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IV. Il dramma dei prigionieri austriaci all’Asinara

4. I campi di “propaganda”

In Germania esistevano diversi tipi di campi di concentramento, oltre quelli prin- cipali con i distaccamenti di lavoro. C’erano i campi di passaggio o di smista- mento (Durchslager), ugualmente campi di lavoro, dove lo smistamento consi- steva soprattutto nel separare i diversi feriti 376, come il campo di Meschede che ospitava tra i 4.300 e i 5.000 prigionieri, in cima ad una collina verdeggiante e, in estate, piena di fiori. Numerosi prigionieri lavoravano nei distaccamenti e chi si rifiutava veniva punito con la pena del palo: si trattava di una punizione ritenuta molto dolorosa perché gli uomini venivano esposti, vestiti sommariamente, al gran caldo come alle intemperie, per alcune ore377. Oppure veniva picchiato con il calcio del fucile o rinchiuso nella baracca chiamata “di chi si rifiuta di lavorare”, un fabbricato dove i prigionieri dormivano per terra con due coperte ed erano te- nuti a pane e acqua e due zuppe alla settimana. C’era anche una baracca di puni- zione con 50 posti: il condannato doveva stare sempre in piedi per tutta la giornata ed era impossibile per lui sdraiarsi o anche solo sostenersi 378.

Vi erano i campi segreti, soprattutto a Montmédy, Longwy, Sedan, Stenay, nel territorio della Francia del Nord occupato dai tedeschi. Si trattava di campi che i delegati internazionali non poterono mai visitare poiché veniva loro negato il permesso dal Governo tedesco per ragioni militari379.

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Sono conosciuti i tentativi del governo russo di sovvertire la lealtà dei prigionieri austro-ungarici. Fin dall’inizio, nel 1914, di fronte alla enorme massa di prigio- nieri catturati, non esitò ad attuare una divisione etnica fin dal loro smistamento: i tedeschi del Reich e dell’Impero asburgico venivano mandati il più lontano possi- bile, in Siberia, in condizioni atroci , per contro gli slavi dell’Impero austro-unga- rico venivano trattenuti nelle zone occidentali del Paese, in prossimità delle loro frontiere. Si sperava, in alcuni casi, di poterli restituire in nome dell’amicizia pan- slava, oppure di convincerli ad impugnare le armi contro gli austriaci380.

Non di meno questo desiderio di aiutare, ma anche di dominare i piccoli “confra- telli slavi”, fu ostacolato da altri fattori: dal profondo sospetto riguardante gli orientamenti occidentali di alcune di queste nazionalità slave; la consapevolezza che la multi etnica Russia era essa stessa suscettibile della stessa tattica di desta- bilizzazione; il fatto che gli interessi immediati della Russia si scontravano in molti casi con i desideri espliciti di altri slavi. Pertanto fino al collasso del regime zarista del febbraio 1917, la Russia perseguì cautamente l’idea di arruolare prigio- nieri di guerra.

Il tentativo di arruolamento di prigionieri austro-ungarici tra le nazionalità del sud nell’esercito serbo e dei prigionieri italiani nell’armata italiana, ebbe risultati assai modesti. Il console italiano a Omsk, Gazzirelli, verso la fine di novembre del 1915, visitò i 528 prigionieri italiani nel campo di Omsk. In accordo con i rappre- sentanti russi presenti all’incontro, il console fece grandi promesse ai prigionieri: esenzione dal combattere l’Austria-Ungheria, permesso di lavoro nella loro pro- fessione, salario dal governo italiano e cibo in abbondanza. Ad un certo punto uno gli ufficiali austro-ungarici di nazionalità italiana si alzò in piedi e annunciò che essi erano orgogliosi di essere austriaci e di non essere preparati a combattere per l’Italia381.

I campi di propaganda per volontari antiasburgici furono stabiliti a Tiumen (per gli Slavi in generale), Tsaritsyn (Cechi), Odessa (Slavi del Sud), Kirsanov (Ita- liani), ma in realtà, in questi le condizioni di vita non erano affatto migliori ri- spetto gli altri campi regolari. Il progetto, infatti, incontrò grosse difficoltà, poiché era impossibile proteggere i prigionieri dalle privazioni che facevano soffrire or- dinariamente i cittadini russi nel 1916-1917.

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Dopo la rivoluzione di febbraio, Miliukov, il nuovo ministro degli Affari Esteri, pubblicamente fece un appello «for liberation of the oppressed peoples of Austria- Hungary». Egli diede il permesso di entrare in Russia a Tomas Masaryk, l’esponente politico ceco più in vista, per poter condurre una campagna di reclu- tamento tra i prigionieri di guerra. Secondo lo storico Peter Gatrell, nel giugno del 1917, nella battaglia di Zborov del 3 luglio 1917, Kerenskii, il ministro della guerra, era così impressionato dalla prestazione delle truppe ceche che si impegnò a finanziare l’esercito nazionale ceco. In realtà questi tentativi ebbero scarso suc- cesso perché molti prigionieri erano interessati più alla sopravvivenza che non alle agitazioni politiche. Circa 40.000 furono i cechi e gli slovacchi che morirono combattendo volontariamente contro l’impero asburgico, la maggior parte negli anni 1917-18382.

L’idea di sfruttare i malcontenti nazionali tra i prigionieri nemici non fu un mono- polio dei russi durante la prima guerra mondiale. Germania, Austria-Ungheria, Italia, Francia e Gran Bretagna tutti tentarono di destabilizzare i loro nemici, so- stenendo varie e spesso contradditorie rivendicazioni di gruppi nazionali ostili. Nei campi di concentramento tedeschi (Aufklärungslager), si cercava di convin- cere i prigionieri irlandesi a prendere le armi contro l’Inghilterra, quelli prove- nienti dall’India o dall’Algeria, a prendere le armi contro la Francia e l’Inghilterra, inviandoli come sottufficiali nell’armata turca di Mesopotamia. In Germania, i soldati di origine africana o asiatica venivano utilizzati dalla propaganda in due modi. Da una parte, si tentava di restituirli in nome della loro appartenenza all’Islam e dunque all’influenza spirituale dell’Impero Ottomano. Dall’altra, un certo numero di prigionieri musulmani era stato raggruppato nel campo di con- centramento di Zossen dove era stata costruita una moschea offrendo loro tutti i servizi religiosi, in nome dell’alleanza dell’Islam.

Questi campi venivano chiamati “di propaganda” ed erano fortemente denunciati dalle autorità francese e inglese, e dal CICR perché erano un’aperta violazione della convenzione di Ginevra nella quale era stabilito che non si potevano utiliz- zare i prigionieri contro il proprio Paese e contro il proprio esercito di origine. Ma il governo francese non esitava a comportarsi nello stesso modo, ad esempio con i prigionieri provenienti dall’Alsazia-Lorena, legalmente tedeschi e che essi

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provavano a farne dei “buoni francesi”383. Durante tutta la guerra, i diversi belligeranti tentarono di riconquistare alcuni loro prigionieri, con la forza o con la persuasione, malgrado le istanze reiterate del CICR di far cessare questa pratica. «Le nombre des prisonniers est si grande» scriveva il Comitato internazionale della Croce Rossa in una protesta indirizzata ai Paesi belligeranti «que dans plu- sieurs pays on essaie de faire usage au moins d’une partie d’entre eux, comme d’une force militaire qui pourrait être utile à l’Etat capteur. Pour cela, il s’agit de les détacher de la nation à laquelle ils appartiennent et de les engager à se joindre à ceux qui furent leurs adversaires, et qui le sont encore pour leurs anciens frères d’armes». Si trattava di una pratica decisamente contraria alla Convenzione di Gi- nevra, «nettement condamnable», che si era anche troppo estesa a parere del Co- mitato internazionale, e che veniva perseguita in due modi. Prima di tutto accor- dando un trattamento di favore a coloro che sembravano disposti a fare causa co- mune con i loro nemici: si sperava che il contrasto tra la loro posizione privile- giata e quella dei compagni di sventura li avrebbe convinti a combattere a fianco dell’antico nemico. Per contro, l’altro sistema erano la durezza, le privazioni, il trattamento di rigore che dovevano convincere colui che li subiva a decidersi e a passare nelle fila dei suoi guardiani.

«Le Comité Internationale ne peut admettre qu’un pays, par une pression quel- conque, fût-ce même par la religion ou l’esprit national, pousse les prisonniers qu’il a entre les mains à l’abandonner leur drapeau, ou à violer leur serment, c’est- à-dire à commetre un acte que, chez ses ressortissants, il appellerait trahison et qu’il punirait avec la dernière rigueur». Ma soprattutto il Comitato «s’élève con- tre les punitions infligées à ceux qui se sont refusés à commettre cet acte de félo- nie, et qui sont devenus ainsi les victimes de leur fidélité au drapeau et de leur pa- triotisme». Il Comitato, pertanto, si rivolgeva con urgenza ai Paesi belligeranti e li “supplicava” di rinunciare ad ottenere dai prigionieri un atto che era la negazione dei principi della lealtà, dell’onore e del rispetto della parola data, che erano alla base della società come degli eserciti384.

I prigionieri che non cedevano, che non volevano tradire il proprio Paese, veni- vano rinchiusi nei campi degli «éliminés», come venivano chiamati in Francia, ma che non erano una particolarità francese bensì costituiti in rappresaglia per gli

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stessi creati in Germania, i campi segreti che i delegati svizzeri, Blanchod e Spei- ser, non poterono mai visitare, come ad esempio il campo di Weiler in Alsazia. Erano stati gli stessi internati a raccontare ai delegati svizzeri, durante la loro mis- sione, che a Weiler venivano rinchiusi i prigionieri musulmani refrattari all’influenza tedesca, dove essi erano privati di tutte le comunicazioni con l’esterno e di tutte le visite mediche.

In Francia i campi degli «éliminés» erano tutti i campi e distaccamenti dipendenti da Gersat (Puy de Dôme), come il campo di Chagnat o il cantiere di Champelos, ma, in due occasioni, i delegati svizzeri, il col. Pagan e il col. Muller con il dr. Lardy, erano riusciti ad entrare.

Avevano potuto accertare che erano costituiti da prigionieri appartenenti alle re- gioni dell’Alsazia-Lorena, della Polonia e dello Schlewig-Holstein, originaria- mente riuniti nei «camps de faveur et de propaganda» e in seguito ritirati sia per- ché spiavano i loro compagni, sia perché si rifiutavano di manifestare sentimenti francofoni.

Gli «éliminés» erano esclusi da: 1 – la visita dei medici svizzeri 2 – lo scambio per infermità 3 – internamento in Svizzera 4 – visita dei delegati neutrali

In un campo di «éliminés» si trovavano, senza motivo:

1 – una cinquantina di civili austro-ungarici, catturati a bordo di imbarcazioni neutre e che erano stati rivestiti con l’uniforme tedesca: tra loro vi erano degli uo- mini anziani non adatti al servizio.

2 – dei mutilati gravi, che erano, senza discussione, nelle condizioni di essere scambiati

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Cap.IV. Prigionieri di guerra e lavoro in Italia.

1.I prigionieri di guerra e obbligo del lavoro

Tra i Paesi belligeranti, l’Inghilterra, fu lo Stato più lento ad impiegare i prigio- nieri di guerra sul fronte interno, a causa dell’opposizione dei Trade Union che temevano una diminuzione dei salari dei lavoratori inglesi386. Comunque, a partire dal 1916, la Gran Bretagna iniziò a utilizzare i prigionieri in agricoltura, in cave e fattorie del Regno Unito, ma anche nei lavori militari per l’esercito inglese sul fronte francese. Il numero dei prigionieri impiegati rimase, tuttavia, basso se com- parato a Francia e Germania: nel 1916 solamente 3.832 prigionieri di guerra sta- vano lavorando nel Regno Unito e il 12 maggio 1918 solo 43.140 prigionieri tede- schi lavoravano nei diversi settori economici e di questi 2/3 avevano appena ini- ziato. A differenza di Francia e Germania, nessuno di questi prigionieri lavorava direttamente alla fabbricazione delle munizioni, ma in realtà la maggioranza dei prigionieri tedeschi catturati dagli inglesi erano tenuti al lavoro in Francia387. La Gran Bretagna sviluppò un sistema di lavoro per i prigionieri di guerra, princi- palmente nel settore delle foreste e delle cave, solamente nel 1918388.

Il 12 dicembre 1916, al ritorno della sua missione ufficiale in Inghilterra, il mag- giore dottor Léopold De Reynier inviava una richiesta al presidente del CICR di Ginevra, il prof. Ador, non in modo ufficiale, ma unicamente per uno scopo uma- nitario. Durante il suo viaggio aveva potuto constatare che i prigionieri venivano trattati con ogni riguardo, che gli alloggiamenti erano perfetti: vi erano state delle lagnanze solamente per il cibo, ma gli inglesi avevano lasciato i prigionieri nella più completa inazione. Egli riteneva che l’inattività totale, che si prolungava or- mai da anni, fosse la peggior sofferenza per un uomo. Aveva saputo che i sociali- sti si erano opposti all’utilizzazione dei prigionieri nel lavoro, che essendo a buon mercato avrebbe fatto concorrenza alla manodopera locale. Chiedeva perciò al presidente del CICR di intervenire per poter cambiare la situazione dei prigionieri presso gli inglesi389.

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Tra le lettere dei prigionieri di guerra passate al vaglio della censura della sezione R dei servizi, era stata rilevata quella di un prigioniero tirolese, Oskar Wieser, che da Balestrate, il 25 febbraio 1916 lamentava:

«Tutta l’occupazione dei prigionieri austriaci qui è mangiare, mangiare, mangiare e se si ha denaro andare in cantina e bere del buon vino, dormire ecc. Non pos- siamo capire perché qui non utilizzino i prigionieri a qualche lavoro come da noi. Se la guerra durerà a lungo i prigionieri austriaci ritorneranno a casa quali perfetti pigroni»390. Anche dal campo di concentramento dell’Asinara un caporale scri- veva che pur non avendo nulla da recriminare, non capiva «perché, dopo 4 mesi che siamo qui, non ci adibiscono ad alcun lavoro, come se nell’interno dell’Italia, non mancasse la mano d’opera»391. Ma erano molti i prigionieri che si lagnavano per l’inattività.

Fin dai primi mesi di guerra, precisamente l’8 luglio 1915, il presidente della Commissione per i prigionieri di guerra, Spingardi, scriveva al presidente del con- siglio, Salandra che il ministero delle Poste e dei Telegrafi segnalava come dalla lettura delle missive indirizzate dai prigionieri austro ungarici ai propri familiari fosse emerso che molti di loro erano di professione agricoltori e aveva posto il quesito «se sarebbe opportuno di utilizzare questi uomini, sempre quando ne ab- biano la capacità fisica e vi si adattino volontariamente, in sostituzione di nostri agricoltori richiamati alle armi». Spingardi scriveva a Salandra che la Commis- sione, pur consapevole «dei problemi complessi e di non facile soluzione» che sa- rebbero derivati dall’attuazione di questa proposta, dava comunque la sua appro- vazione tanto più che era contemplata dall’art. 6, cap. II del regolamento annesso alla IV convenzione dell’Aja sui prigionieri di guerra ed era già attuata con risul- tati felici in Germania. Poiché la decisione a riguardo esulava i compiti della Commissione, Spingardi si rivolgeva a Salandra per sottoporgli la questione «per quelle decisioni che crederà di prendere al riguardo»392. Non conosciamo l’esito della richiesta, anche se non è difficile ipotizzarlo.

«Gli italiani non fanno lavorare i prigionieri fuori dei campi» scriveva il delegato Adolph D’Espine nel suo rapporto dell’ottobre del 1915, «una circolare del mini- stero dell’Interno lo proibisce per non fare concorrenza agli operai nazionali. E pertanto questo è il desiderio generale dei prigionieri che potrebbero combattere la

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noia della prigionia e che potrebbero, con la piccola retribuzione accordata al la- voro giornaliero, avere i mezzi per comperare il tabacco»393.

Il delegato svizzero aveva posto la questione anche alla Commissione dei prigio- nieri di guerra della Croce Rossa italiana che si era limitata a rispondere che « La questione del lavoro dei prigionieri di guerra è stata attentamente esaminata dal Ministero della guerra nella convinzione che il loro impiego in diversi lavori sarà vantaggioso sotto diversi punti di vista, compreso quello di un miglioramento, con il salario che essi riceverebbero, del loro stato di prigionia, cattività. Non di meno c’è una difficoltà da risolvere, ovvero quello della concorrenza che il lavoro dei prigionieri potrebbe portare al lavoro libero. Il ministero si riserva di studiare più profondamente la questione e di prendere a questo riguardo una decisione che ben presto vi sarà comunicata»394.

Il passaggio e la trasformazione dell’economia di pace a quella di guerra fu carat- terizzata da una iniziale disoccupazione, fenomeno dovuto alla difficoltà di rifor- nimento di molte materie prime indispensabili e al ritorno in patria degli emigranti dai paesi belligeranti, che contribuì ad incrementare ulteriormente l’offerta di braccia sul mercato del lavoro: nell’inverno 1914-15 i senza lavoro in Italia erano circa un milione e mezzo. Durante il periodo di neutralità, le difficoltà di approv- vigionamento, il rallentamento dei trasporti e l’aumento dei costi di distribuzione determinarono ripercussioni sull’occupazione industriale395.

L’incertezza sulla posizione che avrebbe assunto il Paese nel quadro delle alleanze europee, la riduzione dei traffici internazionali, il generale rialzo dei prezzi delle materie prime non fecero altro che determinare un ulteriore rallentamento della produzione industriale e accrescere i disagi nelle regioni centro settentrionali, ec- cezionalmente investite dal flusso dei rimpatri396.

La ristrutturazione del mercato del lavoro dovuta alla mobilitazione militare de- terminò una progressiva rarefazione della manodopera. Le crescenti richieste di forza lavoro al fronte innescarono sin dal primo inverno di guerra forti specula- zioni legate al collocamento degli operai: questo processo fu avviato dagli stessi comandi militari che compensarono agenti e impresari privati per reclutare operai all’interno del paese. In breve tempo le ditte scatenarono una vera e propria caccia alla manodopera: sfruttando il sistema del caporalato, grandi masse di lavoratori

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furono reclutati a basso costo nelle campagne meridionali più colpite dalla disoc- cupazione397.

Il problema del lavoro dei prigionieri di guerra coinvolgeva un po’ tutto il Paese. Il modello proposto dalla stampa e dagli organi governativi, di un prigioniero ne- mico trattato con «esagerato umanitarismo» dal Governo italiano che gli aveva of- ferto una «esagerata ospitalità», trasformando il nostro Paese in quello di Ben- godi, in contrasto con le notizie che provenivano dei maltrattamenti dei nostri pri- gionieri in mano austriaca, con «i sistemi duri e crudeli usati dall’Imperial regio Governo verso i prigionieri italiani» aveva suscitato «un’incresciosa impressione nell’opinione pubblica» 398.

Tra i suggerimenti su come impiegare in modo produttivo i prigionieri di guerra, sicuramente può apparire singolare la proposta del sindaco di Pavia, Eteocle Lo- rini, economista, docente di scienza delle finanze dell’università di Pavia, propo- sta avanzata al Presidente del Consiglio. Lo stesso Lorini premetteva che la sua idea poteva apparire a prima vista «bislacca…. o troppo poetica», ma nasceva da considerazioni scaturite dal fatto che «quasi tutte le città [erano] invase dai prigio- nieri [di guerra]» rinchiusi in pubblici edifici che fungevano da campi di concen- tramento. Inevitabilmente la situazione avrebbe portato danni, che egli elencava: «- che ammassiamo lì una quantità di persone oziose, letteralmente oziose, che dobbiamo portare a spasso perché non s’ammalino, con soverchio disturbo delle nostre guarnigioni;

– che costano caro al Governo e non rendono nulla;

– che siamo esposti a continue, naturali e pericolose e evasioni».

Quindi l’economista avanzava la sua proposta personale «Non sarebbe meglio, penso io, utilizzarli tutti in un’opera grandiosa, che interessa non l’Italia sola, ma la scienza universa [sic], il mondo, e quindi anche i paesi d’origine di quei mes- seri? Perché non li accentriamo, con economia di spesa e di sorveglianza, e non facciamo fare loro gli scavi di Ercolano? Che cosa di più epico, che vedere l’Italia, lanciata eroicamente alla conquista dei suoi confini naturali, e più ancora su quella via d’Oriente che è stata sempre l’unica e vera fonte di nostra ricchezza, e che nello stesso tempo sente la sua missione storica, e si dà al risveglio di cose morte, a cui tutti si appassionano, compiendo un vero atto di alta e generale cul-

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tura? Forse la mia idea la farà sorridere, ma ci pensi; ed in ogni caso mi serva per ricordarmi a lei e mandarle un saluto da questo seggio che ben conosce»399. Non si trattava di una proposta del tutto peregrina. I prigionieri tedeschi detenuti nei campi di concentramento dell’Africa del Nord, a Monastir e a Pont du Fahs, non lontano da Tunisi, lavoravano sotto la direzione di un archeologo al recupero delle rovine romane400.

In ogni caso la proposta non venne propriamente apprezzata. «[…] pazzesco quello che propone il sindaco di Pavia. Figurati che, per scavare Ercolano, deb-