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5. Interviste a testimoni e narratori d’Italia ‘90

5.5 Carlo Pizzigoni

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scusa per il fumo passivo che dovevano subire durante le partite, visto che io allora ero un robusto fumatore. Quando infatti mi chiedevano a cosa servisse la seconda voce, molto poco cortesemente, dicevo fosse utilissima, così da potermi dare il tempo per accendere una sigaretta mentre lui parlava. Questa però era soprattutto una battuta, niente di più. Ripeto che per me si può fare benissimo la telecronaca ad una voce, seppur non si possa nascondere come il commentatore tecnico possa portare un importante contributo di esperienza personale di calcio vissuto e sofferto. Noto che all’estero, però, si sta facendo un po’marcia indietro sulle seconde voci. Ad esempio la televisione tedesca utilizza ancora i commentatori sportivi, ma in maniera diversa rispetto al solito. Prima dell’inizio della partita c’è infatti un gruppo di lavoro con giornalisti e commentatori tecnici, ex. calciatori, ex. allenatori o esperti vari, poi dall’inizio del match fino alla fine del primo tempo c’è il commento di un solo telecronista. Successivamente tra il primo e secondo tempo rientra in azione il gruppo di lavoro prima descritto, il secondo tempo ancora ad una voce e poi alla fine il commento con gli esperti. Ecco credo che questa possa essere una formula vincente e una possibile soluzione per il futuro”.

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Quanto secondo lei lo sport può essere considerato un “fatto sociale totale”, ovvero completamente integrato con tutti gli ambiti della realtà sociale in cui si vive quotidianamente?

“Lo sport fa parte della nostra quotidianità, della nostra esistenza soprattutto perché quando si racconta la vita delle persone si parla inevitabilmente anche di sport.

Incide tantissimo nel nostro vivere quotidiano, anche perché parliamo di sport, in Italia soprattutto di calcio, al bar con gli amici, in famiglia, al lavoro, insomma dappertutto. A maggior ragione oggi, con i social network, il web e gli smartphone, lo sport è davvero integrato al massimo nella nostra quotidianità. Basti pensare alla facilità con cui si possa seguire un evento sportivo in diretta o al flusso continuo di notizie che riceviamo sui nostri smartphone, tramite app che permettono tutto ciò”.

Oggi, così come in passato, c’è un grande interesse verso la narrazione densa dello sport, unendo al racconto sportivo spesso elementi della politica, dell’economia o della sfera culturale di una determinata realtà sociale. Come si spiega questo grande interesse per lo sport raccontato in questa prospettiva e qual è il livello, qualitativamente parlando, della narrazione sportiva italiana?

“Proprio per le ragioni prima illustrate lo sport viene narrato e raccontato di generazione in generazione, perché è un macroargomento sempre presente nella realtà in cui viviamo. L’Italia in linea di massima ha una buona storia di narrazione sportiva, seppur per varie motivazioni non eccelsa se confrontata con quella di altre nazioni. La prima riguarda la lingua italiana e il suo limite di essere parlata in Italia e in poche altre zone del mondo, facendo sì che la nostra narrazione sportiva non possa essere esportata in altri paesi. Se per esempio confrontiamo l’Italia con il contesto sudamericano e spagnolo è chiaro come la situazione sia ben diversa. Condividendo infatti la stessa lingua c’è un continuo scambio di produzioni narrative tra i vari paesi della zona, producendo di conseguenza una maggiore ricchezza e varietà in termini di racconti . La seconda motivazione è più connessa alla storia e all’interesse che c’è stato in Italia verso questo tipo di narrazione, un interesse discontinuo e a flussi.

Questo ha fatto si ci siano stati periodi floridi per la narrazione sportiva italiana come

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quello dei vari Brera, Fossati, Arpino o Clerici, veri e propri rivoluzionari nel racconto dello sport, alternati però a fasi in cui la qualità della narrazione italiana era veramente bassa. Soprattutto direi epoche caratterizzate da un bassissimo interesse verso il racconto dello sport, con pubblici che preferivano altri modelli o format. Nel 2010, però, secondo me c’è stata la svolta per la narrazione sportiva italiana, con il programma Storie Mondiali e la figura di Federico Buffa. Egli fu capace di risvegliare l’interesse in Italia per la narrazione sportiva, offrendo un modello chiaro ed efficace d’ispirazione per molti. Una vera e propria rinascita per il racconto dello sport nel nostro paese, possibile soprattutto grazie alle fantastiche capacità narrative di Buffa e al lavoro di tutti coloro che produssero quel format. Producemmo, mi inserisco anche io essendo uno degli autori del format, una formula perfetta, che arrivò in maniera diretta e spontanea a tantissima gente, dai più appassionati ai meno patiti di sport. Il programma infatti fu ripreso da tantissimi canali Youtube, siti internet e pagine social, non limitando quindi la diffusione degli speciali ai soli abbonati di Sky Sport. Tutto ciò testimonia quanto Federico Buffa abbia lanciato un vero e proprio modello di narrazione sportiva, ripreso poi da tanti giovani, i quali a loro modo e con le loro capacità hanno iniziato di nuovo a raccontare lo sport”.

Come da lei accennato in precedenza, in passato l’Italia ha avuto grandissimi narratori di sport come Brera, Fossati, Arpino o Clerici, profondamente diversi per stile e mezzo su cui operavano rispetto a quelli odierni. Grandi personaggi televisivi come Buffa, Marani o Porrà, che hanno lanciato un nuovo modello per raccontare lo sport e i suoi eventi. Secondo lei c’è un filo conduttore che lega queste due forme di racconto dello sport? Ci sono dei punti in comune?

“Inevitabilmente ci sono punti in comune e legami, per esempio sia io che Federico Buffa siamo grandi lettori di Brera. Poi certamente è importante sottolineare come il mezzo su cui operavano Brera e gli altri grandi autori citati era quello della stampa scritta, mentre Federico Buffa opera in televisione principalmente. Sono quindi linguaggi e mezzi profondamente differenti, con obbiettivi e scopi da perseguire assolutamente diversi. Fatta questa precisazione comunque non si può nascondere come, per esempio in Storie Mondiali o nei vari format narrativi televisivi, i grandi

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narratori del passato siano stati una grande fonte d’ispirazione e siano entrati direttamente o indirettamente nello stile di narrazione. Anche perché, come dicevo prima, in Italia non abbiamo altri modelli di narrazione sportiva da poter seguire se non quello dei vari Brera, Fossati, Arpino, Clerici, Mura ecc. Loro sono stati dei maestri e sarebbe impossibile non prendere ispirazione da essi, dalle loro incredibili doti di narratori sportivi e non solo. Allo stesso tempo mi piace sempre ricordare, come modello per i format televisivi come quelli di Buffa, la figura di Philippe Daverio con la sua trasmissione Passepartout. Federico sottolinea sempre come nei suoi programmi ci sia molto dello stile e dell’approccio divulgativo di quest’ultimo grande personaggio televisivo citato, capace di portare l’arte nelle case degli italiani e agli occhi di tanti non appassionati”.

Il Sudamerica è storicamente la patria dei grandi narratori di sport, in cui quest’ultimo si intreccia nel racconto sempre con la cultura, la storia e altri ambiti delle realtà sociali locali. Come mai in Sudamerica c’è questa grande tradizione legata alla narrazione sportiva, calcistica soprattutto, e quali sono le caratteristiche principali?

“Riguardo a ciò credo ci siano prima di tutto da fare delle importanti precisazioni, per capire e spiegare al meglio ciò di cui stiamo trattando. La grande storia della narrazione dello sport, soprattutto del calcio, nasce principalmente alle foci del RÍo de La Plata, sostanzialmente a Buenos Aires e in parte a Montevideo. Nella capitale argentina ci sono stati i primi grandi narratori di sport, sia dal punto di vista scritto sia da quello parlato grazie soprattutto alla radio e alla sua diffusione nel paese. Gli argentini a Buenos Aires sono stati i primi nel mondo a raccontare lo sport e le partite di calcio tramite la radio, avendo così un vantaggio non indifferente rispetto a tutte le altre nazioni del mondo. Mentre gli altri iniziavano a narrare lo sport, loro non facevano altro che ampliare e migliorare un qualcosa che realizzavano già da tempo. Tutto ciò è stato sempre un grande vantaggio posseduto dagli argentini nel campo della narrazione sportiva, facendo sì come potessero essere sempre un passo avanti rispetto agli altri. La storia della narrazione calcistica e sportiva in Argentina è immensa, c’è una vera e propria cultura nel paese legata a ciò incredibile. Una

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tradizione, ci tengo a sottolinearlo, nata in radio e maggiormente legata alla radiocronaca piuttosto che alla telecronaca. Il grande Víctor Hugo Morales spesso diceva come lui non farebbe mai una telecronaca, perché non riuscirebbe a far emergere la sua capacità nel raccontare emozioni senza che la gente guardi la partita.

In televisione si perde un po’ questa magia e viene a mancare il potere del radiocronista nel far immaginare all’ascoltatore il match che racconta. Le radiocronache quindi, più che le telecronache, sono dei veri e propri racconti dello sport, non a caso in Argentina vengono chiamate relatos, racconti in italiano. Il relato infatti non è propriamente una cronaca, ma un vero e proprio racconto in cui devono entrare in gioco l’immaginazione, le emozioni, la fantasia e l’improvvisazione.

Naturalmente per realizzare una narrazione così ricca e varia c’è bisogno di narratori dotati di una profondità e una cultura immensa, spesso presente in molti narratori argentini o sudamericani. Víctor Hugo Morales per esempio posso testimoniare come sia uno di questi, un uomo con una cultura vastissima. Più volte quando sono stato ospite a casa sua mi ha recitato interi canti della Divina Commedia o mi ha parlato di musica classica, con una profondità e una conoscenza incredibile. Lo stesso Osvaldo Soriano naturalmente rientra nella cerchia dei grandi narratori sudamericani oppure mi viene da nominare, con riferimento al contesto moderno, Eduardo Sacheri. Un grande scrittore capace di intrecciare il racconto calcistico all’interno della propria vita e dunque nella quotidianità. Evidenziando quindi un’altra grande peculiarità del contesto argentino e sudamericano, ovvero il fatto di come il calcio sia radicato nel quotidiano in maniera maggiore rispetto per esempio all’Europa. Infine sempre sulla tematica della profondità della narrazione sportiva sudamericana mi piace evidenziare un’altra caratteristica peculiare, legata soprattutto al contesto Brasiliano e in generale a quello sudamericano. Ciò a cui faccio riferimento è l’assenza di divisone tra cultura alta e bassa presente in tutto il Sudamerica, molto forte invece nel nostro paese per esempio. Spesso Brera si è quasi autoimposto di dover scrivere dei romanzi per appartenere alla tradizione letteraria italiana, perché con il solo racconto dello sport non avrebbe mai potuto farne parte. Ecco in Brasile, ma in generale in tutta l’America Latina, non è così, il racconto sportivo non è considerato inferiore a nessun tipo di produzione ed è spesso integrato in opere di grandissimi

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autori. Ciò accade proprio perché non c’è una divisione tra alto e basso dal punto di vista culturale, tutto è più vario e intrecciato”.

L’evento sportivo analizzato nella tesi, per dimostrare come lo sport tramite i suoi grandi eventi sia un “fatto sociale totale”, è quello del mondiale italiano del 1990. Quali sono i suoi ricordi di quella manifestazione, ma soprattutto come fu vissuta e raccontata?

“Fu un periodo molto particolare quello del mondiale italiano del 1990. Dal punto di vista personale ho un ricordo molto nitido della cerimonia inaugurale e della partita poco dopo disputata a Milano, anche perché vissi tutto ciò da una posizione privilegiata. Mi regalarono un biglietto in terza fila in tribuna, da cui si vedeva tutto al meglio. Mi viene in mente l’emozione che provai nell’essere presente ad un evento storico come il mondiale di calcio, per lo più in casa e in una magnifica cornice come quella di San Siro. Quel mondiale, senza voler esagerare, secondo me fu una tappa importante della storia del nostro paese, un qualcosa di raro e unico. Il clima che si respirava all’epoca durante la rassegna iridata era una qualcosa di suggestivo, poche volte vissuto nel nostro paese. La Coppa del Mondo del 1990 fu la celebrazione di un paese con grande voglia di fare e di dimostrare, che ancora non si accorgeva delle difficoltà e delle problematiche che avrebbe dovuto affrontare dopo la fine della manifestazione. Nel racconto di quel mondiale emergeva proprio tutto ciò, si rappresentava un paese capace di offrire mille possibilità, di regalare solo gioie e con un’atmosfera ricca di positività. Purtroppo dopo abbiamo scoprimmo molto altro, tante cose negative e difficoltà portate dall’organizzazione di quel mondiale e non solo. Prima e durante la competizione però non ci si accorgeva di tutto ciò e il filo conduttore delle narrazioni era appunto quello di un’Italia vogliosa di dimostrare al mondo di essere all’altezza delle più grandi potenze europee e mondiali”.

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