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Il leader carismatico nel caso brontese Realtà o costruzione a posteriori Il caso dell’avvocato Nicolò Lombardo

Capitolo II QUADRO SOCIO STORICO

3.3. Comportamento collettivo o movimento sociale? 1 Premessa

3.3.2. Il leader carismatico nel caso brontese Realtà o costruzione a posteriori Il caso dell’avvocato Nicolò Lombardo

Come detto, la rivolta brontese per la sua semplicità, naturalezza e spontaneità repentina non sembra inquadrabile nella nozione di

movimento sociale. Tuttavia considerata l’ampia eco che storicamente ha

avuto sulla narrazione dei “Fatti di Bronte” la figura maestosa e greve del Lombardo, ci è apparso inevitabile il parallelismo con l’immagine di

leader spesso considerata come uno dei requisiti del movimento, per

confermare la nostra ipotesi circa la natura dell’evento.

Da più parti tacciato quale caporione della rivolta, opportunamente vituperato dai suoi avversari politici, egli fu giustiziato in nome di voci, come tali poi riconosciute a posteriori anche dal Giudice Istruttore Vasta.

Gli avversari politici dell’avvocato, soffiando sul fuoco a dovere, aizzarono le autorità venute a reprimere il moto, al fine di liberarsi della scomoda figura di riformatore socialmente impegnato dalla parte del popolo; egli, quindi, diventa un borboniano, istigatore di saccheggi ed omicidi, addirittura ricettatore di oggetti rubati.

Orbene non è di poco momento, tuttavia, chiedersi se nella rivolta ci sia stato un vero soggetto, o più soggetti, nei quali siano confluite le istanze del gruppo, a cui il gruppo abbia delegato le proprie idee, il proprio progetto, la responsabilità delle decisioni.

Storicamente e tradizionalmente, quasi ogni movimento sociale, che sia stato politico, religioso, o che si possa qualificare come rivolta e

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rivoluzione, è ricordato col nome di un capo (o presunto tale) il cui carisma volontario o inconsapevole ha potuto coinvolgere l’immaginario collettivo a tal punto così da far sì che le masse lo abbiano seguito incondizionatamente.

Nel nostro caso, premesso quanto già detto circa l’impossibilità di concepire la rivolta brontese come movimento, nessuna ambizione pare debba ascriversi all’avvocato Lombardo in tal senso. Questi, nella sua semplicità mista a sincero idealismo, si guardò bene dal farsi definire

capo – nonostante, forse, un generale e spontaneo riconoscimento in tal

senso da parte della massa ci fu ugualmente – e si guardò bene dall’incitare i concittadini alla violenza cieca. Ma ancor di più peccò forse di ingenuità allorchè lascio a difenderlo, nella breve e sommaria nonchè superficiale istruttoria della Commissione Mista, l’avvocato Nunzio Cesare, suo avversario storico il quale certamente non si prodigò per tutelare il suo assistito con tutte le garanzie del caso.

A riguardo si legga, tra tante, la dichiarazione querelatoria di Antonina Catania, vedova Leotta, la quale, come anche altri testi ascoltati velocemente dalla Commissione Mista, ci fornisce alcuni elementi rilevanti per valutare, innanzi tutto, le discrasie nei rispettivi racconti dei testi, i quali vanno epurati dal superfluo e considerati nel loro nucleo più veritiero e apartitico.

Ella narra del proprio garzone a nome Nunzio D’Andrea il quale: “Fu

forzato a tirare un colpo di fucile contro detto mio marito”, indicandolo

come possibile testimone dell’omicidio di Rosario Leotta.

Risulta ovvio come lo stesso garzone, successivamente interrogato, per evitare di perdere il proprio posto di lavoro, abbia poi riferito di essere stato costretto all’omicidio52.

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Nessuno sa se sia vero, come narra successivamente il D’Andrea, citato oralmente dinnanzi alla Commissione Mista, che egli abbia eseguito l’ordine di sparare sul cadavere “tirando però la fucilata in

parte dove non poteva colpire il Leotta”53.

Nella narrazione della vedova, inoltre, dal particolare del bacio, si evidenzia tutta una costruzione tendenziosa e operosa nel far credere il Lombardo colpevole dei più turpi omicidi:

“D Nicolò Lombardo che capitanava una masnada di assassini portossi

in una stalla ove mio marito D Rosario Leotta trovavasi nascosto per inscamparsi la vita di già minacciatagli lo fece da lì uscire porgendogli un bacio, alchè io gli dissi che quel bacio era il bacio di Giuda, e lo condusse in questo Seminario: nel dopo pranzo di quel giorno la masnada di quelli assassini lo fecero da colà uscire portandolo seco loro per sino per la strada così detta dello Scialandro e gli scaricarono una gran quantità di fucilate che lo tolsero di vita.

Soggiungo che il D Nicolò quegli che se lo prese dalla stalla e gli diede un bacio suppongo che egli sia stato la causa prima di tanti eccidi. Per quanto riguarda gli autori dell’incendio e del furto, posso dire che in casa mia venne una gran quantità di gente tirando fucilate […] confusa non conobbi alcuno” 54.

La stessa poi fa un elenco delle persone che le era stato riferito essere sul luogo dell’omicidio: elenco che tuttavia, non comprende Nicolò Lombardo.

Nella pittoresca narrazione dell’episodio del bacio di Giuda, la narratrice tuttavia, omette di considerare un dettaglio, quello che, nella coscienza popolare, il seminario era un luogo sacro e che forse il Lombardo non avesse voluto fare il male di Don Rosario Leotta, ma avesse invece cercato di salvargli la vita ricoverandolo proprio nel suddetto seminario. Come in realtà lo stesso conferma successivamente il

53 Cfr. Dichiarazione di Nunzio D’Andrea Processo, faldone I, foglio 27. 54 Dichiarazione querelatoria di Antonina Catania, Processo, faldone I, fogli

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9 agosto in sede di dibattimento rispondendo alle accuse mosse personalmente da Donna Antonina Catania: “il Lombardo […] ha detto

di essersi prestato a rilevare il Leotta per incarico del Questore di Catania per solo oggetto di salvargli la vita”55.

La conferma ulteriore ce la fornisce la successiva testimonianza di Giuseppa Catania, la quale narra, infatti, del proprio figlio Vincenzo Saitta, ucciso proprio Rosario Leotta.

“La dimani giorno quattro preparandosi detto mio figlio di unita il sig.

D Rosario Leotta per recarsi in Catania, mentre trovavansi nel Seminario venne una gran quantità di persone le quali volevano uccidere tanto il cennato mio figlio, quanto il Leotta: taluni si opposero dicendo non esser conveniente ucciderli colà, mentre quello era un luogo sacro ma piuttosto condurli fuori il paese e lì fucilarsi56”.

In realtà a conferma dell’intenzione di Lombardo che era quella di salvare le vite degli infelici designati ad essere il capro espiatorio per le nefandezze della classe agiata, sovviene Benedetto Radice il quale narra appunto dell’episodio come di un escamotage elaborato dal Lombardo e dal Questore De Angelis per consentire l’uscita dei reclusi senza danni per gli stessi, sul presupposto di doverli condurre nelle carceri di Catania57.

Lo stesso dicasi di quanto testimoniato da Donna Rosina Spedalieri, di soli 30 anni, il cui marito era il figlio del Notaio Cannata, ed ucciso sol per quello, la quale indicò come

“capi e per autori di tali eccidi i nominati Francesco Gorgone i fratelli D

Placido e D Nicolò Lombardo, …..Cajno, Arcangelo Attinà inteso Citarello, Carmelo il Cesarotano, ed altri individui, che non so

55 Dichiarazione di Nicolò Lombardo a verbale dibattimentale, Processo,

faldone I, foglio 74.

56 Dichiarazione querelatoria di Giuseppa Catania, Processo, faldone I,

foglio 8.

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specificare i nomi, i quali sotto il pretesto di uccidere i Realisti incitavano il popolo a uccidere quelle vittime innocenti” 58.

Analogamente Giuseppa Catania dichiara sulla uccisione del figlio Vincenzo assieme a D Rosario Leotta, che egli fu ucciso allo Scialandro, riferisce particolari della uccisione, eppure dice che non saprebbe precisare i nomi e cognomi, in quanto narra di un fatto che le viene a sua volta narrato da un terzo soggetto, Francesco Paolo Benvegna59. Anche l’anzidetta teste conclude come la precedente dicendo che i capi degl’insorti erano Francesco Gorgone i fratelli Don Placido e Don Nicolò Lombardo, Carmelo “Cesarotano”, Arcangelo Attinà Citarella, i fratelli Don Silvestro e Don Carmelo Minissale e tant’altri individui di cui non conosceva i nomi.

Nessun riscontro per tali affermazioni, ma solo un riferimento alle

voci che si sentivano in giro. In realtà tutti i testimoni non riferiscono

altro che le voci popolari, nulla di certo nella individuazione dei responsabili, o meglio, ricorrono spesso molti nomi, ma mai quello dell’avvocato Lombardo come autore delle uccisioni.

Ed infatti, mentre ad esempio, per Citarella, nel prosieguo dell’istruzione vennero riscontrati gravi indizi di reità, poiché vi erano numerose testimonianze che lo additavano come concretamente presente all’atto degli eccessi, per Lombardo, resta tutto nell’ambito della voce

pubblica, come tale accertata anche nell’ autorevole pensiero del Giudice

Vasta successivamente.

Stesso tenore delle precedenti ha la testimonianza di Donna Rosina Spedalieri, per intenderci la nuora del Notaio Cannata e moglie dello

58 Cfr. Dichiarazione querelatoria di Rosina Spedalieri, Processo, faldone I,

fogli 6-9. Leggi anche dichiarazione querelatoria di Antonina Catania, ma anche Vincenza Cimbali e Gaetana Celona, Nunzia Avellina.

59 Cfr. Dichiarazione querelatoria di Giuseppa Catania, Processo, faldone I,

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sciagurato Don Antonino la quale fornisce tutta una serie di nomi, senza tuttavia dare riscontri alle sue affermazioni.

Così anche Teresa Zappia, vedova di Nunzio Battaglia, la quale denuncia una serie di individui quali uccisori del proprio marito, intesi “dalla voce pubblica”, tra i quali non vi è mai l’avvocato Lombardo60.

Questi, a riprova della sua estraneità nella organizzazione degli eccidi, non compare nemmeno nell’interrogatorio di Nunzio Spitaleri, reso in occasione della visita domiciliare effettuata dalla Commissione al fine di repertoriare possibili indizi di colpevolezza. Lo Spitaleri, spiega l’organizzazione del posto di blocco, che sarebbe stato creato al fine di non fare uscire i civili da Bronte, e situato in zona Zotto Fondo, nella cui organizzazione non viene mai nominato il Lombardo, che sembra inesistente persino nella strutturazione degli aspetti meramente pratici relativi alla sommossa.

Lo stesso ci narra che un gruppo di Maestri, in linea con le tensioni politiche che vi erano nel paese di Bronte, andarono sotto casa di Don Lombardo “volendolo trucidare”61.

Tale tensione con il gruppo dei Maestri, era dovuta, sembra, al sospetto che molti di essi fossero prezzolati da Thovez, d’accordo con i

civili, per impedire la divisione delle terre, compresi i fratelli Lupo che

appunto non erano ben visti in paese. Thovez, ovviamente, quale governatore di Lady Nelson, era fortemente sospettato di lavorare per impedire la tanto sperata divisione delle terre.

Il suddetto Spitaleri, come gli altri testimoni, nomina alcuni caporioni della rivolta, come i carbonai Gasparazzo, il cui nome ricorre sempre nei racconti testimoniali, ma che, come la storia ci insegna, la faranno franca

60 Dichiarazione querelatoria di Teresa Zappia, Processo, faldone I, foglio

10.

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almeno fino al successivo processo in Corte d’Assise, al contrario dell’avvocato Lombardo il quale, malgrado l’indeterminatezza ricorrente circa il suo coinvolgimento e la nebulosa che aleggia attorno alla sua figura nei racconti dei testimoni, viene giustiziato.

A riguardo si osserva che i Carbonai detti “Gasparazzo” o “Gasparazzi” vengono costantemente nominati nelle fonti, ma come soggetti realmente individuati all’interno del tumulto, nella riproduzione oggettiva di chi era presente ed aveva visto nella confusione gli stessi “armati di grosse scuri incitando agli altri di essere solleciti, e

gagliardi”62. Anche successivamente nel resoconto del carbonaio Francesco Pappalardo, emerge chiaramente come i fratelli Gasparazzo

carbonai fossero tra i più ferventi incitatori alla guerra civile per la

divisione delle terre63.

Vi è una costante nel racconto dei testimoni, l’idea della responsabilità del Lombardo intesa per “voce pubblica”, perché “correva voce di

doversi eseguire con tutta violenza la divisione delle terre”; altro teste

“all’analoga dimanda ha risposto che alla testa degli assassini, che

commisero gli ecidii in Bronte vi erano i fratelli D Nicolò e D Placido lombardo, lo intese per voce pubblica” 64.

Tutto quanto detto conferma che la condanna del Lombardo fu prettamente politica, e che non è riscontrabile alcun ruolo di leader, né nella visione che il medesimo avvocato aveva di sé stesso, né nella percezione che ne avevano i popolani, se è vero che persino il garzone di

62 Dichiarazione testimoniale di Maria Minissale, Processo, faldone I, foglio

40.

63 Cfr. Interrogatorio di Francesco Pappalardo, Processo, faldone I, foglio

97.

64 Interrogatorio di Nunzio D’Andrea, Francesco Paolo Benvegna, Nunzia

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Lombardo venne visto disarmato proprio nei momenti più feroci della rivolta65.

Era tuttavia, perfettamente comprensibile che si fosse creata, attorno alla figura del Lombardo, fervente attivista politico, vicino alle esigenze dei più deboli, un’aura dai connotati di salvatore degli oppressi che altri non potevano aspirare a rivestire, eppure l’idea che il popolo creò attorno alla sua figura non fu altro che una idea distorta che egli certamente non potè arginare, ma che contemporaneamente nemmeno ambiva ad alimentare durante la rivolta.

Ed ancora persino un possidente, Don Salvatore Mauro, narra che gli era stato riferito che il Lombardo si attivò perché gli inquilini delle fattorie, non pagassero i loro proprietari, ma soggiunge non essere vero quanto si diceva, ovvero che tale operazione avesse lo scopo di evitare esborsi per il fatto che a breve si sarebbero uccisi tutti i civili66.

A riprova del processo di idealizzazione della figura del Lombardo operata autonomamente dal popolo, Radice narra che:

“si faceva correr voce che il Lombardo tenesse corrispondenza con

Garibaldi; il che cresceva a lui prestigio ed audacia agli insorti; e molti del popolo, contadini ed artigiani ingannati da questo supposto, si erano accostati a lui, con l’animo di preparare una grande dimostrazione popolare”67.

Come detto antecedentemente, tra l’altro, a dimostrazione della completa buona fede del Lombardo, alcune persone che lo avevano a cuore avrebbero incitato lo stesso a fuggire da Bixio, ma questi, forte

65 Ancora Nunzio D’Andrea cit.

66 In senso conforme alla nostra opinione sul Lombardo, quale vittima

sacrificale dalla Commissione Mista alle esigenze della storia, si legga L. Riall,

La rivolta, cit., pp. 183 – 184. Ma vd., a proposito, del lavoro della Riall, le

osservazioni piuttosto severe di N. Dell’Erba, dell’Università di Torino, in “Nuova Storia Contemporanea”, 17,2, 2013, pp.83-96.

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della sua idea liberale e confidando nella giustizia terrena, si presentò spontaneamente a rendere le proprie dichiarazioni, deluso dall’esito degli eventi ben lontani dalle proprie speranze, conscio del suo grave dovere di Presidente del Consiglio municipale.

Ciò che qui interessa sottolineare è che persino lo stesso Giudice Vasta, nell’incipit della settima categoria, ammette la tendenziosità delle voci contro il Lombardo, appunto dichiarando che essendo stato costui “condannato e fucilato mi pare opera soverchia il cennare qui in seguito

una filza di deposizioni di voce pubblica (sottolineato sulla fonte) che lo trassero a morte”68. Ed è proprio tale sottolineatura che ci convince proprio della nostra tesi e che rafforza l’idea della estraneità dello stesso Lombardo, purtroppo riconosciuta posteriormente.

In relazione al Giudice Istruttore Vasta, può ben esaminarsi anche la profonda criticità dello stesso che emerge dalle stesse considerazioni, talvolta tristi, talvolta persino ironicamente tragiche, che lasciano intravedere quella consapevolezza sulle pecche delle indagini compiute in precedenza.

L’insieme di appunti e sottolineature opportunamente atti ad evidenziare alcuni punti critici delle prove raccolte ed esaminate, nonché il susseguirsi a volte in maniera sparsa di punti esclamativi e considerazioni amare la rendono una fonte interessantissima per l’indagine compiuta dalla scrivente, che vi si accosta con curiosità proprio per la particolarità dell’interlocutore, seppure divisa da esso dalla distanza temporale di circa 150 anni.

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Emerge un tentativo di obiettività da parte del Giudice nel valutare spesso l’attendibilità dei testi, sebbene si possa immaginare che ciò non fosse del tutto sufficiente a scongiurare testimonianze del tutto parziali69.

Ancora si rileva dalle fonti la grande considerazione che aveva il popolo del Lombardo, sebbene non emerga mai un concreto indizio della circostanza che sia stato questi a voler acquisire tale condizione di rilievo nella mente dei propri concittadini. Si legga a tal proposito la testimonianza di Antonio Uccellatore Fragraro, in una delle poche narrazioni veramente dirette che ci è dato conoscere della rivolta, per quanto scevra anch’essa di riferimenti utilizzabili ed oggettivi. Questi, quando riferisce della fine del figlio del Notaio Cannata, Antonino, rivela di avere sentito dalla bocca di Francesco Gorgone “condottiero di quegli

assassini di doversi rispettare la casa Lombardo, e famiglia”70. Ciò a

significare che i rivoltosi avevano rispetto del Lombardo, ma probabilmente perché era un liberale dalla parte del popolo, perché percepiva intimamente le esigenze della gente e sapeva tradurle in istanze politiche. Fu questo che provocò, nell’animo della collettività, un processo di idealizzazione tuttavia non consapevole, né mirato e consenziente da parte del Lombardo.

69 Si legga Processo, faldone VII, foglio 86: “Il solo Mrò Giosuè Politi disse,

che dalla pubblica voce aveva inteso, che i fratelli Lombardo ne erano stati causa per favorire i Borboni. Richiesto ad accennare le persone dalle quali ciò aveva inteso non si rammentò che del solo D. Mariano Margaglio; il quale ebbe un fratello morto, e la casa incendiata. Vol.2.fol.53 e vol.1.f.173”; al

foglio 87 invece: “L’Arciprete Politi figlio del detto Mrò Giosuè argomentava

che più di D. Nicolò avesse D. Placido contribuito alla guerra civile da che talune donne gli avevano detto dopo la guerra civile che D. Placido ne le aveva prima avvertite. Richiesto l’Arciprete a dare i nomi di dette donne non se ne rammentò; anzi disse che glielo dissero molte in coro, e non potè distinguerne nemmeno una!”.

70 Cfr. Dichiarazione di Antonio Uccellatore Fragraro, Processo, faldone I,

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Ciò consente di affermare che, se capo spirituale vi fu, esso fu creato dalla stessa foga popolare, dal processo di idealizzazione e proiezione di tutte le proprie istanze magmatiche, nella figura di un uomo che sapeva renderle in un linguaggio comprensibile ed elevato al livello istituzionale. Non certamente fu Lombardo a candidarsi a tal ruolo. Lo stesso Benedetto Radice ne parla e ne narra come di un soggetto che, ad un certo punto, aveva perso il proprio ascendente sui popolani i quali, travisando i suoi insegnamenti e la pietas mostrata dal civile verso la questione sociale brontese, aveva distorto il suo riformismo liberale a favore di quei comportamenti aberranti che in quel momento di anarchia divenivano più semplici a soddisfare la fame immediata di beni materiali essenziali alla vita quotidiana ed alla sopravvivenza71.

“Il Lombardo e il Saitta speravano colla propria autorità poter

raffrenare gl’impeti della folla. Rattristati da quelle scene vandaliche e temendo peggio, corsero qua e là consigliando, pregando; ma non essendo facile ridurre a obbedienza moltitudine sfrenata, nulla poterono i loro consigli e le loro preghiere. La folla non sentìa altra voce che quella della vendetta, nè riconobbe più i capi da lei stessa eletti; onde ebbra di dissolvimento e di strage, parte corse a dare il sacco ad altre case, parte andò di luogo in luogo con istinto di segugi, snidando i sorci, i realisti”72.

Nessuna tendenza filoborbonica dunque, come prospettato dagli oppositori del Lombardo, anzi Radice rileva che addirittura Lombardo era ben conosciuto negli ambienti catanesi come liberale, ed infatti, “quando fu fucilato nessuno sospettò che ciò fosse avvenuto perché

reputato borbonico, ma invece come eccessivamente rivoluzionario”73.

71 Cfr. Scalia, Il processo, cit., pp 39 ss. 72 Radice, Memorie, cit., p. 453.

73 Ibidem, p. 493. A questo riguardo Radice ricorda che il Senatore Carnazza

Amari, qualche tempo dopo gli accadimenti, gli aveva scritto che nessuno negli ambienti liberali catanesi sospettava che la fucilazione fosse avvenuta perché il Lombardo veniva ritenuto borbonico, ma piuttosto perché era considerato eccessivamente rivoluzionario.

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Sempre Radice riferisce quanto il medico di bordo di Bixio, Dottor Mariano Salluzzo, avrebbe raccontato all’avvocato Placido De Luca:

“Sappiamo altresì che più tardi, nei lontani mari asiatici, ove sconsolata

morte lo colse, ragionando egli a volte col suo medico di bordo Dottor Mariano Salluzzo dei delittuosi fatti di Bronte e della fuciliazione del Lombardo, saputo che questi non era stato l’arrabbiato borboniano e l’aizzatore alle stragi, come gli era stato dipinto, sentiva come un incubo sull’animo e troncava il discorso”74 […] (87) Il Dottor Salluzzo

raccontava ciò all’avv. Placido De Luca. Richiesto da me il Salluzzo con