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Eppure le notizie sulla situazione sanitaria dell’Impero asburgico continuavano a pervenire, sempre più allarmanti. Dal 2 maggio al 18 settembre 1915 furono noti- ficati, nella sola regione austriaca, ben 28.883 casi, dei quali i deceduti rappre- sentavano oltre la metà (15.439 morti)126.

Appena pochissime settimane dopo l’entrata in guerra del Paese, il 18 giugno 1915, il ministro dell’Interno, Salandra, inviava ai prefetti del Regno un tele- gramma:

«Gravità condizioni sanitarie Austria-Ungheria per diffusione malattie infettive e specialmente tifo esantematico e colera rende meritevoli più attenta vigilanza gruppi di prigionieri militari e civili che vanno trasportandosi nel Regno. Prego pertanto SS.LL. rendersi esatto conto anche con opportuni interventi medico pro- vinciale, previ necessari accordi autorità militari cui detti prigionieri sono affidati, condizioni igienico-sanitarie prigionieri stessi che fossero stati o venissero inviati codesta provincia»127.

Appariva evidente che il nuovo tipo di guerra richiedeva la collaborazione stretta dell’autorità civile insieme a quella militare, collaborazione che il ministro Salan- dra evidenzia e chiede da parte dell’esercito:

«Non è certamente è sfuggito all'alta considerazione E.V.» scriveva al gen. Ca- dorna «preoccupante pericolo sanitario rappresentato dai prigionieri di guerra, provenienti dalle varie regioni Impero, anche fra le maggiormente infette cholera, dermotifo.

A scongiurare possibilmente grave iattura cui sarebbe esposto paese per eventuale diffusione accennate malattie, sono certo che nella zona guerra tutte le più rigo-

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rose misure profilassi, compatibili con esigenze belliche, saranno state adottate. Ma è mio desiderio che, fuori la zona guerra, le autorità sanitarie civili, di con- certo con le autorità militari, concorrano come è loro stretto dovere, a tale vigi- lanza». I prefetti perciò venivano incaricati a tenersi informati e a vigilare sull’arrivo o partenza di prigionieri, sulle loro condizioni igienico sanitarie e sull’organizzazione dei servizi di profilassi ad essi relativi 128.

Preoccupato per le notizie relative alla diffusione di malattie epidemiche tra la po- polazione civile e l’esercito austro-ungarico, il ministro dell’Interno, Salandra, a pochi giorni dallo scoppio della guerra, il 31 maggio 1915, inviò un dispaccio te- legrafico al ministro della Guerra, raccomandando «attenzioni profilattiche […] ai soldati reduci dal fronte che possono aver avuti contatti con persone provenienti da paesi nei quali dominano tifo esantematico, vaiolo e colera. Non minori anzi più intense saranno le attenzioni stesse in riguardo ai prigionieri di guerra i quali per i germi di cui possono essere portatori riguardo colera o per insetti parassiti degli abiti e del corpo nei riguardi tifo esantematico, possono essere punto par- tenza di grave nocumento sanitario del paese». A tal fine stabiliva l’«istituzione di stazioni volanti di laboratorio in prossimità sovratutto dei campi di concentra- mento prigionieri quando mezzi locali si mostrino inadeguati»129.

Uno dei primi provvedimenti dell’Intendenza Generale datato 8 giugno 1915 ri- guardanti i prigionieri di guerra trattava proprio delle “Misure profilattiche”, norme che poi ebbero la loro veste definitiva il 19 luglio 1915 con il «Disciplinare per la vigilanza sanitaria dei prigionieri di guerra», firmate dal ministro della guerra, Zupelli130. Queste «norme profilattiche precise e tassative da essere rigoro- samente applicate a tutela della sanità pubblica» erano state studiate e formulate dal dottor Lutrario, direttore generale della sanità pubblica, unitamente al generale medico Susca, addetto all’ispettorato di sanità militare131.

La Commissione per i prigionieri di guerra, istituita dal Ministero della Guerra subito dopo l’inizio del conflitto, riconosceva che «in Austria – Ungheria tra le popolazioni non mancano casi di tifo esantematico, di vaiuolo, di colera etc. nella tema che i prigionieri di guerra siano apportatori di germi di tali malattie diffusi- bili sia in pericolo d’incubazione, sia per superata malattia, sia direttamente o sia indirettamente per ectoparassiti, nell’interesse della pubblica salute» quindi faceva

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sue «le prescrizioni di profilassi date a riguardo dall’Ispettore Capo di Sanità Mi- litare».

Ma l’Ispettorato di sanità militare insisteva e con forza che i prigionieri di guerra dovevano essere considerati «come possibili portatori di germi di infezioni diffu- sibili, sia in periodo d’incubazione, in conseguenza di superata malattia, sia diret- tamente (tifo, colera, dissenteria, vaiolo, ecc.) sia indirettamente per mezzo di ec- toparassiti (per es. pidocchi rispetto al tifo petecchiale)». Il prigioniero diventava doppiamente nemico, come combattente con le armi in pugno e come prigioniero armato di malattie infettive che potevano «mietere più vittime delle granate ne- miche». Secondo il tenente Ernesto Nathan, addetto alla sanità, l’epidemia cole- rica era stata inviata come altre armi di distruzione dal nemico 132.

Diventava, quindi, «imprescindibile necessità» mettere il prigioniero nelle condi- zioni di non nuocere ed attuare le più rigorose misure profilattiche affinché non si diffondesse alcun contagio. Il Disciplinare stabiliva che, subito dopo la loro cat- tura, i prigionieri dovevano essere isolati in locali appartati per essere svestiti dei loro indumenti e tosati. I capelli dovevano essere raccolti su fogli di carta per es- sere bruciati immediatamente. Sul capo, e su altre parti del corpo che si riteneva opportuno, doveva essere applicato «un rigoroso trattamento parassiticida», poi il prigioniero doveva fare un bagno saponato.

Gli indumenti dei prigionieri dovevano essere «disinfettati, o con appropriate fu- migazioni in locale chiuso, e con la stufa a vapore, o in acqua bollente, o con so- luzioni antisettiche a secondo dei mezzi disponibili». L’amministrazione militare doveva fornire il vestiario, e «possibilmente pantofole», ai prigionieri che dove- vano attendere in altro locale la disinfezione dei loro vestiti. Il personale militare e civile addetto al servizio doveva indossare «una sopravveste impermeabile da laz- zaretto», «per la protezione contro eventuali contagi e particolarmente contro gl’insetti».

Una volta rivestiti con gli abiti disinfettati, i prigionieri venivano radunati in un locale o una baracca isolata, chiamata «di osservazione», dove rimanevano per un periodo indicativo di 20 giorni, durante il quale dovevano essere « eseguite ricer- che batteriologiche sulle feci ritenute necessarie per scoprire eventuali portatori di germi patogeni nei maggiormente indiziati».

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Gli ufficiali medici addetti ai prigionieri dovevano con opportune indagini rica- vare informazioni sulla loro provenienza e sugli eventuali contatti con ammalati contagiosi, per poter «raggruppare negli stessi ambienti i presunti portatori dello stesso germe infettivo e determinare all’uopo la profilassi speciale necessaria». A tutti i prigionieri che non avessero presentato segni di vaccinazione recente ve- niva praticata la vaccinazione jenneriana. Seguiva poi tutta una serie di norme per il trasporto dei prigionieri fino ai campi di concentramento, trasporto che doveva avvenire per ferrovia, per mezzo di «treni speciali, costituiti possibilmente da vetture intercomunicanti di terza classe», muniti «di cassetta pel pronto soccorso e dei medicinali più comuni» e completi di «una stazione mobile di disinfezione» agganciata al treno e di uno scompartimento vuoto per l’eventuale isolamento di ammalati infettivi. Anche gli ufficiali dovevano viaggiare in vetture a parte, ma in terza classe dal momento che, in altre disposizioni veniva specificato che non es- sendo «munite di sedili a stoffa», dopo l’arrivo dei prigionieri a destinazione, le vetture potevano essere disinfettate più accuratamente133.

Un ufficiale medico era responsabile della vigilanza sanitaria fino all’arrivo dei prigionieri nel campo di destinazione.

Altre norme poi concernevano il coordinamento tra autorità militare e quella civile per la vigilanza igienico-sanitaria per una pronta rilevazione dell’infezione epide- mica, e, infine, i «laboratori batteriologici per le indagini relative ai prigionieri». Questi venivano divisi in laboratori stabili, quelli annessi agli ospedali e istituti universitari, e in sezioni mobili, quelli per i campi di concentramento situati in lo- calità lontane e impiantate dal ministero degli interni.

Le norme si erano rese necessarie perché spesso mancavano le più elementari at- tenzioni igieniche. Il 12 giugno 1915 l’ufficiale sanitario di Torino, dr. Abba, de- nunciava al medico provinciale che «Nella Caserma Lamarmora fu allestita una infermeria per soldati affetti da malattie comuni o dai mali venerei: ora questi in- felici sono privi di camicie, molti di essi sono pedicolosi e scabbiosi e i medici stessi si lamentano che non è possibile assisterli e curarli secondo le più elemen- tari norme ospitaliere. Per cura di benefiche signore furono mandati all’Ospedale La Marmora alcune diecine di camicie ed altre ne saranno mandate.

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Di questi soldati una parte provengono dal fronte, trasportati da treni della Croce Rossa, ma nessuna disinfezione fu praticata dei loro indumenti, dei vagoni, né tampoco sottoposti a bagni di pulizia. Al proposito dei vagoni vi è anche preoccu- pazione per quelli che trasportarono i prigionieri austriaci in Alessandria, che fu- rono rimessi in circolazione senza essere disinfettati. Le scuole poi occupate da truppe in questa città, dopo pochi giorni sono trasformate in luridi locali, adattatis- simi per l’attecchimento di qualsiasi malattia infettiva. Ho disposto perché spaz- zini municipali provvedano alla nettezza delle latrine di queste scuole, ma ciò è nulla se non vi è cooperazione da parte dell’Autorità Militare»134.

Nonostante le disposizioni inviate, le pressioni esercitate a più livelli, l’organizzazione sanitaria improntata, l’8 agosto 1915, il direttore generale della sanità pubblica, il dott. Lutrario, informava il ministro dell’Interno di alcuni epi- sodi di carattere sanitario, «recentemente verificatisi fra i prigionieri di guerra av- viati alle località loro destinate come campi di internamento».

Il 2 agosto, un gruppo di 1255 prigionieri doveva essere imbarcato sul piroscafo Tolemaide diretto a Palermo, ma al loro arrivo a Livorno veniva accertato un caso di colera. I prigionieri quindi venivano tutti portati con il piroscafo alla stazione sanitaria dell’Asinara, dove si verificarono «altri cinque casi sospetti, dei quali è ora in corso l’accertamento».

La mattina del 6 agosto in un convoglio di prigionieri diretto al campo di concen- tramento dell’interno, sette di essi furono lasciati a Mestre «per grave sospetto di infezione colerica, e alla stazione ferroviaria di Firenze venne «accertata la pre- senza di un altro caso, cui altro ne seguiva all’atto dell’arrivo alla stazione di Ca- serta».

Questi episodi, sosteneva il dott. Lutrario, facevano ritenere che in zona di guerra non si provvedesse quanto sarebbe stato necessario per assicurare l’immunità sa- nitaria dei prigionieri che venivano avviati nei diversi campi di concentramento, all’interno del Regno. E confermavano quanto il Lutrario era venuto a cono- scenza, ossia «che taluni degli apprestamenti e degli impianti, inizialmente desti- nati ai servizi inerenti al movimento dei prigionieri, sono stati adibiti ad altre più urgenti necessità del servizio di profilassi delle malattie infettive». Tutto ciò rap- presentava un grave pericolo per la salute pubblica del Paese, in particolare te-

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nendo conto che i campi di concentramento erano stati approntati in località re- mote e che pertanto non sempre possedevano i mezzi idonei al ricovero di contin- genti numerosi di persone sospette dal punto di vista sanitario, e neppure gli im- pianti profilattici adeguati. Il dott. Lutrario riteneva urgente trovare un rimedio con la costituzione di un campo di concentramento tra le località più idonee in zona di guerra, nel quale internare i prigionieri provenienti dal teatro di guerra, dove scontare un periodo contumaciale con tutte le misure che esso comportava: «osservazione sanitaria, esame batteriologico del contenuto intestinale, disinfe- zione degli indumenti, uccisione degli insetti etc.». Una volta terminata la contu- macia i prigionieri dovevano essere destinati ai campi sparsi nel Regno «coperti da una dichiarazione sanitarie da affidarsi ai capi di ciascun convoglio, attestante la subita contumacia, l'esito delle misure sanitarie eseguite in loro confronto, e tutte le altre notizie di carattere sanitario che appariscano di speciale interesse ai fini dell’ulteriore compito riservato alle autorità dei luoghi di destinazione»135.