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2.2. L’arte e i suoi mondi

2.2.2 I canali di distribuzione

A porre un ulteriore limite all’espressività artistica di un artista ci sono altre realtà sociali come i critici e gli estetologi, i mercanti d’arte e i galleristi, le istituzioni pubbliche e i fruitori. Le opere d’arte per poter essere vendute ed inserite quindi in un canale di distribuzione devono trovare incontrare il gusto dei fruitori i quali, nelle loro scelte, sono influenzati dall’opinione dei critici e degli estetologi. E’ importante pertanto che un artista si costruisca una “reputazione” e un background critico positivo affinché le sue opere circolino sul mercato.

Il primo passo è stabilire quanto un artista dipenda dagli intermediari della comunicazione: se un artista si autofinanzia attingendo da fonti esterne all’arte, il sistema distributivo ha una influenza minima; se, al contrario, lavora per un mecenate l’influenza è massima. La terza casistica è quella in cui l’artista lavori per un pubblico anonimo. In questo ultimo caso l’influsso passa attraverso gli intermediari – gallerie, mercanti, critici - i quali gestiscono un sistema di distribuzione decisamente più complesso e articolato. Attraverso l’autofinanziamento l’artista raggiunge il massimo grado di libertà. Spesso coloro i quali ricorrono a queste forme sono persone che svolgono un lavoro esterno al mondo dell’arte – lavoro diurno – quindi non si cimentano nel lavoro “artistico” per procacciarsi danaro ma per fornirsi una via di fuga dall’attività principale.

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Gli artisti che finanziano da soli il proprio lavoro possono diventare indipendenti dal sistema distributivo: non hanno bisogno di vendere le loro opere, almeno non per guadagnare danaro. Se sono abbastanza isolati o estranei rispetto al mondo dell’arte, vivranno tutto questo come una liberazione piuttosto che come una privazione. [ivi, 114]

Gli autofinanziatori, spesso, danno vita anche a delle forme di associazionismo – circoli culturali, gallerie cooperative, associazioni - dividendo le spese di gestione ed ottenendo in cambio la possibilità di esporre liberamente ogni anno. Resta il fatto che queste forme rimangono per lo più circoscritte a livello locale. Queste iniziative raramente varcano i confini regionali e i partecipanti vengono etichettati come dilettanti. Pertanto l’accesso ad un mercato distributivo ufficiale è uno dei principali indizi che permette al mondo dell’arte di distinguere i pittori “professionisti” dai pittori “della domenica”. Nel caso in cui un artista abbia un proprio mecenate egli produrrà delle opere, un certa quantità di opere o determinate opere, su commissione. Oggi il mecenatismo può essere un governo che commissiona sculture o dipinti da collocare in spazi pubblici oppure una persona particolarmente benestante che commissiona ad un artista una o più opere per arricchire la propria collezione privata o per donarla a musei pubblici.

Negli ultimi anni si sta facendo strada il mecenatismo di impresa. Sono sempre più numerose le aziende che investono la propria immagine a sostegno delle attività culturali. Poco importa se il core business di un’azienda è diametralmente opposto con l’attività culturale che si sostiene. IllyCaffè, Enel, UniCredit Group sono solo alcune delle aziende italiane che hanno affiancato la propria immagine alla cultura, specie nelle arti visive e figurative. Ma il loro sostegno – come verrà approfondito nel capitolo seguente – non si configura

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come mera sponsorizzazione di eventi estemporanei o isolati bensì può assumere le caratteristiche di progetti culturali a tutto tondo.

Che il mecenate sia un’istituzione, un’impresa oppure un facoltoso investitore il suo ruolo è decisivo nell’ambito della catena della distribuzione di un’opera d’arte e della sua legittimazione. Un artista che ha alle spalle una tale figura avrà maggiore visibilità in termini pubblicitari e godrà dei posti migliori – musei prestigiosi e spazi pubblici - per esporre le proprie opere. Ciò a discapito però della libertà di espressione dell’artista.

Per quanto riguarda il mecenatismo pubblico bisogna sottolineare che le disponibilità finanziarie di un governo a favore della cultura sono sempre piuttosto limitate. In generale si può dire che la scelta ricadrà quasi sempre su quegli artisti già “storicizzati” oppure che rappresentano valori e stili consolidati. Ne consegue che opere intrise di temi radicali, oscene, blasfeme, lontane dal concetto convenzionale di arte, difficilmente troveranno finanziamenti pubblici. Inoltre bisogna tenere conto anche dell’orientamento politico del governo dominante. Questa componente non può che avere dei risvolti sulle scelte effettuate in ambito culturale.

Lo stesso dicasi per il mecenatismo d’impresa.

L’arte rappresenta il mezzo attraverso cui si accredita l’azienda e si costruisce l’immagine aziendale. Essa mira a produrre un effetto positivo sul più alto numero di persone per cui le scelte di sponsorizzazione e sostegno di specifici progetti saranno piuttosto conservative. Una scelta impopolare avrebbe degli impatti irreversibili sull’intera immagine aziendale.

Questa rapida panoramica sulle riflessioni beckeriane non può non portarci a riflettere sul ruolo che occupa il mecenatismo oggi e sulla sua influenza sull’intero mercato dell’arte.

I due casi appena analizzati ci portano verso due posizioni antitetiche.

Da una parte abbiamo coloro i quali si tengono o sono tenuti fuori dal sistema dell’arte, gli autofinanziatori. Essi vivono l’arte in maniera interstiziale, essa

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occupa una parte della propria vita e non rappresenta la loro stessa ragione di vita. Declassati al rango di dilettanti, non subiscono i forti condizionamenti dettati dai mondi dell’arte.

Al contrario, coloro i quali sono pienamente inseriti nel circuito dell’arte e godono di finanziamenti e riconoscimenti, secondo Becker, subiscono maggiori pressioni. Le convenzioni dettate da quel tipo di mondo dell’arte finiscono per limitare e comprimere la libertà di espressione. Essi però godranno di maggiore popolarità e successo dal momento che il grande evento – sia esso allestito dal pubblico o dall’impresa privata – finisce per orientare le scelte di gusto dei consumatori finali, i piccoli collezionisti e i fruitori.

Nella scala della distribuzione non bisogna dimenticare il ruolo delle gallerie e dei mercanti d’arte. Essi si rivolgono a persone che apprezzano l’arte e che siano anche disposte a comprare delle opere. La galleria è una testa di ponte tra il mondo esterno – costituito dal pubblico – ed il mondo interno – dato dagli artisti e dei mondi che vi ruotano intorno. In primis essi sceglieranno gli artisti da trattare – artisti già affermati oppure emergenti - si nota subito come ogni galleria abbia il proprio imprinting.

Gli artisti appartenenti ad una singola galleria hanno qualcosa in comune. Frequentando assiduamente una galleria i collezionisti imparano ad apprezzare quello stile. Le ragioni che spingono un appassionato d’arte a trasformarsi in collezionista possono essere molteplici dallo snobismo culturale alla mera speculazione finanziaria, dalla passione per l’arte alla mania di collezionismo. Facendo leva su questa miscela di motivazioni, i galleristi si creano una clientela. In pratica, i galleristi – come i mercanti d’arte e i critici – sviluppano un consenso sulla validità dell’opera, sia da un punto di vista estetico che economico, e sui suoi criteri di valutazione. Quando ciò accade Becker definisce questa attività svolta sul campo da parte degli intermediari come una profonda “educazione del pubblico”.

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Essi hanno acquisito un ruolo fondamentale a partire dall’impressionismo in poi perché sino ad allora la bontà di un’opera d’arte visiva e scultorea era valutata sulla capacità di riprodurre fedelmente la natura. Vigeva la teoria dell’imitazione della natura dunque. Ma dal Cubismo in poi qualcosa cambia. Non bastano più manierismo e buone capacità pittoriche.

Le opere d’arte si fanno portavoce di concetti, dei sentimenti dell’artista e del popolo, sono cariche di simboli e simbologie. In poche parole la mera contemplazione estetica non è più sufficiente a sostenere il valore di un’opera d’arte. E’ necessaria la figura di un intellettuale, un esteta, un filosofo o un critico, che ne legittimi il valore intrinseco. Che ne accerti il contenuto e lo traduca in concetti. Becker oppone la teoria istituzionale di cui Danto e Dickie (Danto, 1964; Dickie, 1975) sono tra i principali teorici secondo cui tutto può essere considerato arte grazie al cosiddetto senso comune che dovrebbe guidarci nel discernere cosa è o non è arte. Scrive Becker:

La teoria istituzionale non è in grado di produrre quei giudizi categorici che gli estetologi vorrebbero circa l’artisticità o meno delle opere. Dato che il grado di consenso su chi può decidere cos’è arte varia notevolmente da una situazione all’altra, una visione realistica deve considerare che l’artisticità – dire se un oggetto è arte o no – va considerata una variabile continua piuttosto che una dicotomia del tipo tutto o niente. [ivi, 170]

Nel formulare un giudizio sull’arte contemporanea sarà allora meglio ricorrere ad entrambe le teorie – sia quella che giustifica le forme di arte anche più “spinte” sia il senso comune – elaborarle ed alla fine lasciarsi guidare dalle proprie emozioni.

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