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3.1. Le istituzioni e l’arte contemporanea: i musei

3.1.2 La democratizzazione della cultura

Nel paragrafo precedente, è stato analizzato il legame tra i musei d’arte contemporanea e la società. E’ stato analizzato un caso, quello dell’Enola Gay, ed è stato messo in luce come l’allestimento di una mostra d’arte contemporanea non sia un fenomeno a sé, una monade che non ha alcuna implicazione come l’esterno. Anzi, si è dimostrato che oggi i musei hanno dei fitti legami con la società quindi non può e non deve essere trascurato il loro ruolo. Dopo aver approfondito il tema del museo come luogo della memoria e verificato il ruolo sociale che esso assume, in questo paragrafo saranno

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illustrate le diverse posizioni in merito alla democratizzazione dei musei. La domanda a cui si vuole rispondere è quella posta da Vera Zolberg (1984). Come evidenzia la Zolberg, in letteratura esistono due diverse correnti di pensiero in merito: da una parte i sostenitori del “populismo” o della democratizzazione all’accesso all’arte contemporanea, i quali ritengono che la funzione di educazione del pubblico è tra i ruoli del museo; dall’altra invece si schierano i sostenitori della cultura “d’èlite”, seguaci di Bourdieu e della sua scuola, che ritengono che lo scopo dei musei è quello di collezionare, preservare e studiare le opere d’arte.

Heinich (2001, trad. it. 2004, 74) definisce le due diverse posizioni rispettivamente come “legittima” e “populista” affermando che secondo i primi l’arte contemporanea è appannaggio della classe colta, la “classe dominante”, perché possiede le basi culturali necessarie per decifrarne i linguaggi, mentre i secondi tendono a ridare valore alla cultura popolare non più considerata come assenza di cultura ma dotata di logiche e valori propri. In questo paragrafo, dunque, si cercherà di rispondere alla domanda: si può oggi parlare di democratizzazione della cultura?

Il punto di partenza è la ricerca sui musei europei condotta da Bourdieu e Alain Darbel nel 1966, raccolta nel volume “L’amore dell’arte” (1966, trad. it 1973).

Da quella ricerca emerse, tra le altre cose, che non è possibile parlare di un solo pubblico – come si era fatto sino ad allora considerando il solo conteggio degli ingressi - ma di diversi pubblici differenziati per classe sociale di appartenenza. Questa conclusione, che oggi potrà apparire scontata, ai tempi fu molto innovativa in quanto permise, negli anni a venire, di calibrare le proposte culturali sulle esigenze degli utenti finali (i diversi pubblici appunto). Altro punto di particolare rilievo che emerse da questa ricerca fu il fatto che i musei si proponevano come luogo di diffusione della cultura ma invece di accorciare le distanze tra le varie classi sociali e culturali – quale era l’intento - di fatto finivano per accentuarle.

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Come? Un esempio è dato dall’assenza di spiegazioni all’interno del museo. Le opere d’arte non erano accompagnate da alcuna didascalia che potesse fornire le informazioni principali sull’opera stessa e/o sull’autore. Ciò era superfluo o altresì ridondante per gli iniziati, ma diventava un vero e proprio ostacolo culturale per i neofiti. Di conseguenza i musei venivano frequentati solo dalle classi sociali fornite di un capitale culturale adeguato, mentre le classi operaie li disertavano.

Bourdieu e Dabel riscontrarono che le classi operaie non si addentravano tra le sale dei musei in quanto avevano “l’impressione che i guardiani li guardassero in modo ostile” e non si avvalevano delle guide in quanto temevano che la loro “inadeguatezza” culturale potesse trasparire.

Sebbene questa ricerca abbia fornito gli spunti per l’impostazione di un museo moderno e accessibile a tutti, l’immagine dei musei italiani oggi è lungi dall’evocare o suggerire l’idea di un luogo di diffusione democratica dell’arte e della cultura in generale.

Come fa notare Annalisa Tota (1999, 115) il museo italiano, al confronto con le altre realtà europee, esce perdente. Il modello italiano infatti risulta essere obsoleto, incapace di avvalersi di studi e ricerche su questi temi, molto diffusi invece in America e in altre parti d’Europa:

Dalla ricerca di Bourdieu e Dabel sono passati tre decenni ma la situazione complessiva, soprattutto nel caso italiano, sembra essere cambiata solo in parte. In Italia la prospettiva museale, oltre ad essere ancora lontana da forme propriamente multiculturali, si connota come classista.[…] Per uno strano e diffuso stereotipo si tende a credere in modo abbastanza generalizzato che i musei siamo un luogo visitato prevalentemente dai turisti, dagli stranieri. Il museo italiano sembra perdere così di vista l’importante ruolo sociale, che potenzialmente gli competerebbe, di agenzia di

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democratizzazione, di legittima arena di ricomposizione dei conflitti sociali.

Quello che emerge è che la realtà museale italiana è statica, intrisa della vecchia concezione che il museo è un “non luogo”, una sorta di “contenitore” di opere d’arte.

Ci si potrebbe spingere sino ad affermare che molti musei italiani, oggi, sono l’evoluzione strutturata delle Wunderkammer nordeuropee. Ma è un’anomalia del “Bel Paese” perché nel resto del mondo, invece, essi interagiscono con la società trasformandosi in “luoghi” secondo la definizione di Marc Augè9 (1992, trad. it. 1996).

Il riscatto a quanto appena detto proviene dai nuovi musei di arte contemporanea più sensibili a rispondere alle esigenze dei vari pubblici e in grado di svolgere un ruolo di creatore di precondizioni per l’attenzione alla cultura dell’arte contemporanea? .

I nuovi musei d’arte contemporanea italiani puntano a diventare una componente strutturale in grado di organizzare l’economia della conoscenza. I musei d’arte contemporanea, secondo Luigi Sacco (2006) possono essere divisi in due categorie:

• musei attrattori • musei attivatori

Il museo attrattore è quel museo che produce eventi o allestisce mostre destinate a flussi di pubblico considerevoli per questo settore. In genere sono quei musei, come il Mart di Rovereto o il Guggenheim di Bilbao per esempio, in grado di diventare dei magneti per il turismo culturale.

9 Marc Augé (Poitiers, 1935) è un etnologo ed antropologo francese. Per Augé i non luoghi sono sia le

infrastrutture per il trasporto (autostrade, stazioni, aeroporti) sia i mezzi stessi di trasporto (treni, aerei, automobili). Sono non luoghi i supermercati, le grandi catene alberghiere, con le loro camere intercambiabili, ma anche i campi profughi, dove sono parcheggiati a tempo indeterminato i rifugiati. Il non luogo è il contrario di una dimora, un posto non in grado di generare un senso di identità e appartenenza.

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Di solito gli edifici di questi musei sono realizzati e/o ristrutturati da archistar, architetti cioè di risonanza internazionale, il cui intervento rende lo stesso progetto architettonico motivo di attrazione turistica.

Il museo attivatore invece ha dei costi sia di gestione che di realizzazione decisamente inferiori rispetto al primo e la sua peculiarità consiste nel puntare su iniziative di carattere sperimentale.

E’ soprattutto questo tipo di museo – insieme a quello così detto ibrido che è sia attivatore che attrattore – quello più vocato a rispondere alle diverse tipologie di pubblico.

Oltre ai “professionisti giovani e medio giovani”, già inseriti nel mondo del lavoro, con livello di scolarizzazione medio- alta, che rappresentano i primi frequentatori dei musei (Sacco, 2006) bisogna considerare i nuovi pubblici, ed in particolare i giovanissimi – la cui presenza, in passato, era piuttosto marginale - sempre più incuriositi delle forme sperimentali di arte (video art, installazioni, arte digitale, performance).

La Galleria Civica di Trento da alcuni anni organizza il Festival della Performance il quale attira proprio questa fascia di pubblico.

Altro pubblico che i nuovi musei mirano a coinvolgere sono i pensionati e gli anziani, notoriamente fuori dal circuito dell’arte contemporanea.

Scrive Pier Luigi Sacco (2006, 25):

Da noi questa fascia di pubblico è scarsamente sollecitata, mentre alcuni paesi del Nord Europa hanno accettato la sfida proponendo laboratori e visite guidate strutturate appositamente per loro. Occorre immaginare, quindi, delle iniziative concepite per le esigenze delle persone anziane: in una società come quella italiana che sta invecchiando, sarebbe un grosso errore emarginarli dal contemporaneo.

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Il museo orientato a interagire con il pubblico viene definito anche dialogico per quella propensione a ridefinire il rapporto con il visitatore nella direzione dell’interattività. Questa nuova concezione di museo mira al coinvolgimento sensoriale del visitatore attraverso il dialogo con la sua parte interiore, meno razionale, e più emotiva. Al contrario, le politiche museali tradizionali dialogano invece più con la parte razionale del visitatore esigendo, come si è avuto di modo di verificare in precedenza, una struttura culturale predefinita. L’orientamento delle nuove politiche museali tende verso una maggiore democratizzazione dell’arte e della cultura senza però perdere di vista la propria funzione istituzionale.

L’affermazione di Mary Douglas secondo la quale “le istituzioni pensano per noi” (Douglas, 1986, tr. it. 1990) è sempre valida. L’asimmetria tra il museo e il visitatore esiste ma, con il museo dialogico, cambia forma. E’ meno autoritaria ma continua a persistere in quanto il pubblico ogni volta che varca la soglia di un museo delega, anche se implicitamente, a quest’ultimo la selezione della produzione culturale.

Infine, quando si parla di democratizzazione della cultura non si può non fare anche solo un accenno alle politiche adottate, specie a livello locale.

Si possono sintetizzare due approcci adottati nel mondo della cultura: il primo di tipo “legittimista” e il secondo di tipo “populista”.

Il primo prende le mosse dal presupposto per cui le classi popolari non prendono parte alla vita culturale della società in cui vivono. Questo fatto, per i sostenitori della politica “legittimista” è un’azione di deprivazione, cioè alle classi popolari è vietato il diritto alla cultura legittima. Quindi i sostenitori di questo tipo di politica affermano che per ovviare a questa deprivazione bisogna procedere con una “acculturazione” delle classi popolari su quei temi che la classe dirigente ritiene legittimi. La critica mossa a questo tipo di politica è quella di un’imposizione di legittimità culturale. Questa posizione è quella teorizzata da Bourdieu (1966, tr. it. 1973) ed i suoi seguaci a cui, invece, si contrappone quella “populista” che mira invece a valorizzare la

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cultura popolare. L’arte cessa di essere esclusiva, per pochi, per inglobare tutte quelle forme e pratiche d’arte meno concettuali ma largamente diffuse tra il pubblico. Non è un caso che i sostenitori dei Cultural Studies annoverino tra le forme d’arte tutti quei fenomeni nati dal basso come i Writers e i graffitari (che hanno poi dato visto alla Street Art). Sostenitori di questo tipo di politica sono i sociologi Claude Grignon e Jean Claude Passeron (1989) che si schierano su posizioni di netta contrapposizione con quelle di Bourdieu. La critica mossa però a questo tipo di approccio teorico è l’eventuale abbassamento della cultura collettiva ed un’omologazione del gusto contro una perdita di maggiore consapevolezza critica (sui Cultural Studies si veda il cap. 1, parte I).