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Stato e società locale Il sistema sociale extralegale

Capitolo II QUADRO SOCIO STORICO

2.10. Stato e società locale Il sistema sociale extralegale

Al quadro storico - sociale già delineato deve aggiungersi un ulteriore accenno, nel panorama dei rapporti tra Stato e società locale, al sistema sociale extralegale in Sicilia esistente.

Come detto, il contesto storico era quello in cui il tradizionale squilibrio nella distribuzione delle risorse economiche e della ricchezza andava di pari passo con un potere politico che si disinteressava delle questioni sociali, o di procurare il vantaggio comune e che lasciava coesistere un sistema stragiuridico, un “sistema sociale extralegale”; esso era generalmente accettato e basato sulla coercizione e sulla violenza, tollerato dal governo centrale che vi accondiscendeva.

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Ciò ovviamente si rifletteva sulla gestione degli affari pubblici, asserviti alle esigenze delle classi dominanti, o di chi era in grado di usare la violenza, a scapito delle moltitudini di coloro che, non in grado di commettere angherie e malefatte di ogni genere, soccombevano, in una sorta di selezione naturale.

Tale concetto esprime una realtà sociale dove si percepisce a livello comune l’assenza di norme di riferimento coercitive e l’assenza di una autorità che difenda i cittadini da tali distorsioni e ne persegua il bene comune.

Quello che si rappresenta a chi studia del contesto meridionale nel periodo pre e post unitario è una situazione di isolamento dal contesto di legalità astratta derivante dalle norme di ordine pubblico. A prescindere dalla ovvia considerazione delle difficoltà di transizione tra vecchio e nuovo regime post-borbonico, ciò che interessa è comprendere in quale tipo di contesto mentale sorge il moto brontese.

La realtà giuridico-sociale del periodo era caratterizzata dalla presenza di una fitta rete di regole consuetudinarie che lasciavano ai margini le norme di legge e gli apparati governativi volti alla loro applicazione.

La sensazione di Franchetti è, infatti, quella che la società sia fondata sulla “presunzione che non esista autorità pubblica” 74, o che, per meglio dire, le frange governative che avessero voluto ricondurre il sistema meridionale alla legalità, fossero prima o poi invischiate in quel sistema consuetudinario di pressioni apparentemente amichevoli da parte dei

malandrini, assorbiti, prima o poi, nelle maglie delle forze governative di

74 Il Franchetti, già ampiamente citato in precedenza, autore di una

importante indagine sociale assieme al Sonnino, ci offre molti spunti di approfondimento su quella che era una realtà incancrenita da anni di adattamento alle consuetudini più che al diritto. Egli può ben affermare, che “il

maggior numero d’ ogni classe e d’ogni ceto è oppresso e soffre, ma per lo più non se ne rende neppure conto”, Franchetti, Condizioni politiche, cit., p. 14.

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controllo, ossia, negli uffici, nelle forze armate, imbrigliando con le loro collusioni non del tutto legali, anche l’apparato statale.

Tutto ciò si traduce nella pratica impossibilità di ricondurre alla legalità proprio i principali registi dell’illegale, risultando spesso le azioni di repressione dell’autorità semplici punizioni di meri capri espiatori, e per ciò stesso inefficaci.

Sembra emergere un rapporto tra Stato e società locale basato su equilibri di reciproco rispetto e tendenti ad evitare ogni reciproco fastidio; ciò porta alle tristi collusioni tra Stato – società locale e da qui proprietari terrieri e mafia, o anche solo tra i singoli campieri che reggevano il compito di mantenere i contatti con il lato oscuro della società meridionale, ma vi sono anche tristi legami ed un continuo interscambio tra giudici e sistema extralegale, impiegati pubblici e attività criminali.

È come una disillusa accondiscendenza a quel circolo vizioso che da un lato non consente la protezione dell’autorità, dall’altro – conseguenza e contemporaneamente causa – impone l’affidarsi a delle pulsioni, a delle spinte illegittime che mantengono lo status quo, consistendo, questo, nel

male minore.

In altri termini, è spesso più sicuro ed affidabile restare invischiati nelle maglie dell’omertà e del protezionismo dei potenti, rispetto alla denuncia formale delle situazioni e delle ingiustizie che altrimenti sarebbero facilmente individuabili.

L’indagine sociale compiuta dal Franchetti e dal Sonnino, evidenzia una prevalenza dell’interesse/violenza privata, sull’interesse sociale/pubblico, o, ancora più in dettaglio, emerge un quadro sconfortante dell’asservimento dell’interesse pubblico all’interesse dei privati, attraverso il vantaggio che derivava alle mafie locali

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dall’accondiscendenza del potere centrale a quella situazione di disordine periferico controllato dalle forze illegali.

Ecco che allora si deformano le testimonianze in giudizio, si lima la realtà di fronte all’autorità, che diventa impotente a reprimere gli abusi.

Accanto alla struttura ufficiale e all’ordinamento ufficiale statale, si aveva una struttura parallela locale che era caratterizzata proprio dall’egemonia dei proprietari latifondisti, che la esercitavano attraverso la folta schiera di loro intendenti e guardiani armati, campieri e gabellotti i quali vessavano la popolazione, soprattutto contadina, creando un malcontento generalizzato: vige in Sicilia, una situazione dove regna la legge del più forte. Il più forte è colui che ha solidi agganci con la sotterranea schiera degli illegali, e, che per tale motivo può, in linea di massima, vivere indisturbato la propria situazione al di fuori della legge75.

75 “Negli ultimi secoli del regime feudale in Sicilia, la legislazione conteneva

due principii contrastanti fra di loro. L’uno, che segnava la transizione fra il diritto feudale e il moderno, proibiva talune violenze, non riconosceva le guerre private, conteneva come un barlume del concetto dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla giustizia, ed affidava allo Stato la guardia di questa. Era un oscuro ed inconscio sentimento del diritto moderno che si manifestava con alcune leggi sconnesse fra di loro, non ispirate da un concetto complessivo, ma piuttosto provocate ad una ad una da fatti che principiavano ad essere dallo Stato considerati come disordini. Questo principio non aveva organi efficaci per imporsi. Le poche leggi che s’informavano ad esso, si rinnovavano ogni tanto, sempre ugualmente inosservate. Si appoggiavano sopra una istituzione inefficace: la Gran Corte regia di giustizia. Era insomma diritto esclusivamente teorico. L’altro principio era quello del diritto feudale vero e proprio. Appoggiato sopra un organismo completo ed efficacissimo, perchè costituito dalle forze sociali realmente esistenti, sancito e completato dal diritto consuetudinario in vigore, il quale spesso era in contraddizione perfino col diritto feudale teorico, prevaleva sull’altro non solo nel fatto e negli animi delle popolazioni, ma anche in quelli dei governanti. Era, salvo pochi casi eccezionali ed isolati, il solo osservato. Ed a questo solo intenderemo di alludere ogniqualvolta nel corso del nostro ragionamento parleremo del diritto positivo in vigore in Sicilia nel tempi feudali”. Franchetti, Condizioni politiche,

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Ciò anche in relazione alla emersione di una ristrettissima classe media la quale sempre in aggiunta alla abolizione della feudalità, contribuì ad allargare leggermente le file dei prepotenti e dei possidenti di terre e denaro, dilatando leggermente il potere meramente consuetudinario della forza, e rendendolo maggiormente accessibile a più persone76. Diciamo che l’abolizione della feudalità fu un atto semplicemente formale che si inserisce in un continuum di prepotenza e ne modifica il sostrato in cui essa si nutre e si rigenera, rafforzandosi e mettendo le sue radici in terreni non più solo baronali, ma bensì anche meno elevati.

Deve quindi rilevarsi la totale inefficienza dell’apparato amministrativo siciliano, inadatto ed impreparato a ricevere le spinte progressiste e le riforme legislative che potessero portare la Sicilia alla pari con lo sviluppo non soltanto inglese, ma di molti altri Stati europei.

Le stesse iniziative borboniche, ad esempio, volte ad una riforma della legislazione per quanto riguarda gli aspetti economici, furono prive di quella efficacia concreta che avrebbe consentito una rapida evoluzione sociale in linea con i paesi più progrediti, e ciò collocava il popolo ai margini della scena politica meridionale, dove le scelte che lo riguardavano, erano frutto di collusioni sotterranee tra classi sociali a favore di questo o quel monarca, dove la borghesia adattava i propri favori alla legge del più forte, alla estrema ricerca del fine ultimo del proprio interesse individuale.

76 “Per modo che la società siciliana, immediatamente dopo l’abolizione

della feudalità, aveva tutti i caratteri di quelle dei rimanenti paesi d’Europa nel Medio Evo. Distribuzione disugualissima della ricchezza; mancanza assoluta del concetto di un diritto eguale per tutti; predominio della potenza individuale; carattere esclusivamente personale di tutte le relazioni sociali; il tutto accompagnato, com’era inevitabile, da una grande asprezza negli odii; dalla passione della vendetta; dal concetto che chi non si fa giustizia e non si vendica da sè non ha onore”. Franchetti, Condizioni politiche, cit., nota 2 p. 81.

Capitolo III – LA RIVOLTA

3.1. Premessa

Per capire com’era strutturata la società brontese si riporta un passo molto rilevante la cui redazione minuziosa dobbiamo allo studio del Longhitano:

“Dodicimila all'epoca dei fatti, erano 8.862 gli abitanti di Bronte al

censimento del 1832, quello di cui si conservano le carte con le indicazioni nominative presso l'Archivio di Stato di Catania.

La povertà di grandissima parte di questa popolazione era nota. La mitologia relativa alla presenza d'una grande attività industriale nella Sicilia preunitaria può trovare anche a Bronte le sue pezze d'appoggio. Pensiamo un momento alle professioni femminili: il censimento del 1832 conta diverse centinaia di “filatrici” e di “industriose”. Esse però non appaiono nel sommario finale di condizioni e professioni redatto dai responsabili delle operazioni censuarie, a conferma che tali qualifiche - applicate peraltro esclusivamente alle donne capofamiglia, le vedove in particolare - erano nella stragrande maggioranza dei casi, a Bronte come altrove, nulla più che pietosi sinonimi di «povera».

Su quasi 2.000 maschi adulti che dichiaravano una condizione professionale, i bracciali erano 1.212 e i pecorai 249. Diciannove erano coloro che dichiaravano titolo o professione di legali, dieci i medici, sessantacinque i preti, trentadue i monaci, nove i notai e tre i farmacisti. Venivano poi le diverse attività artigianali, tra le quali erano più rappresentate quelle di calzolaio (75), falegname (46), muratore (43), ferraio (40). Centoquindici, tra uomini e donne, erano i possidenti senza

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altro titolo, otto quelli che, senza altro titolo, potevano fregiarsi di quello di proprietari”1.

Tale passo ci consente di osservare il fenomeno attraverso una prospettiva più demografica che consente di valutare quale sia stata la successione di eventi che hanno portato alla rivolta, il tipo di legami che vi erano tra i membri della collettività, e i rapporti di potere che erano presenti nella piccola comunità. Sicuramente sol che si guardi alle caratteristiche del fenomeno in esame, inquadrato nel più ampio flusso storico dell’Unità italiana, non può non rilevarsi come esso sia un episodio a sé stante.

Quella brontese era una società che, pur mostrando in apparenza di rispondere agli stimoli storici esterni, pur tuttavia rimaneva ferma e chiusa nella propria immutabilità, costituita da rigide classi, ruoli precostituiti, leggi non scritte che nel corso dei secoli hanno caratterizzato il paese e il territorio circostante.

La politica, in tale contesto, veniva intesa, non come strumento dialettico di confronto di tutte le classi sociali, secondo la sua accezione naturale, ma come sostegno pseudodialettico delle istanze delle sole classi più ricche ed agiate.

La vicenda, ed il suo breve percorso storico, sembra la manifestazione emblematica di quella anomia teorizzata da Durkheim dove l’assenza di chiare e socialmente accettate norme sociali crea una disgregazione culturale, ed una attenuazione del vincolo solidaristico di gruppo. Ovvero, se sono generalmente accettate le regole sociali e si mostra una certa docilità a quella che è la gerarchia del benessere socialmente vigente, ciascuno vive, cioè, “in armonia con la propria condizione” e accetta che le proprie aspirazioni possano muoversi in un range ben

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determinato, senza spingersi oltre, poiché la maggioranza ritiene equo l’ordine sociale; ciò avviene, ovviamente, quando questo non sia imposto con la forza e non sia tollerato per mera abitudine. Nel momento in cui interviene qualche mutamento che fa emergere l’insoddisfazione e la mancata accettazione delle regole sociali subentra l’anomia, in termini di “ambizioni sovraeccitate”2. Ciò trova delle notevoli concause nell’affievolimento della forza della religione e della politica a favore della presa di potere dei gruppi borghesi.