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Un caso emblematico: la famiglia Placidi di Siena in giudizio

Alcune decisiones della Rota fiorentina sulla congruità dotale (1742-1784)

3. Un caso emblematico: la famiglia Placidi di Siena in giudizio

L’ultima controversia risolta da una sentenza della Rota fiorentina ci conduce tra gli alterchi dei membri di una nobile e antica famiglia senese, i Placidi. Si è scelto di isolare questa decisio rotale289 e di porvi

dunque l’accento per una serie di validissime ragioni: anzitutto per il coinvolgimento di un’aristocratica dinastia cittadina le cui peculiari logiche rivestono un notevole interesse per lo storico sociale; inoltre perché scorrendo le pagine della sentenza rotale vi si trovano affrontati minuziosamente numerosi riflessi giuridici della nozione di congruitas dotale; infine perché, come nel caso dei Moneta, è presente l’opinione dissenziente di uno degli auditori, il Salvetti, che senza dubbio è degna

di approfondimento290.

Nel 1762 la Rota fiorentina pose fine con una sua significativa decisio ad un annoso e defatigante litigio che turbava la quiete della prestigiosa famiglia senese dei Placidi. L’ostinazione e la pervicacia di alcuni dei membri coinvolti non dovranno destare il minimo stupore: per anni furono in gioco cifre esorbitanti, consone soltanto a un’illustre stirpe. I Placidi erano in effetti una casata degna di nota nel panorama toscano e per secoli protagonista del percorso storico-politico della

città di Siena, riassunto dal Douglas in una sua opera291 ormai datata.

288 Ivi, p. 94.

289 B. Artimini e C. Marzucchi, Raccolta delle decisioni, serie II, tomo IV (1761-

1765), dec. CLXXII, Senen. Pactorum Nuptiualium, pp. 422 e ss.

290 Ivi, dec. CLXXIII, pp. 469 e ss.

Discendenti da Radi, località del contado senese, i Placidi292 risultano

fin dagli inizi del Duecento signori del luogo. Il loro ingresso nella politica comunale non tardò a rivelarsi fruttuoso: Cione ad esempio fu nel 1251 Gonfaloniere dei cavalieri senesi nella spedizione contro i guelfi fiorentini; Bartolomeo d’Aldello ricevette la sottomissione di Grosseto ai Senesi nel 1310; Neri Placidi figurava nello scritto del Pecci tra i “cinque compagni di Pandolfo per concludere accordo co’ Fiorentini” nel 1496293; un certo Giovanni prese parte alla congiura

contro lo spagnolo Diego Hurtado de Mendoza nel 1552294;

Marc’Antonio Placidi, racconta il Gigli, “ebbe l’onore, di essere adoperato dal Cardinal di S. Fiore per la Pace tra Pavolo IV e Filippo

II”295. A cavallo tra tardo Medioevo ed età moderna i Placidi, fino a

quel momento esempi paradigmatici di come i lignaggi rurali dell’aristocrazia potessero reperire nella politica cittadina e nell’impiego negli uffici pubblici un veicolo di promozione, rafforzarono la loro posizione sul territorio, ottenendo “in ricompenza de’ servizi prestati al Pubblico la Signoria del Poggio alle mura nell’Anno 1400 confermata loro da Carlo V” e nel 1455 la “Signoria di Vicarello”296. La longeva famiglia senese raggiunse poi il culmine

del suo successo col riconoscimento ad Aldello e ai suoi eredi e discendenti del titolo di conte per mezzo di un diploma regio di Augusto II di Polonia del 5 luglio 1700297.

Venendo alle circostanze dei Placidi cui la Rota si interessò, il 2 giugno 1739 il napoletano Marc’Antonio Citarella, “Duca di Castel Vecchio”, e il conte Aldello Placidi “Gentiluomo Sanese” si accordarono per la

292 Utili nozioni sulla storia dei Placidi si trovano in G. Gigli, Diario Sanese in cui si

veggono alla giornata tutte le cose importanti, Francesco Quinza, Siena, 1722, pp.

54-56.

293 Cfr. G. A. Pecci, Memorie storico-critiche della città di Siena che servono alla

vita civile di Pandolfo Petrucci, Agostino Bindi, Siena, 1755, parte I, p. 137.

294 Sull’avvenimento e sulla successiva guerra di Siena (1554-1559), v. A. D’Addario,

Il problema senese nella storia italiana della prima metà del Cinquecento: la guerra di Siena, Le Monnier, Firenze, 1958.

295 G. Gigli, Diario Sanese, p. 55. 296 Ivi, pp. 55-56.

297 Questo legame dei Placidi con i reali polacchi sarà ancora più evidente nella

dote da costituire in occasione del matrimonio del primo con la figlia del secondo, Isabella. In particolare, il dotante promise “a titolo di dote alla Signora Isabella Placidi scudi 6000 di lire sette per ciascuno scudo”, da pagarsi come segue: 1700 prima della dazione dell’anello, 300 in ornamenti ad uso della sposa, 1000 dopo la morte di sua moglie, la contessa Elisabetta Capece, altri 1000 dopo la sua stessa morte e infine 2000 tramite la rinuncia della contessa all’annua “corresponsione, che in contanti annualmente esige in Parigi nella somma di franchi 400 in virtù del Legato alla medesima fatto dalla chiara memoria della Regina di Pollonia pel servigio prestatole a titolo di Dama di onore nella di lei Corte298, fino alla di lei morte”. Nel

giorno della stipulazione dei capitoli matrimoniali fu però firmata “un’Antapoca, nella quale il Sig. Duca dichiarò, che [...] volendo il detto Illustrissimo, ed Eccellentissimo Sig. Duca con altrettanto animo nobile, e generoso ricompensare la buona intenzione di detta Signora Contessa, si dichiarò, e si dichiara di retrocedere, e donare alla detta Signora Elisabetta la detta annua corresponsione299, di modo che

possa a suo talento valersene in proprio di lei commodo, [...] e di più intende di liberare, siccome libera, ed assolve detto Sig. Conte, e suoi ec. dal pagamento delli Scudi 2000”. Il documento tuttavia terminava ambiguamente: “ferma la costituzione della dote in detta somma a favore della Signora Sposa”300. Come si spiegava una clausola finale

siffatta? Proprio come i Luzzi di Borgo San Sepolcro, forse i Placidi ricorsero alla simulazione di dote, in quanto, a seguito di remissione del debito da parte del duca napoletano, l’effettivo ammontare dotale sarebbe stato di 4000 e non più di 6000 scudi. Nulla di sconvolgente, verrebbe da aggiungere: nel mondo delle élites aristocratiche apparire

298 Un dato che la dice lunga sul prestigio e sulla proiezione internazionale della

famiglia Placidi. La regina in questione era Maria Casimira (1641-1716), consorte di Giovanni III di Polonia, uno dei protagonisti dell’assedio ottomano di Vienna del 1683.

299 Il riferimento era alla rendita di 400 franchi annui con cui pagare 2000 dei 6000

scudi della dote di Isabella Placidi.

300 B. Artimini e C. Marzucchi, Raccolta delle decisioni, serie II, tomo IV (1761-

contava non meno che essere. Come sarà più in là illustrato, la questione era cionondimeno tutt’altro che pacifica.

Ad ogni modo, il conte Aldello morì istituendo erede l’abate Giovanbatista, suo fratello, il quale a sua volta trasmise il patrimonio dei Placidi per testamento ai nipoti Angiolo e Antonio, anch’egli abate. Proprio contro quest’ultimi, in quanto “Eredi mediati del Conte Aldello” e “possessori del fidecommisso Placidi”, agì in giudizio l’ormai duchessa Isabella. Quale la sua richiesta? Che Angiolo e Antonio restituissero i 6000 scudi di dote ritornati in loro possesso dopo la morte del duca Marc’Antonio Citarella. Com’era prevedibile fin dal principio, anche in considerazione dell’entità della somma oggetto della disputa, i due opposero resistenza. Per tutta risposta Isabella, rivelando un’intraprendenza davvero singolare, “vedendo ella le difficoltà, che di ragione incontravansi nel conseguire da essi l’importare di quelle somme, che già erano state pagate in conto di dote al suo fu Marito, ed avendo all’incontro certe altre sue pretenzioni da sperimentare contro la di lui Eredità”, partì per Napoli e là conseguì tramite una transazione stipulata col cognato Giovanni l’importo di 4850 ducati “per la restituzione di scudi 3000 di dote già esatta dal Duca” e in più “il conguaglio degli altri crediti da lei dedotti contro il medesimo, e per i quali le fu anche accordata la retenzione di alcune robbe spettanti al defunto marito”301.

Di ritorno dal successo napoletano, Isabella Placidi, decisa a trascorrere una vedovanza degna del suo rango, proseguì il giudizio di fronte al collegio arbitrale instaurato prima della sua partenza soltanto contro l’abate Antonio Placidi (Angiolo nel frattempo era deceduto). Considerati gli ultimi sviluppi, le sue rivendicazioni erano adesso le seguenti: 2000 scudi “pel compimento delli Scudi 6000”, derivanti dalla rendita annua di 400 franchi della madre Elisabetta Capece e a Isabella comunque dovuti nonostante la remissione del debito in favore del conte e della contessa (in virtù della clausola “ferma stante la

costituzione della dote in detta somma [6000 scudi] a favore della Signora Sposa”); l’osservanza del patto dotale nella parte in cui il padre Aldello si era impegnato a farle pervenire ciò che sarebbe residuato della porzione di eredità spettante alla sorella Cinzia decurtata della dote costituita per inviarla in monastero; il pagamento di 135 scudi “per il compimento del quarto migliaro delle sue doti, che dai signori Placidi li fu pagato con tal deduzione”; il rimborso delle spese sostenute per il viaggio compiuto a Napoli; infine i frutti dotali maturati dai 2000 scudi sopra citati e dal “quarto migliaro di già pagato dal dì della morte del di lei Marito fino al final pagamento di detta somma”302.

Il giudizio arbitrale che seguì non produsse tuttavia alcun risultato a causa del disaccordo tra i due arbitri eletti. Intervenne allora un rescritto imperiale dell’imperatore Francesco Stefano del 25 febbraio 1762, che affidò la risoluzione dell’ingarbugliata controversia alla Rota fiorentina. Il relatore della decisio finale ne anticipò le conclusioni: rispetto alle prime tre istanze di Isabella, e in particolare quella relativa ai 2000 scudi, i giudici rotali assolsero Antonio Placidi, seppur col dissenso “di un nostro Collega”; con riguardo invece alle ultime due “abbiamo condannato il predetto Sig. Abate Placidi a pagare 200 scudi alla Signora Duchessa”303. Per quanto meritevole di un’analisi

storica e storico-giuridica a tutto tondo, la sentenza Placidi è utile ai fini della presente ricerca soltanto nelle parti dedicate ai controversi 2000 scudi che Isabella richiese all’abate Antonio. Su di esse pertanto sarà concentrata l’attenzione.

Premesso che, riprendendo la medesima regola richiamata nel giudizio dei Moneta, l’azione per l’esazione della dote contro il dotante “non è per altro regolarmente dalla Donna esperibile contro di esso, se non nel caso di vedovanza, nel quale può, secondo la più comune, e la più equa opinione, [...] esercitare in proprio nome l’azione contro il

302 Ivi, pp. 430-431. 303 Ibid.

Dotante per il conseguimento delle sue doti ancora non pagate”, Isabella non poteva vantare alcuna pretesa sui 2000 scudi promessi allo sposo tramite la rendita annuale dalla Francia della contessa Elisabetta Capece poiché non solo suddetta porzione del debito dotale era “stata eseguita, ed accettata dal Duca nell’Apoca stessa Matrimoniale” di modo che “rimase liberato il Dotante rispetto alla Sposa egualmente che al Duca”, ma lo stesso Marc’Antonio, col suo aver “retroceduto alla Contessa Capece le sue penzioni, mediante una donazione, che suppone l’acquisto del diritto a lui renunziato”, sgomberò il campo da ogni rimanente dubbio circa l’estinzione dell’obbligo di Aldello di

versare un terzo della dote totale304. Poteva semmai affermarsi che una

simile alienazione aveva a suo tempo nuociuto alle ragioni patrimoniali dell’intraprendente Isabella e che perciò la stessa avrebbe potuto esercitare un’azione di natura indennitaria contro il marito, ma non contro il dotante o i di lui eredi. Allora risultava “assurda” e “irragionevole” la tesi dei difensori della duchessa, secondo i quali la liberazione da parte del duca del conte Aldello e dei suoi futuri eredi era stata compiuta “quanto al proprio interesse” e assicurando al contempo il pagamento della somma di 2000 scudi alla moglie “doppo la morte di se medesimo”. Infatti anche reputando vero che il marito volle rinunciare al suo diritto sui 2000 scudi e tenere comunque fermo l’obbligo dei dotanti a favore della moglie nei limiti di detta somma, “bisognerebbe altresì supporre, che il Conte Aldello, che aveva giustamente riportata la liberazione suddetta in sequela dell’adempimento del modo, con cui unicamente si era obbligato a pagare, avesse voluto immediatamente riassumere a favor della Figlia un’obbligazione già sodisfatta, e soggettarsi in ordine a lei a un reiterato pagamento”305. Chiudendo il ragionamento, dove risiedeva la

generosità in un atto che in realtà non sgravava il debitore di alcun peso mutando soltanto l’identità del creditore?

304 Ivi, p. 436. 305 Ivi, p. 438

Ma non era tutto: il conte Aldello invero si era affrancato fin dal principio dal vincolo sui 2000 scudi, “giacché [...] fu convenuto semplicemente, che la Contessa si obbligava di cedere le sue penzioni”306. Su quest’ultima dunque ricadeva il dovere di

corrispondere la porzione di patrimonio dotale controversa.

La Rota arrivò poi a escludere alla radice l’assunzione del summenzionato obbligo avventurandosi sul terreno della congruitas dotis, impiegata qui in modi davvero originali. Vediamo come. Di norma l’onere di dotare la figlia incombeva sul pater coi suoi propri beni. Qualora invece la madre si fosse espressamente obbligata in tal senso la si poteva considerare debitrice principale o condebitrice al limite nei confronti dello sposo, “ma non già rispetto al Padre dotante, in cui sempre si considera l’obbligazione principale di pagare del proprio tutta la dote costituita alle proprie Figlie”307. La validità della

regola tuttavia cessava “in quei casi, nei quali o il Padre sia povero, e quanto insufficiente a supplire all’intiera dote costituita, altrettanto la Madre sia provveduta di beni proprj per sodisfarvi, o che l’obbligazione di lei riguardi una qualche somma eccedente la dote congrua, oltre la quale, comecchè non procede l’obbligazione naturale del Padre, così deve attribuirsi ad un mero atto volontario, e di liberalità della Madre, o che finalmente apparisca una qualche dichiarazione indicante la volontà dei Contraenti”308. E ad avviso della

Rota tutte queste circostanze, capaci anche singolarmente di trasferire dal padre dotante alla madre l’obbligo di pagare la somma promessa, erano ravvisabili nel caso dei Placidi. Di particolare evidenza risultava il fatto che Aldello non avesse mai voluto assumersi l’impegno di destinare alla dote della figlia 2000 scudi oltre i 4000 promessi, specie perché eccedevano tanto la misura congrua della dote stessa quanto la sua capacità patrimoniale. Di conseguenza l’adempimento di questa

306 Ivi, p. 439. 307 Ivi, p. 440. 308 Ibid.

quota del debito complessivo non spettava ad Aldello, ma alla moglie Elisabetta Capece.

Si intuisce però che per dare un senso compiuto al ragionamento occorreva dimostrare che, alla luce dei criteri prescritti dallo ius commune, 4000 scudi erano una misura congrua per la dote di Isabella Placidi. Mettendo in conto le condizioni economiche di Aldello, gli usi familiari, il numero delle figlie, la consuetudine della città di Siena e la dignità del marito, una dotazione da 6000 scudi non pareva in effetti nelle sue corde. Oltre allo “stato Patrimoniale” del conte “di quel tempo insufficiente a supplire una dote di Scudi 6000”, lo confermavano la presenza di tre figlie nubili “al di cui stabilimento doveva provedersi con un Patrimonio assai tenue, e molto oberato” e l’uso delle “Famiglie ragguardevoli di Siena, fra le quali si pratica d’ordinario” una dote di circa 4000 scudi. Di questa entità fu oltretutto l’apporto dotale di Aldello per il matrimonio della sua terzogenita Girolama “in una Famiglia distinta, commoda, e Paesana”. In definitiva il conte promise l’esborso di una dote di 6000 scudi solamente in quanto la contessa si era impegnata a sua volta a cederne 2000, “altrimenti senza questo soccorso non li avrebbe assegnata tanta dote, come superiore alle sue forze, dentro i limiti delle quali deve in dubbio presumersi, che abbia voluta restringere la sua obbligazione”309.

Nel corso del giudizio Isabella aveva inoltre sostenuto che, per via della “vicinanza dell’Apoca, e dell’Antapoca stipulate nell’istesso giorno, e avanti i medesimi Testimoni”, il primo atto dovesse essere considerato simulato nella parte in cui attestava l’avvenuta cessione dei 2000 scudi e perciò incapace di operare in pregiudizio della sposa liberando il dotante dall’obbligo di pagare la somma considerata. Impeccabile la replica della Rota: se simulata fu la cessione, simulata fu anche, in relazione a questo punto, la costituzione medesima e, come noto, “una dote a pompa, e apparente” era inabile a produrre

un’azione in favore dei coniugi contro il dotante310. In quest’ottica

allora la clausola “ferma stante” apposta dallo sposo a vantaggio di Isabella “dovrà prendersi per donazione, o sopra Dote da esso fatta alla Sposa, [...] o sopra una certa vanità resultante dal tenore medesimo dell’Apoca, e dell’Antapoca, e che suol rendere bene spesso gli Uomini tantopiù generosi nelle promesse, quanto son più impotenti a supplirvi”311. La clausola in questione si traduceva pertanto in un

gravame per il solo duca Marc’Antonio Citarella.

Perfino sotto il profilo processuale l’agire di Isabella era censurabile: l’azione di lesione da lei promossa contro Antonio Placidi non era infatti ammissibile se esercitata su una somma che supera i limiti della congruità dotale, oltre i quali non era appunto ipotizzabile danno

alcuno nei confronti della sposa312. Di nuovo nel caso Placidi la Rota,

pur appellandosi alle autorità del Castrense e del De Luca, mise in risalto alcuni riflessi della congruitas poco ricorrenti in giurisprudenza. Per concludere, la maggioranza dei giudici rotali assolse il convenuto dall’esborso di 2000 scudi richiesto da Isabella Placidi. E tuttavia sul puntò si formò il dissenso di uno tra essi, il Salvetti, che spiegò diffusamente le ragione della sua opinione discordante. Le proposizioni che il giudice dissenziente intendeva dimostrare erano le seguenti: “Primieramente convien fissare, che la dote costituita dal Padre fu vera, e sincera, e non fu simulata, o apparente, e come suol dirsi, promessa a pompa. In secondo luogo, che il promissore della Dote fu veramente il Padre, e non la Madre, la quale accedè a sollevare l’obbligazione del Padre per la rata di Scudi 2000, con un obbligo accesorio, e consecutivo alla Promessa principale fatta dal Padre. In terzo luogo, che la sostanza dell’Obbligo Paterno fu diretta alla quantità, e non consisteva nella specie, o sia nell’annua responsione ceduta dalla Madre”313.

310 Cfr. ibid. 311 Ibid.

312 Cfr. ivi, p. 450.

Quanto al primo enunciato, di segno opposto alle statuizioni della maggioranza, il Salvetti richiamò anzitutto la presunzione di non simulazione valida in generale per qualunque dote, inclusa ovviamente quella di 6000 scudi promessa a Isabella. Presunzione avvalorata nel caso in esame dall’essere stato espressamente scritto nei capitoli

matrimoniali che detta somma era “vera” e “giusta”314. In aggiunta la

stessa remissione del Citarella di 2000 scudi del debito dotale a favore della contessa Capece e del conte Aldello provava inequivocabilmente la “verità della precedente promessa”: quale altrimenti il senso di liberare chicchessia da un’obbligazione in realtà fittizia?

Con riguardo invece al secondo enunciato il punto di partenza del Salvetti non poteva che essere la lettera del testo del patto dotale: “[...] che detto Sig. Conte Aldello Placidi sia tenuto, e obbligato costituire a titolo di Dote, e in nome di vera, e giusta Dote alla prefata Signora Isabella Placidi sua Figlia Scudi 6000”. Come si evinceva senza sforzo interpretativo alcuno, chi promise per intero l’apporto dotale fu Aldello, mentre Elisabetta Capece in questo passaggio chiave neppure veniva nominata, né lo erano i tanto dibattuti 2000 scudi. Presumendosi un obbligo del padre e non della madre quello di dotare la figlia secondo congruità, la mancata menzione della contessa confermava l’intera assunzione del vincolo da parte di Aldello.

Per altro verso le righe dei capitoli matrimoniali riguardanti il pagamento di 2000 scudi tratti dalla pensione annuale della contessa Capece non andavano lette isolandole dal contesto complessivo (come per il Salvetti si era evidentemente fatto nella decisio finale) ma al contrario ponendole in relazione con la loro collocazione testuale: leggendo il patto dotale in effetti risultava agevole constatare che l’impegno assunto dalla madre di Isabella era stato inserito nella descrizione del “modo” e della “forma” con cui pagare la dote. Così nell’elenco delle ricchezze da cui attingere per la cessione dotale risultava anche la solita “annua corresponsione, che in contanti [la

contessa Elisabetta Capece] annualmente esige in Parigi nella somma di Franchi 400 in virtù del Legato alla medesima fatto dalla chiara Memoria della Regina di Pollonia”315. L’obbligazione, in altre parole,

ricadeva in tutto e per tutto su Aldello Placidi, mentre la dichiarazione