli ho detto: “Veh, non si prende niente, c’è da far sciopero, perché bisogna che ci dia qualcosa, il padrone”, che era poi Mossina. Però anche lo sciopero, riusciva a mezzo: chi andava dentro, chi stava fuori. Io e l’Alfa, mia cognata, cercavamo di tenerli fuori, ma quelle là, quelle “terrone” [termine notoriamente utilizzato come stigma nei confronti di chi proviene dal Mezzogiorno e qui trasposto per stigmatizzare le donne che facevano crumiraggio] lì, andavano dentro. Le dicevo: “Ma ragazze, dovete pensarci: non si prendono soldi!”.,

[Marco] A Guastala, as cnusevli coli ch’a lavurava da Musìn? La gent capivla ch’a sieruv coli ch’a lavurava da Musìn? [A Guastalla, si riconoscevano quelle che lavoravano da Mossina? La gente capiva che eravate quelle che lavoravano da Mossina?]

Sa n’o fat, me da Musìn! Veh, quand a s’era stöfa ad lavurar a m’andava a lugar d’ad dre da li péli. La ma dzeva la Narda, parché a s’era la sö garsona, i ma dzeva: “Ma indu set andada?” -“A sun andàda al cesso”. Parché vön al sa stofa, parché quatr uri, oh, quatr uri li n’è mia pochi, eh?! Ma alura te t’a gh’andav... e po’ me ch’a ciapava poc, e dopo me i a spendeva, un po’; e l’am dzeva, me madar: “Li metti a posto anche lì…?”. At se, la parlava un po’ mantuana. “Mo mamma, l’è prest, i m’a da’ n’acünt”. Invece i ava bele spes. A vreva andar al

cinema, ma i’m dava mia i sold, a fava par töti dü... A gh’era ché al Gunsaga, al cinema Roma, e al Teatrino. A gh’andava me, anca al Teatrin.

[Se ne ho fatta, io da Mossina! Veh, quando ero stanca di lavorare mi andavo a nascondere di dietro alle cataste. Mi diceva Narda, perché ero la sua garzona, mi diceva: “Ma dove sei andata?” – “Sono andata al cesso”. Perché uno si stanca, perché quattr’ore, oh, quattro ore non sono poche, eh?! Ma allora ci andavi… e poi io che prendevo poco, e dopo li spendevo, un po’; e mi diceva, mia madre: “Li metti a posto anche lì…?”. Sai, parlava un po’ alla mantovana. “Mo’mamma, è presto, mi hanno dato un acconto”. Invece li avevo già spesi. Volevo andare al cinema, ma non mi dava i soldi, facevo per tutte e due… C’erano qui il Gonzaga, il cinema Roma, e il Teatrino. Io ci andavo, anche al Teatrino.]

[Enzo, 1924] scopre ugualmente la nuova attrattiva del cinema grazie allo zio che era già andato a stare in città.

Che mi ricordo la prima volta che sono andato al cinema, son andato al cinema con un mio zio, Rossi, che poi è andato nelle Brigate Nere, va beh… Siam andati al cinema Gonzaga, in galleria, non c’era la scala! Mi ricordo, non c’era molta distanza: la galleria, al Gonzaga, era poco più su della platea. M’ha tirato su mio zio. Dopo avranno fatto la scala, non lo so. Allora non c’era la scala: m’han tirato su. Avrò avuto sette otto anni.

[Tina, 1929] stava al Baccanello e guardava con occhi luccicanti verso la città come al posto in cui “c’era tutto!”. Ma l’accesso ai divertimenti urbani aveva un costo per lei proibitivo, si doveva ricorrere a qualche sotterfugio, praticato con l’ingenua spregiudicatezza della ragazza del sobborgo povero. Per fortuna, passata la guerra, le campagne cominciano ad organizzare i propri “festival”, dove sono i balli allacciati, sinonimo di una libera fisicità, a far la parte del leone.

Ero di un’ingenuità, non avevo mai provato niente a Guastalla! E non andavo al cinema perché non ci avevo i soldi, non me ne davan di soldi! Perché quando c’era la guerra, la nonna i soldi non ce li aveva, e io andavo davanti al cinema, sentivo parlare, ma non potevo entrare. Andavi dentro, lì nell’atrio, dove c’è i biglietti, dall’ultimo cinema là, dal Palasón [Palazzone, il Palazzo Ducale]… Quello lì potevi andare, poi c’erano sempre dei miei amici che andavano da dietro. Ci sono andata una volta o due, che c’era un mio amico, che sai che c’era quelle tende, mi faceva entrare lì nascosta dietro le tende; ma in ultimo, però, eh, non quando c’era l’entrata. E sono andata una volta o due al Roma, in Piazza Roma, ah ma lì è sofisticato, era perché avevo un ragazzino, m’ha pagato lui, eh! E anche a teatro, quando facevano quelle belle feste lì, di

Carnevale e così, ci andavo perché pagava sempre l’uomo: una donna non pagava mai da nessuna parte.

Però era molto bello, finita la guerra, mi piaceva tanto, dopo avevano messo su i festival! Ecco, lì al Baccanello, che c’era un bello spazio, lì, le fiere, le sagre, le feste da ballo… Il festival era come un capannone, un… tendone da circo, uguale! Con le assi per terra, e non lucido, ma che si andava, e in mezzo c’era l’orchestra. Una cosa così.. Un baracchino dove facevano i panini, le bevande, delle cose così, ma io mi sono divertita tanto, mi piace tanto ballare.

[Tina, 1929] sul filo di quei balli - ammessi, sognati, proibiti - annoda i propri ricordi di ragazza cresciuta in tempo di guerra.

M’ha insegnato papà. E credo anche la Rosa, credo fosse la donna di mio papà. Era bella, sai, era bella! E lei al papà gli diceva: “Guarda, stai attenta ai ragazzi eh!” – “Ma dei ragazzi non ce n’è…”. Eh, [con la guerra] dei ragazzi non ce n’erano! C’era questo, che non sapevi, ho notato questa cosa: eravamo che non sapevi niente… Allora andavo con le più vecchie, con la Renata, che è tanti anni più vecchia di me, eh, la Renata! E con quegli anni mi smammava; e la Miltrede dei Rovesti, e poi c’era sua sorella, e

facevamo compagnia, ecco, e i ragazzi prendevano una stanza in affitto, uno stanzone lì, che nelle case di campagna hanno delle stanze grandissime, e alora ballavano. Non so, davano qualcosa a ‘sta vecchia, e noi ballavamo lì. Quel grammofono con quella tromba, coi dischi, allora c’era quello: non c’era neanche la radio: la radio ce l’avevano i grandi signori, a Guastalla.

[Marco] Mai andata al Lido a ballare?

No, no. A Po ci sono venuta prima che prendessimo la casa al mare, che allora facevano la spiaggia, c’era la spiaggia oltre il ponte. E gh’o utant’an [ho ottant’anni], pensa te. Allora non si andava a Po, a gh’andava sul i pescadur [ci andavano i pescatori], non c’era ancora lo Chalet [c’era già, ma per lei, ragazza del Baccanello era uno spazio precluso]. Poi ero giovane, eh, scherzi!? Papà, quando ha capito che… he he!! Poi in tempo di guerra non c’era proprio da andare da nessuna parte, dovevi essere a casa, perché era una cosa brutta. [Marco] …l’oscürament [c’era l’oscuramento]?

No, so che non avevamo la luce elettrica, il papà aveva messo tutti i cosi neri alle finestre, poi avevi una candela, che non c’era la luce elettrica, eh! Cun la

lampada a petroli. Ma li candeli andava [Con la lampada a petrolio. Ma le candele andavano]. La nonna ci metteva a letto presto, perché non si poteva, eh?! Perché lì funzionavano gli aerei, eh!? Eh, il papà aveva messo le cose nere, nelle finestre. La luce ce le avevano in Guastalla, ma noi lì non ce l’aveva nessuno la luce, eh! Nessuno lì, in tempo di guerra al Baccanello non ce l’aveva nessuno: andavano con le lucerne a petrolio, e poi le candele. Poi nelle case nuove avevano tutti il camino: il camino ti dava luce nella casa, perché la luce non c’era, la luce elettrica. Dopo , finita la guerra, dopo un bel po’, quando hanno cominciato a lavorare così, allora hanno messo la luce elettrica. Però non c’era niente, né radio, né… niente, an gh’era gnint [non c’era niente]. Ma che non si poteva neanche comperare! Perché c’era il negozio di Veronesi, lè che i gh’ava [lì che ci avevano]… non la televisione, no, che non c’era, c’era le radio, insomma, le radioline, ma ch’i a cumprava i siur [ma che le compravano i signori]! Ma noi no.

[Saturna, 1928] stava pure al Baccanello, il suo sogno da ragazzina d’andare alla Mossina dura lo spazio di un inverno di guerra, poi la mamma se la riporta nell’economia da lei meglio controllata della campagna.

Abitavamo al Baccanello e andavamo a piedi, io e mia sorella Iser, la maggiore. Mia sorella ci era andata prima, da Mossina, e poi dopo, quando ho fatto i 14 anni, ho detto: “Mamma, ma perché non ci vado anch’io, da Mossina?”. Io ero vogliosa, di frequentare quell’ambiente, quella fabbrica, di vedere che cosa facevano, dentro, li Musinèri, che venivano chiamate così. Perché uscivano in pantaloni, che la signora Mossina non voleva. Perché facevano dei lavori, con il legno, che ti poteva trascinare gli indumenti, sai con i bindelli, con quelle macchine lì, poteva spogliarti, farti del male. I pantaloni non era una gonna. Poi ti piegavi continuamente, c’erano uomini e donne, e se ti piegavi facevi vedere le gambe, con i pantaloni insomma era meglio. Era meglio davvero, però non potevi uscire. Se uscivi con i pantaloni eri una donna da poco, allora ti dovevi cambiare.

Ho detto a mia mamma: “Perché non vado a vedere da Mossina anch’io?”. E allora sono andata io, dall’Ufficio del Lavoro, e ho chiesto: “Ma io non posso andare da Mossina?” - “Ma quanti anni hai?” - “14 anni” - “Beh, allora fai la carta di identità, poi vai dal dottore, chiedi il nulla osta che sei di costituzione sana e ci puoi andare, poi torni da me ti do il libretto”. Ho fatto tutto quello che mi han detto di fare, mi sono presentata in portineria da Mossina, come ragazzina mi presentavo bene, tra l’altro non ero mica bruttina, avevo quel modo simpatico di esprimermi, dicevano loro, anche da bambina... E mi han preso subito. Ho fatto in tempo a fare otto mesi. Ho fatto tutto l’inverno e siamo arrivati a maggio. 68 centesimi all’ora… Il mio numero era 175.

Arriva maggio, mia mamma comincia a parlare di risaia, di Piemonte: “Perché si guadagna dei bei soldi, perché lì...”. Sentivo che mia madre e mio padre parlavano, perché la loro camera era lì, noi figli dormivamo tutti e quattro in una camera di passaggio. E sentivamo mamma e papà che parlavano, se non ti addormentavi subito. Mio padre non era proprio del parere, però lei diceva: “Guesde, se noi veniamo a casa con una bella somma, andare in risaia porto con me le ragazze, siamo in tre…”. Perché lei era la caporale, era una donna in gamba, l’era “la Maria ad Dongia, la capurala”, era un soprannome che era di suo papà, lei non lo voleva, però l’era la Maria ad Dongia, molto conosciuta qui. Una brava e buona donna che tutti te lo possono dire.

Difatti passano un giorno, passano due, mia mamma ci chiama, io e Isa: “E se voi vi licenziaste da Mossina? E venite con me in risaia?”. Però, mi attirava il Piemonte, c’era il treno, arrivavo là in un altro paese, si coltivava il riso, andavo a vedere… Perché sentivo le mondine che cosa dicevano, a volte non dicevano cose belle, quello che succedeva, ma le risate che facevano tra loro, e allora... “Ma mamma, perché stiamo a casa?” - “Perché così, voi due con me, portiamo a casa tre campagne – veniva chiamata così quella della monda – abbiamo un bel gruzzolo e paghiamo i debiti. E dopo tornerete poi da Mossina, quando venite a casa”.

Eh! Si vede che erano i debiti così gravosi sulla mia famiglia... Perché poi avevi bisogno, ma nessuno ti aiutava, perché eri vestita bene, eri curata! Non avevi l’orlo a penzoloni, o ti mancava un bottone o avevi un buco nel gomito o nelle calze, quando tante calze erano fatte da una maglia vecchia che davano a mia mamma, magari tagliava le maniche, faceva il piede di sghimbescio, quella era una calza. Capisci?! Poi, mia mamma aveva una zia a Milano, quando qui finita la guerra arrivava la roba dall’America, che doveva essere distribuita invece andava a finire sui mercati, veniva chiamata “stracci America”, e potevi in mezzo a quei panni... E mia zia, mandava quella roba che non riusciva a vendere alla mia mamma, e lei da quella roba ricavava anche le tendine. Avergh li tendi [Avere le tende]! Avevamo le tendine in cucina, allora non potevi avere un aiuto, capisci? O dal Podestà o.. . Eri ricca, perché tu: “Se hai le tende, cosa vuoi che ti dia..:”. Capisci?!

[Tina, 1929] non appena ha l’età prende a sua volta la via della fabbrica, la Mellini e Martignoni, allora una piccola impresa avviata da poco. Le occasioni di lavoro evidentemente non mancavano, con i maschi richiamati al fronte e l’economia civile riconvertita alla guerra. Tuttavia non s’intende qui un fremito particolare di emancipazione, come nel “sogno” della Mossina narrato da Saturna; piuttosto, c’è la consapevolezza di stare in una linea familiare operaia, come il padre e poi il marito alternavano il lavoro alla fornace di Altomani nella bella stagione con quello in altre piccole fabbriche nell’inverno, a lei tocca di andare nelle nuove fabbriche che cominciano in quegli anni a cingere la città.

Io sono andata che avevo 14 anni. Dunque, era già avviata, ma avviata. Allora eravamo donne e uomini, e dopo erano subentrati i tedeschi dentro lì, perché adesso non mi ricordo più cosa portavano via di lì… Saremo stati una cinquantina. Lì era stretta, perché eravamo da quella strada dove c’è l’acquedotto, lì si viene dritto. Dopo han fatto quella grande in Circonvallazione, ma prima c’era quello piccolo dall’altra parte. Che Martignoni aveva la villa lì, ecco, e Mellini invece l’aveva giù, nella casa sua giù.

[Marco] E al Baccanello, alla fornace, ci andava gente a lavorare?

Eh, ma lì c’era un lavoro grande! Ci ha lavorato anche il nonno, lì, mio papà, anche Piero [il fidanzato, futuro marito]. Erano tanti, eh! Andavano dal Baccanello, Guastalla, Pieve… Adesso io non lo so com’era il lavoro. C’erano i forni, e quando dovevano mettere le pietre dentro ai forni… Veniva tutto lavorato, ma io non ci sono mai andata a vedere come facevano, comunque c’era un lavoro enorme. Arrivava fino alla Spinella, ma da lì andava fino all’argine, perché c’era la lavorazione dove facevano le pietre, c’era la lavorazione [essiccatoi] dove c’erano i forni, ce n’erano tanti dei forni. Da lì dove c’era il ponte del Baccanello, arrivava lì fino alla Spinella. Perché dopo han lasciato andare tutto, ma era un lavoro enorme, bravissimo era, eh? C’erano anche tante donne, ma più uomini, perché era un lavoro pesante, che facevano andare i carrelli, che dal ponte dal Baccanello lì ad andare là in fondo c’era un bel pezzo da fare, eh! Perché c’era tutta la costa, che avevano la rotaia, ma non avevano la macchina che li tirava, quando c’ero io non ce n’erano ancora da nessuna parte.

[Tina, 1929] rievoca il sobborgo del Baccanello, lungo il terrapieno sopraelevato della strada statale 63 della Cisa Ligure. Lo ricorda come un desolato succedersi di case povere, rade piccole fabbriche e officine di artigiani, che si può dire iniziasse dal Cantinón - la grande cantina sociale di vinificazione, fuori la barriera daziaria di Porta Roma, dove c’era la fabbrica di stufe La Germania - per continuare fino alle fornaci presso il ponte del Crostolo. Si tratta di piccole fabbriche che, seguendo le stagioni, lavorano i derivati della produzione agricola.

La Germania erano molto indietro da dove abitavo io, che facevano le stufe. Ecco, fino che ci sono abitata io, non c’erano mica dalla parte lì fino a Guastalla i negozi: lì

Nel documento Guastalla in chiaroscuro (pagine 60-77)