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Contatto sociale, urto culturale e trauma

1.2. Approccio sociologico

1.2.3. Contatto sociale, urto culturale e trauma

In relazione alle caratteristiche del nostro oggetto di studio, non abbiamo potuto non dedicare una breve parte del nostro excursus alla valutazione del tipo di rapporto tra gruppi sociali inteso come coesistenza tra nuclei ideologici e valoriali differenti, soprattutto alla luce dei concetti di contatto sociale, urto e trauma culturale.

Il contatto sociale è l’incontro tra due differenti società, che nello specifico, poiché coinvolge inevitabilmente il complesso del patrimonio valoriale e culturale degli individui intesi come insieme, si definisce, in questo senso, come contatto culturale. Ove tale contatto sia spontaneo si verifica un processo di integrazione o anche assorbimento unilaterale di elementi derivanti dall’uno o dall’altro gruppo sociale, mentre nel caso in cui tale contatto si verifichi in modo violento può parlarsi di scontro

culturale o urto, caratterizzato, secondo la definizione fornita da G. J.

Kaczyński, (Il Sacro ribelle, cit., p. 38), da una forma di “oppressione

culturale”.

L’incontro tra società, tuttavia, è un processo complesso per la molteplicità di elementi che caratterizzano proprio il concetto di cultura, e pertanto possiamo affermare che tali contatti si realizzano su molteplici piani differenti a seconda del contesto di riferimento. Questa premessa è necessaria per comprendere un altro concetto che si inserisce nel quadro dell’incontro tra società/gruppi, allorchè avvengono mutamenti della realtà normale che comportano una ridefinizione traumatica di valori, tradizioni, concezioni religiose, economiche, politiche, costumi e

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abitudini di vita. Quando un mutamento sociale interferisce in un assetto culturale (società) caratterizzato e fondato su un valore prevalente, e altera la visione del mondo socialmente percepita, crea disorientamento culturale, disorganizzazione, “uno stato di confusione identitaria e

dissonanza cognitiva”57, che vanificano la percezione del proprio contesto, vissuto in relazione al valore di riferimento prevalente. Può parlarsi in questo caso di trauma culturale, come mutamento sociale che destabilizza le identità culturali individuali e collettive, ovvero una situazione psicologica che, se collettivamente condivisa, può diventare fattore di coesione del gruppo e originare il movimento sociale58. In tal senso, ove un mutamento sociale sia stato traumatico, poiché ha modificato il complesso del sistema valoriale su cui si fonda la società, esso può condurre al movimento come mezzo per far fronte alla situazione. L’uso epistemologico del concetto viene ad essere genericamente applicabile a seconda del tipo di ricerca e della componente valoriale prevalente all’interno dell’oggetto di studio. La nozione di cultura, infatti, viene ad essere l’insieme, come detto, di tutta una serie di componenti che con differenti intensità caratterizzano le varie società e, in tal senso, l’esaltazione dell’uno o dell’altro aspetto caratterizza anche la protesta rapportata al tipo di trauma culturale.

Ciò che inoltre deve verificarsi è una condivisione della percezione

soggettiva del trauma, tanto da determinare l’impulso al mutamento della

situazione che si allontana dagli standard di normalità diffusi in un determinato contesto; è proprio questa percezione generalizzata e

57 Kaczyński, Il Sacro ribelle, cit., p.79.

58 Ibidem, pp. 52, 75 ss, dove lo studioso, rielabora la definizione di trauma

culturale, fornita da Sztompka alla luce di una interessante applicazione

epistemologica allo studio dei movimenti religiosi, sottolineando la diversificazione e le tipologie dei vari mutamenti culturali che toccano una società.

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collettiva della realtà come conflittuale che porta, in alcuni casi, alla violenta reazione con il possibile sbocco nel movimento sociale che viene ad essere un mezzo per ristrutturare la realtà.

Definiamo antagonismo la tendenza ad agire per causare effetti potenzialmente sfavorevoli all’oggetto sociale. L’antagonismo, inoltre, quando è riferito a più soggetti, e quindi collettivo si avvale meno della riflessione individuale e più del desiderio dei singoli di aiutare la massa.

Appare ovvia la considerazione che una percezione di un determinato gruppo come estraneo, con il conseguente collegato sentimento di antagonismo sociale, fa sì che ogni individuo che venga percepito come appartenente a quel gruppo sia inglobato in questa negativizzazione sociale e considerato oggetto di antagonismo, prescindendo dalle motivazioni reali.

L’individuo appartenente al gruppo antagonista, viene quindi concettualizzato in astratto come oggetto negativo su cui riversare l’azione.

In tale contesto è rilevante il concetto di cui parla Mazzoni di

percezione attraverso stereotipi e pregiudizi. Lo stereotipo è un

atteggiamento mentale rivolto ad un insieme di persone (gruppo) che annulla le differenze individuali per unificare la conoscenza/percezione del gruppo sotto le caratteristiche comuni. Ciò significa che gli individui appartenenti ad un gruppo saranno oggetto di pregiudizio e pertanto verranno valutati dagli altri solo in quanto portatori delle caratteristiche del gruppo e non di quelle individuali. Ciò influenza non solo il modo di agire delle persone nei confronti dell’appartenente al gruppo, ma influenza, in alcuni casi, anche l’agire dell’individuo stesso il quale,

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anche inconsapevolmente potrà assumere atteggiamenti, modi di pensare etc, tipici degli individui del dato gruppo di appartenenza59.

Si crea in taluni casi quello che è stato definito “legge di

negativizzazione”60; in questo caso, “l’animosità di una persona nei

confronti di un gruppo estraneo si approssima all’antagonismo collettivo quando una persona agisce non sulla base dei danni da lei subiti, ma subiti dal suo gruppo”61.

In un contatto spaziale problematico in cui non è possibile realizzare quella separazione territoriale auspicata tra i gruppi antagonisti, può verificarsi il “separatismo di transizione durante gli incontri” misto alla “costante segretezza attorno agli affari del gruppo”; questo processo ha una sua rilevanza nella formazione di un nucleo autonomo in quanto questo si consolida proprio a partire dalla manifestazione della volontà di separarsi dagli altri62.

L’antagonismo, inoltre, si trasforma da difensivo in aggressivo quando la collettività percepisce l’invadenza del gruppo estraneo nel proprio sistema, in quel sistema chiuso le cui barriere sono create per non essere oltrepassate.

Gli altri, infrangendo le barriere, anche solo spiritualmente, si “appropriano dei valori materiali e spirituali” della collettività, li plasmano secondo le esigenze dei propri sistemi e li “profanano”63.

Ciò fa nascere nella collettività il desiderio di annientamento dell’estraneo percepito come minaccioso. Tale ipotesi viene descritta da

59 Cfr. Mazzoni, Psicologia, cit., pp. 56 ss.

60 Cfr. G. J. Kaczyński (a cura di), Saggio sull’antagonismo sociale,

Znaniecki F., Armando, Roma 2008, p. 85.

61 Ibidem, p. 94. 62 Ibidem, p. 103.

63 Ibidem, p.115. Ricordiamo che nel caso studiato non vi era separazione

fisica tra gruppi, ma vi era un continuo contatto quotidiano: le barriere erano più che altro mentali ed economiche.

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Kaczyński, (Il Sacro ribelle, cit., pp. 38 - 39) come contatto culturale

violento, e determina un ambiente sfavorevole alla integrazione culturale

ed al mutamento sociale che non sia conflittuale.

Quando la relazione tra i gruppi che detengono il potere ed i gruppi che ne subiscono l’influenza/decisioni è forzata e per niente spontanea, è dettata più dalla necessità che dal reale meccanismo di “assorbimento di

elementi culturali alieni”, ciò porta ad una

“asimmetria nello scambio reciproco; in altre parole, i dominati

subiscono la cultura dei dominatori anche se esiste sempre una reciprocità […] si crea una situazione sfavorevole a qualsiasi integrazione culturale e mutamento sociale”.

In questo senso il contatto culturale sopra accennato appare chiaramente un urto culturale che determina nei protagonisti un “programma di rinnovamento del mondo” a carattere prevalentemente rivoluzionario, seppure non strettamente legato alla religione, ove il motivo principale è la totale negazione dell’ordine culturale dominante e percepito come estraneo ai valori propri del gruppo di appartenenza64.

In questa indagine sulla rivolta contadina brontese è interessante valutare l’incontro tra le varie diverse classi sociali coinvolte alla luce della prospettiva sopra esposta, poiché le radici dell’antagonismo e le cause più profonde che oppongono uomini ad uomini, o gruppi di individui ad altri gruppi possono essere riscontrate, appunto, nella oppressione socio-politica ed economica operata dalla minoranza borghese-inglese, sulla popolazione 65. Questa oppressione protratta nel

64 Cfr. Kaczyński, Il Sacro ribelle, cit., pp. 38-39 e 283.

65 Lo stesso Radice definisce la rivolta brontese come una “lotta sanguinosa

di classe”, criticando la posizione assunta dal Consiglio civico nella seduta del

23 novembre 1860, palesemente volta ad insabbiare le vere ragioni economico- politiche della stessa, cfr. Radice, Memorie, cit., p. 517, nota n. 120.

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tempo ha destabilizzato i sistemi valoriali e culturali della classe più umile esasperando l’antagonismo, in una società dove le interazioni tra i mondi culturali diversi si realizzavano in un microcosmo geografico, dove i pregiudizi erano eminentemente di ceto sociale.

La concezione che vede la società come conflittuale, viene descritta dal Treves come la concezione che intende

“la società divisa in parti, in classi contrapposte e dilaniata da conflitti

insanabili, da lotte violente in cui il trionfo di una classe conduce fatalmente alla soppressione, all’annientamento dell’altra classe” e il

diritto come “una variabile dipendente rispetto alla parte della società

che detiene il potere e dispone della forza ed è, dall’altro lato, una variabile indipendente rispetto alla parte della società che non detiene il potere, che non dispone della forza e che finisce quindi per essere subordinata e oppressa dalla parte opposta” 66.

In questo contesto sorge alla mente la lucida analisi marxista del rapporto tra diritto e Stato, ripresa dal Treves, laddove evidenzia che spesso il binomio, non è rappresentativo della intera compagine sociale ma solo di una sua parte, costituita dalla classe dominante in un determinato momento storico.

Anche se è difficile riconoscere la possibilità auspicata da Marx ed Engels di una completa estinzione delle classi e dei conflitti di classe, possiamo però riscontrare nella teoria suddetta un importante faro per il nostro lavoro che ci consente di individuare uno dei punti nodali della questione.

Ancora da porre in evidenza è, a prescindere dalla concreta organizzazione economica come punto focale del conflitto tra le classi, la reale differenza di ricchezza e di opportunità reddituali tra gli individui,

66 R. Treves, Introduzione alla Sociologia del Diritto, Einaudi, Torino, 1977,

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seguendo una linea teorica che dal prestigio67, sino al potere politico, ci riporta ad alcuni interessanti spunti concettuali del Weber di circa sessant’anni dopo lo storico evento.

Il punto rilevante è la nozione di “opportunità” , la cui carenza in una società conduce ad un livello di frustrazione individuale/sociale critico.

In tal senso appare illuminante il principio secondo cui “le persone si

riuniscono in gruppi non solo per svolgere compiti e per soddisfare esigenze sociali, ma anche per dare sfogo e sollievo a sentimenti sgradevoli”68.

Inoltre:

“nelle società più semplici che comprendono quasi totalmente la vita spirituale dei suoi membri, chi non appartiene al gruppo è più spesso e a lungo percepito come estraneo di quanto non accade presso le società più complesse, dove ogni membro appartiene a più gruppi che si intrecciano”69.

Una ulteriore considerazione va fatta circa un altro aspetto che abbiamo ritenuto di rilievo per le analogie che mostra con la forma di protesta studiata, ove è oramai assodata la presenza di individui che conducevano una esistenza ai margini della legalità. Durante lo studio, ed in particolare ricercando tra le forme di primitive proteste sociali organizzate, ci siamo imbattuti nella figura del banditismo sociale, come entità a sé stante spesso assecondata e protetta dal popolo, che vede negli “eroi” banditi proprio coloro che hanno in nuce il germe del riscatto sociale.

67 Prestigio come posizione di preminenza sociale, appannaggio di pochi

elementi e non necessariamente coincidente con il potere economico.

68 Smelser, Manuale, cit., pp. 260 e 144. 69 Kaczyński (a cura di), Saggio, cit., p.66.

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Esso è l’emblema di una forma di accettazione e di assorbimento di sistemi valoriali ritenuti vicini ai propri, malgrado le caratteristiche dei soggetti portatori di tali valori non rientrino nel sistema legale ufficiale.

Il bandito nell’immaginario collettivo assume le fattezze di chi può sollevare i miseri dal contesto di povertà ed abbandono istituzionale in cui si trovano calati a seconda del periodo storico di riferimento70.

La caratteristica comune a prescindere dai diversi contesti storici in cui ci si muove, è che si diventa banditi per aver commesso qualche atto che, apparentemente non grave, come tale viene invece qualificato dall’ordinamento giuridico vigente, o addirittura, perchè inconsapevoli delle conseguenze che possano derivare dall’azione appena commessa. Si tratta spesso di azioni socialmente approvate (spesso dettate, come è ovvio, dalla fame e dalla miseria) che oggi farebbero sorridere per la tenuità del danno che ne deriverebbe, o per la possibile applicabilità di

70 Caratteristica del bandito sociale era l’essere “coperto” dalla propria

gente: avere un contesto sociale di riferimento dove potere attingere per tutti i suoi bisogni, era fondamentale per la propria sopravvivenza. Spesso il bandito sociale sapeva dove trovare da mangiare, da vestirsi, spesso molti del suo paese natale sapevano dove egli vivesse e con chi. Solitamente si trattava di individui più o meno giovani e senza legami che stavano soli o si riunivano in piccoli gruppetti, per ragioni pratico-organizzative.

Si è anche attribuito un consenso borbonico ed inglese alle bande, tra il 1799 e il 1815; ed infatti, pare che, contrariamente a quanto potrebbe immaginarsi, i banditi spesso godessero del favore delle alte sfere statali che consentivano loro di vivere tranquillamente ed addirittura di reintegrarsi in un secondo momento all’interno della società. Così come è notorio anche il consenso borbonico alla camorra, che era vista come sistema sociale extralegale privato, facente

funzione di amministrazione locale, valido deterrente contro il liberalismo.

Il favore verso il bandito, tuttavia, era concesso dalla società di appartenenza, solo ed esclusivamente se egli svolgeva il proprio lavoro con onore, ovvero secondo l’antico motto “rubare al ricco per dare al povero” e uccidere solo per “legittima difesa o giusta vendetta”. Era, volendo mutuare proprio una felice espressione di Hobsbawm, “un secondo governo

nell’interesse dei contadini” .

H. distingue due periodi in cui fermenta la rivolta sociale sulle spalle dei banditi amici del popolo, il periodo 1799-1815 e il periodo successivo al 1860, dove emerge una sorta di “rivoluzione di massa e una guerra di liberazione

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tutta una serie di attenuanti e garanzie giuridiche che ne limiterebbero notevolmente le conseguenze.

Il banditismo sociale è il frutto dell’urto tra classe contadina e Stato, generalmente inteso e confuso spesso con la classe dominante, esso nasce infatti, secondo l’analisi che ne fa Hobsbawm, come “semplice

espressione, piuttosto primitiva, di rivolta contadina […] endemica protesta contadina contro l’oppressione e la povertà”. Si tratta quindi di

un fenomeno precapitalistico e prepolitico a carattere rurale, che sopperisce alla mancanza di metodi alternativi, per le classi contadine, di lotta politica.

Caratteristica del banditismo sociale, come evidenziato da Hobsbawm, è, inoltre, l’assoluta mancanza di organizzazione ed ideologia, che lo distanzia dai movimenti sociali moderni.

Anche qui sovviene, a spiegare la psicologia di tale forma di accettazione popolare del soggetto che vive ai limiti della legalità (evasi, assassini etc) il concetto teorizzato da F. Znaniecki di “nostro” ed “estraneo”, dove appunto nella contrapposizione tra sistemi valoriali si nota la dicotomia tra il sistema ufficiale, supportato dalle classi dominanti, e sistema dei gruppi popolari, spesso in linea con i valori portati avanti dal banditismo sociale o dalle forme di vita ai limiti della legalità. Ciò è chiaramente indicativo delle dinamiche psicologiche comuni anche alla rivolta brontese dove larga responsabilità è da ascrivere proprio agli evasi e delinquenti o a coloro che, pur non essendo pregiudicati, avevano una posizione ambigua nel panorama sociale sotto questo punto di vista; tali soggetti erano percepiti, appunto, come tutori delle istanze popolari poiché da essi stessi condivise, e pertanto collocati in una posizione all’interno del gruppo di riferimento.