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In Italia, dopo la significativa e costante diminuzione della mortalità per malattie infettive, registrata negli anni a cavallo tra l’Otto e il Novecento, la situazione sa- nitaria sembrava in stallo, e anzi tra il 1910 e il 1914, proprio alla vigilia della Grande guerra, fu necessario affrontare focolai epidemici e numerosi casi spora- dici di colera, tifo, peste e vaiolo nel Paese e nelle Colonie106.

All’inizio del conflitto, pertanto, fu ribadita l’importanza dell’adozione rigorosa e sistematica delle misure igienico profilattiche di carattere generale, quali le norme di igiene campale, la sorveglianza sull’approvvigionamento idrico, sull’igiene personale dei militari, consapevoli che, come ribadiva il prof. Lustig, «nelle guerre antiche le perdite di uomini erano causate più dalle malattie che dalle fe- rite, le malattie infettive, favorite dalle cattive condizioni di ambiente e spesso dalla mancanza dei più elementari mezzi di igiene, trovavano negli eserciti ampio campo di diffusione […]. Solamente nelle guerre moderne il numero delle perdite per malattie si ridusse inferiore a quello dovuto a ferite. […] non è esagerazione affermare che, nella guerra, la buona preparazione sanitaria è condizione sine qua non della potenza bellica delle truppe combattenti, e quindi elemento essenziale del successo. Questo fattore aumenta poi straordinariamente di importanza oggi che le guerre si combattono non più fra migliaia, ma fra milioni di uomini, e spesso, come per esempio nelle trincee, nelle condizioni igieniche le più sfavore- voli»107.

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Erano ormai conosciuti bene i pericoli legati alla diffusione delle malattie, chia- mate appunto «castrensi», che decimavano gli eserciti provocando spesso, fin dall’antichità, catastrofiche sconfitte militari, come era accaduto, un secolo prima, all’armata napoleonica in Russia, investita da una terribile epidemia di tifo petec- chiale nel 1812.

Da parecchi decenni i medici avevano descritto e classificato le malattie specifi- che che assalivano gli eserciti: «avevano potuto notare la frequenza di afflizioni lente, maligne, putride, i cui sintomi erano una febbre lunga e molto alta, uno stato di estrema spossatezza, di incoscienza o di stupore (in greco tuphos), ed un’eruzione cutanea. Il contagio poi aveva luogo in forme difficili a compren- dersi: il tasso di mortalità era molto alto […]. Queste «febbri da campo» erano la devastazione degli accampamenti, degli acquartieramenti, delle caserme e degli ospedali»108.

Il ten. gen. medico Ferrero di Cavallerleone, ispettore capo della sanità militare, il 12 maggio 1915, ancora prima della dichiarazione di guerra, con un dispaccio al- lertava il comando di stato maggiore e riferiva di notizie pervenute dal Friuli orientale, soprattutto da Gorizia, dove il tifo esantematico infieriva e si diffondeva «vi è quindi pericolo che l’epidemia possa propagarsi alle truppe concentrate al confine per contagio delle persone, che giornalmente vengono dai comuni di oltre confine a provvedersi di viveri nei centri italiani prossimi alla frontiera»109. Nel contempo indicava un’efficace strategia di prevenzione nei confronti di emer- genze sanitarie che avrebbero potuto interessare le truppe italiane già ammassate sul confine orientale con l’impero austro-ungarico.

Durante la guerra 1910-12, in Libia, il dr. Ferrero di Cavallerleone aveva portato avanti con successo la campagna di vaccinazione antitifica tra i soldati italiani con un vaccino monovalente preparato dai Laboratori della Sanità Pubblica, e ora, in vista di una ormai sempre più prossima entrata in guerra, enunciava una strategia di prevenzione nei confronti dell’epidemia, con una serie di misure «che derivano dallo stato attuale delle nostre conoscenze sulla etiologia e sul modo di propaga- zione della malattia»110. Poiché era ormai accertato che il «tifo esantematico è un’infezione estremamente contagiosa, che viene propagata dall’individuo malato al sano, e particolarmente dai pidocchi dei vestimenti ed anche da quelli del capo,

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ed è esiziale», grande attenzione doveva essere posta alle condizioni igieniche della vita quotidiana dei luoghi, e quindi delle caserme, degli accantonamenti e degli accampamenti, e personale.

I locali dovevano essere ripetutamente puliti, le tende disfatte di frequente, con frequenti disinfezioni e rimozione ed eliminazione dei rifiuti con l’incenerimento o il seppellimento in profondità. In particolare, ai singoli soldati spettava la «mas- sima nettezza personale», specie nei riguardi dei parassiti cutanei. Quindi si do- veva fare attenzione alla pulizia della testa e della persona con lavaggi frequenti e la disinfezione degli oggetti di corredo e personali in caso di infestazione parassi- taria. La disinfezione doveva essere fatta con le stufe o, in mancanza, con l’immersione nell’acqua bollente o con le fumigazioni di zolfo (ovvero sottoporre all’azione del fumo di zolfo per sterilizzare o disinfettare).

Per evitare il contagio della popolazione civile doveva essere raccomandato ai soldati di evitare i contatti con la popolazione nei locali di infimo ordine e in quelli sudici, sporchi, e di «allontanare i vagabondi, i mendicanti dagli accampa- menti».

In caso di contagio veniva raccomandato agli ammalti (e a tutti coloro che erano venuti in contatto) il bagno di pulizia, caldo, saponato e al taglio dei capelli e della barba con unzioni di olio canforato e cloroformio, petrolio e benzina della testa e delle parti del corpo facili ricettacolo dei parassiti. Tutti gli oggetti di corredo e personali di biancheria dovevano essere mandati alla stufa di disinfezione, o in sua mancanza, sottoposti alle fumigazioni di zolfo o l’immersione nell’acqua bollente.

Nel caso l’epidemia si manifestasse in trincea, questa doveva essere immediata- mente abbandonata, se impossibile per ragioni militari, doveva essere lavata con soluzione di acido fenico e latte di calce, avendo cura di raccogliere e bruciare la paglia111.

La vaccinazione antifica era stata disposta per l’esercito italiano fin dal febbraio 1915, mediante tre iniezioni di vaccino antitifo-paratifo. Il ministro Zupelli, però, l’11 giugno 1915 lamentava che l’operazione della vaccinazione in massa delle truppe non proseguiva regolarmente «talchè in alcuni casi il numero delle inie-

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zioni è stato ridotto a due, in altri casi ad uno soltanto, ed in altri ancora la vacci- nazione non è stata praticata»112.

Dopo la campagna condotta dall’ispettore capo della sanità militare, il gen. Me- dico Ferrero di Cavallerleone nel 1912 e 1913, la vaccinazione era proseguita nel 1914 sia in Libia che nell’Egeo «sempre però facoltativa e subordinata alle esi- genze militari» in attesa di renderla obbligatoria «quando l’opinione pubblica fosse meglio preparata all’accettazione di questa pratica profilattica». «Fu nel gennaio 1915 che La vaccinazione antitifica venne resa obbligatoria nel gennaio 1915, nell’esercito e nella marina italiana, per i soldati e ufficiali che non avessero compiuto i 45 anni e non avessero sofferto in passato di ileo tifo113.

Nell’aprile del 1915, per una campagna di sensibilizzazione, su iniziativa della società Lancisiana si tenne a Roma il corso di medicina castrense nell’ambito del quale il prof. Giuseppe Sanarelli, docente di Igiene all’università di Roma, tenne una lezione sul tifo esantematico o petecchiale sottolineando che, nonostante non fosse ancora nota la natura dello specifico agente causale, si era ormai certi che i pidocchi ne erano gli agenti trasmettitori e che, quindi, era necessario distruggerli mettendo in atto adeguate misure di igiene personale114.

Ciò nonostante l’8 luglio 1915 il sen. Alessandro Lustig, patologo di fama inter- nazionale, arruolatosi volontario allo scoppio della guerra con il grado di mag- giore medico, scriveva al sen. Alberto Dallolio:

«Certamente la pulizia delle caserme e degli accantonamenti militari di ogni ge- nere costituisce il primo e il più elementare postulato dell’igiene militare in tempo di pace e soprattutto di guerra.

Ora a me consta veramente che tale pulizia lascia quasi dovunque molto a deside- rare; ed ho già avuto campo di esprimere lagnanze e preoccupazioni al proposito. E sono convinto che, se le Autorità competenti non provvederanno in tempo e con mezzi adeguati, dovremo purtroppo lamentare inconvenienti non piccoli per la salute pubblica. Per esempio fonte di grande pericolo può appunto essere la pa- glia, cui Ella giustamente accenna, quella paglia su cui hanno dormito i soldati in- sudiciandola in ogni guisa, e che poi non viene opportunamente allontanata e di- strutta col fuoco o con altri mezzi resa incapace di veicolare agenti infettivi, ma viene ammucchiata nelle o presso le caserme, rivenduta per strame o concime,

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forse perfino riadoperata dopo una rudimentale ripulitura ed una pressatura. Que- sta questione della paglia è veramente grave e seria basta riflettere che essa dai soldati può essere stata insudiciata in ogni guisa, perfino con escrementi, sputi, acque sporche, residui alimentari; e può essere stata contaminata da parassiti cuta- nei vari, che sono spesso trasmissori di gravi malattie infettive (tifo esantematico, febbre ricorrente, ecc.). non esito ad affermare che questa paglia accumulata per lungo tempo nei cortili o presso le caserme, messa in circolazione per un uso in- dustriale o agricolo qualsiasi, senza previe misure di disinfezione, costituisce un vero e permanente pericolo per la salute dei soldati e delle popolazioni civili»115. La prima guerra mondiale è sostanzialmente una guerra statica: i fronti occidentali (franco-tedesco e italo-austriaco) non variarono per tutta la durata del conflitto, se si eccettuano alcune avanzate seguite dai ripiegamenti. In tale contesto lo spazio vitale di masse di soldati è costituito dalla trincea: fossati scavati talvolta in fretta sotto il fuoco nemico dei fucili, dei cannoni e degli shrapnel, oppure trincee sca- vate tra le rocce, protetti da sacchi di terra o da altro materiale. Le trincee talvolta distano pochi metri da quelle del nemico. Migliaia di uomini si affrontano in armi, sprofondati nelle rispettive trincee a pochi metri gli uni dagli altri. In trincea, ri- spetto all’azione ardita, predomina l’attesa, l’inerzia e la serialità spersonalizzante, ma anche la sporcizia, «la terribile strettezza della vita comune»116.

"Il fango impasta uomini e cose assieme. Nel camminamento basso i soldati de- vono rimanere accovacciati nel fango per non offrire bersaglio: i bordi ineguali del riparo radono appena le teste. Non ci si può muovere. questa fossa in cui siamo è ingombra di corpi pigiati, di gambe ritratte, di fucili, di cassette di muni- zioni che s'affastellano, di immondizie dilaganti.- tutto è conflitto nel fango tenace come un vischio rosso"117.

“…La pioggia continua snida dal terreno il puzzo della vecchia orina; e in certi posti si è costretti a strisciare a terra, mettendo le mani sopra ogni genere di roba, magari su qualche decomposto pezzo di soldato”. "Trincea! Abominevole carnaio di putredine e di feci, che la terra si rifiuta di assorbire, che l'aria infuo- cato non riesce a dissolvere. Lì tanfo di cadavere lo ingoiamo col caffè, col pane, col brodo"118.

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«Il primo caso di colera fu denunziato la notte dell’8 luglio fra i soldati del 40° fanteria» scrive Alberto Lutrario, il direttore generale della sanità pubblica, che indicava quale origine dell’epidemia la zona del medio e basso Isonzo, dove «si svolsero, nella prima fase della guerra, i più accaniti combattimenti; quivi si sta- bilirono perciò i più intimi e ripetuti contatti col nemico, dai quali ebbe origine l’infezione colerica. Su questa linea, difatti, il Comando nemico addensò in tutta fretta i reparti di slavi meridionali, che erano in Galizia, e con questi reparti, for- temente insidiati dall’infezione colerica di origine russa, i nostri entrarono subito in lizza con attacchi frontali ripetuti e sanguinosi, riuscendo a strappare loro le prime trincee di sbarramento; trincee infette che, naturalmente, occuparono di sbalzo senza alcuna cautela igienica, non compatibile assolutamente col tumulto e l’accanimento della battaglia. Si ripetette così, in più larga scala, un fatto epide- mico, che avevamo già osservato a Tripoli, durante l’epidemia colerica del 1911. Il colera cominciò nei tratti della fronte dove i combattimenti erano più attivi, i rapporti con le truppe nemiche infette più intimi, l’addensamento di uomini mag- giore, mentre non si estese al resto della linea, dove l’attività bellica era saltuaria e meno intensa»119.

Il caso di colera sospetto, basato sull’osservazione dei sintomi clinici, non venne confermato dall’esame batteriologico e l’infermo si rimise rapidamente. Ma tre giorni dopo, l’11 luglio, l’ospedale da campo 053, installato a Villa Vicentina, nel parco Bonaparte, denunciò vari casi sospetti, e l’indagine epidemiologica accertò che l’infezione proveniva proprio dal 40° fanteria, poiché a quel reparto apparte- neva il primo ammalato sospetto, ricoverato nell’ospedale 053 la sera del 7 luglio con una prima diagnosi di gastro-enterite e che morì proprio l’11 luglio. L’epidemia si estese ad altri soldati che avevano rapporti con quell’ospedale, poi alle truppe accampate nel recinto della Villa. Ma indipendentemente da questo fo- colaio altri ne sorgevano lungo il fronte.

«Il 40° reggimento fanteria faceva parte del X° Corpo di armata ed occupava al- lora, temporaneamente, il settore più settentrionale della linea di trincea presso Redipuglia, a rincalzo del XIII° Corpo. […] Nuovi casi di colera comparvero di- fatti nei reggimenti, 32°, 39°, 64° fanteria, tutti del X° Corpo, che in quel mo- mento si trovavano in linea».

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Poi l’infezione passò ad altri reggimenti degli altri corpi d’Armata che si trova- vano in posizione contigua o che occuparono trincee in precedenza tenute dal 40° fanteria come il 14° fanteria. Contemporaneamente, il 13 luglio, furono accertati casi di colera anche nel 48° fanteria, dell’XI° Corpo, che operava più a nord del X°, sulle pendici del San Michele; il 21 luglio, in alcuni battaglioni del 130° fante- ria, che occupavano le trincee ai piedi del Podgora, verso Lucinicco; fra i reparti del 35° e 36° fanteria che occupavano le linee consecutive di trincea.

«Si può dire adunque che, sugli ultimi di luglio, tutta la linea della terza armata ed una parte di quella della seconda, sino alle pendici del Monte Sabotino, erano in- fette di colera […] alla fine di luglio, l’infezione andava approfondendosi nelle retrovie per mezzo dei continui, inevitabili rapporti con le prime linee (riforni- menti, rincalzi, turni di riposo, invio di malati e feriti negli ospedali da campo, ecc.)».

Contrassero il colera i battaglioni di carabinieri «che vi succedettero», truppe della brigata Casale, che continuavano a Nord la linea dei carabinieri, e della brigata Pavia della 12 a divisione del VI° Corpo d’Armata. «Questi ammalati furono iso- lati nell’ambulanza della Croce Rossa, impiantata in una scuola slava a San Qui- rino, frazione del comune di Cormons, e quivi la diagnosi di colera fu confermata anche con l’indagine batteriologica. […] Si ebbero così ben presto ripercussioni infettive anche fra la popolazione civile di alcuni dei centri abitati maggiori, già occupati: Cormons, Cervignano, Monfalcone. Ed altre ne furono segnalate nei gruppi militari di retrovia […] Alcuni altri casi vennero pure accertati sui treni di trasporto e nei campi di sosta, e segnalazioni sospette giunsero dagli ospedali mi- litari dell’interno del Regno, che avevano accolto gli sgomberi di guerra».

Secondo i dati raccolti dal dott. Lutrario «Nell’anno 1915, il numero complessivo delle denunzie, fra i militari e fra i civili, fu di 16.475; quello degli accertamenti batteriologici 7818, cioè il 47%; il numero dei decessi 4553, cioè il 27,6% dei casi denunziati ed il 58,2% degli accertati»120. Ma Lutrario soggiunge che le cifre erano sicuramente inferiori alla realtà, poiché nei primi mesi il servizio batteriolo- gico non era adeguatamente sviluppato, ma anche perché l’esame batteriologico non veniva eseguito di fronte ad una diagnosi clinica certa, in piena epidemia.

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Lutrario, analizzando i dati della malattia, divideva il decorso epidemico in due fasi. La prima «a carattere nettamente epidemico, si svolse dal luglio 1915 al gen- naio 1916; la seconda, di tipo episodico, è compresa nell’anno 1916, e diede le ultime scintille nel dicembre, con uno strascico di portatori nel gennaio succes- sivo»121.

Nella prima fase, luglio 1915 – gennaio 1916, l’epidemia si sviluppò specialmente nella terza armata e nell’ala meridionale della seconda armata, sino a Cormons, ed ebbe un forte rialzo tra la fine di luglio e la metà di agosto, e, dopo una rapida di- scesa, nel mese di novembre:

Tra la fine di novembre e per tutto il mese di dicembre il decorso dell’epidemia si mantenne abbastanza alto, colpendo prevalentemente la terza armata, per poi ca- lare fino a spegnersi del tutto nella seconda quindicina del gennaio 1916.

Il colera ricomparve tra le truppe nel 1916 con un decorso piuttosto lungo, fino al gennaio dell’anno seguente, ma «le apparizioni del colera nel 1916 furono, difatti, assai ristrette e rimasero sempre ben contenute». La popolazione civile ne fu im- mune, ma furono colpiti sette operai addetti ai lavori militari più avanzati; si eb- bero venti casi nella 2a armata e cinquanta nella 3a armata. Un focolaio apparve alla fine di giugno del 1916 in val Cigini, ma rimase limitato al 25° e 26° fanteria, che presidiavano le trincee di Santa Lucia122.

«Il secondo episodio si svolse a carico di molti reparti – 14 – dell’VIII° corpo di armata che, dopo la presa di Gorizia, occupò la nuova linea meridionale di trincea, lungo la Vertoiba, là, dove questo torrente si getta nel Vippacco, affluente di sini- stra dell’Isonzo. Ma colpì, prevalentemente, l’11° reggimento di fanteria che pre- siedeva le trincee più avanzate. Erano trincee in pessime condizioni igieniche, parzialmente allagate, conquistate a prezzo di gravi sacrifizi e che ragioni impre- scindibili di ordine bellico non consentivano di abbandonare. L’infezione colerica vi si manifestò subito dopo la nostra occupazione. E questa circostanza – contrap- posta al fatto che, in quel settore, prima dell’avanzata, le nostre truppe erano in ottime condizioni sanitarie – fece pensare ad un possibile nuovo contagio in trin- cee nemiche infette. Allo stesso episodio è pure da associarsi il piccolo focolaio manifestatosi più tardi – in novembre – nel 97° fanteria, mentre era accampato a Vallerisce, poiché l’Ospedale contumaciale di Udine aveva già segnalato un por-

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tatore nello stesso reggimento, mentre era in linea sulla Vertoiba. Nell’accampamento, però, i casi di colera e di portatori si ebbero in maggior nu- mero fra i complementi, che giunsero dal Regno non vaccinati, né poté sollevarsi altro sospetto, perché la …territoriale di provenienza era assolutamente indenne. […]. I due episodi precedenti si riferiscono alla seconda armata»123.

Giorgio Mortara, insigne statista e demografo, nel 1925 pubblicò per Laterza il fondamentale “La salute pubblica in Italia durante e dopo la guerra” nel quale stima in 15-20.000 i casi di colera accertati in zona di operazioni belliche, con tra i 4.500 e i 5.000 decessi124. Alcune unità dell’esercito italiano sarebbero state per- sino decimate dell’epidemia. Si tratta di dati approssimativi per difetto, ma in ogni caso sono cifre importanti che dimostrano la virulenza della malattia, ma anche una risposta tardiva della sanità militare, la debolezza dei provvedimenti adottati. Il dr. Lutrario stesso, analizzando le varie cause che favorirono l’epidemia di co- lera tra le truppe, riconobbe che l’organizzazione sanitaria e igienica era ancora imperfetta, i mezzi e il personale insufficienti, vi erano state omissioni e ritardi nelle denunce dei casi sospetti, come pure la difficoltà a localizzare i focolai per questioni di riservatezza militare. In realtà, dalla lettura dei documenti appare evi- dente come sulla diffusione dell’epidemia avesse pesato la subordinazione degli interessi militari rispetto alla cura dei soldati contagiati dal colera. In una circolare congiunta del Comando supremo e della Direzione generale della Sanità datata 31 luglio 1915 e indirizzata al ministro della guerra e a quello dell’Interno, viene espressamente detto che:

«L'azione bellica che con tanto valore le nostre truppe hanno impegnato lungo la linea dell'Isonzo, non rende possibile - ad avviso insindacabile del Comando Su- premo - l’adozione di un programma sia pure ridotto, ma organico, diretto ad in- frenare l’infezione colerica malauguratamente manifestatasi in parecchi punti del fronte, a seguito del contagio direttamente assunto nelle trincee infette del ne- mico. Non solo, ma l’azione stessa in relazione alla disponibilità degli ospedali da campo e dei mezzi locali, non rende neppure possibile di trattenere i feriti e gli infermi il tempo occorrente per assicurarci della loro immunità»125.

Seguivano poi una serie di misure sanitarie che vedevano coinvolte le formazioni ospedaliere prossime al fronte e gli ospedali di riserva ai quali dovevano essere

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inviati infermi e feriti, che dovevano essere tutti considerati come “sospetti” dal