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La congruità della dote nella società e nel pensiero giuridico modern

1. Congruità della dote e società d’Ancien Régime

“L’ordinamento”, sostiene autorevolmente Paolo Ungari100, “sembra

tutelare efficacemente la donna solo in due momenti: la formazione della nuova famiglia, e la conservazione della dote, nonché delle aspettative previste per il caso di vedovanza”. Ora, all’avvio di un nucleo familiare non solo alla figlia era riservata un’azione ad constituendam dotem contro chi ne era obbligato, ma il diritto le garantiva anche che la dote ricevuta fosse congrua. Quando e come quest’ultima condizione fosse soddisfatta lo vedremo più avanti: è infatti prima di tutto necessario soffermarsi sulle implicazioni socio- economiche della nozione di congruità dotale inserendola all’interno di un più vasto quadro in cui la riflessione giuridica tentava di adeguarsi a istanze familiari complesse e pressanti.

Imporre il rispetto di un’astratta congruità dotale al padre era senz’altro una minaccia alla sua salda e radicata autorità sui parenti più stretti e, potenzialmente, un’ingerenza notevole del diritto negli affari della vecchia famiglia in difesa di quella in procinto di nascere. Da un punto di vista storico, tuttavia, non può certo dirsi che la congruitas dotis abbia seriamente inciso sulla discrezionalità dei dotanti: semmai l’ha limitata, indirizzata e in qualche modo coartata. Del resto il peso maschile nelle famiglie d’Antico Regime non poteva essere scalfito con tanta facilità, né bisogna dimenticare che, benché in misura inferiore di quanto si creda, la donna “pur essendo capace di diritti,

era giuridicamente incapace di agire” e pertanto era “piuttosto oggetto che soggetto di diritto”101.

Eppure autorità patriarcale e subordinazione delle femmine non erano principi affermati indiscriminatamente, poiché alle volte li si doveva bilanciare con esigenze altrettanto rilevanti sotto il profilo sociale, culturale o giuridico. Era questo il caso della congruità dotale, che in primo luogo era un’efficace forma di controllo delle rigide separazioni tra ceti fondate sull’antico e fortunato modello ternario della societas Christiana, suddivisa già dal francese Adalberone di Laon (947-1030) in oratores, bellatores e laboratores, ciascuno col suo specifico ruolo (pregare, combattere, produrre) e il suo posto nell’armonioso mondo gerarchico creato da Dio102. Certo, l’Italia bassomedievale aveva

conosciuto con l’esperienza comunale svariate forme di mobilità socio- economica e di rottura delle griglie sociali consolidate, come dimostra lo sviluppo di una sorta di “nobiltà personale” basata sulla virtù invece

che sul sangue, tipica dello Stilnovo e del Tresor di Brunetto Latini103,

ma, nel complesso, ciò tolse poco o nulla alla struttura ontologicamente diseguale della società urbana e rurale né spinse alcuno a contestarla. Ogni forma di elevazione sociale era guardata con sospetto o addirittura percepita come una minaccia all’immutabile ordine divino e le autorità politiche tentavano in più modi di ostacolarla: si pensi al caso del vestiario femminile, che a Firenze era dettagliatamente disciplinato in modo da impedire ad esempio a una contadina di “portare drappo, né seta di sorte alcuna, né panni di grana, né di chermisi” e da consentire invece a una nobile fiorentina maritata di indossare “un vezzo di perle solamente a collo di quella valuta li par convenirsi allo stato suo, e sino a tre anella d’oro con

101 P. M. Arcari, La donna in M. C. De Matteis (a cura di), Idee sulle donne nel

Medioevo. Fonti e aspetti giuridici, antropologici, religiosi, sociali e letterari della condizione femminile, Pàtron, Bologna, 1981, p. 72.

102 Sulla teoria tripartita della società, v. O. G. Oexle, Paradigmi del sociale.

Adalberone di Laon e la società tripartita del Medioevo, Carlone, Salerno, 2000.

103 Sulle radici sociali e sui fondamenti teorici del patriziato urbano italiano v. R.

quelle gioie le piaceranno di valuta al più tutte di scudi 300, et le gioie sieno vere, et non false”104. Le distinzioni sociali, perciò, erano

riconoscibili ictu oculi anche solo passeggiando per le strade. Per farsi un’idea ancora più precisa delle proporzioni della disuguaglianza in età moderna può senz’altro giovare il richiamo dei dati del censimento

fiorentino del 1810, in piena età napoleonica105: su 17.716 famiglie

soltanto 81 erano le famiglie “ricche” (come i Capponi, i Guicciardini, gli Strozzi) e di seguito venivano i “benestanti”, ossia possidenti, professionisti di successo, commercianti affermati e membri del clero, e i “comodi”, vale a dire funzionari, impiegati, artigiani e bottegai di livello medio-alto di reddito. Questi primi tre strati rappresentavano soltanto l’11% delle famiglie di Firenze, il che induce a identificare i

“poveri” e gli “indigenti” con il restante 89% dei nuclei familiari106.

Sempre in Toscana gli statuti “della gabella de’ contratti” del 1566107,

lasciando intuire la disomogenea distribuzione della ricchezza nei

territori del ducato di Firenze108, operavano precise distinzioni nelle

gabelle sulle doti a seconda che fossero di donne fiorentine maritate a uomini fiorentini (le più alte), di donne del Contado oppure di donne del Distretto109.

La congruità dotale, come anticipato, rientrava tra gli strumenti di controllo del mantenimento dello status quo sociale, politico ed economico, attestando e rafforzando le disparità tra individui e tra gruppi. Lo certifica l’esempio dell’Italia meridionale, in cui secondo

Delille110 esisteva in ogni comunità una codificazione “estremamente

precisa” dell’entità delle doti corrispondenti ai diversi gradini della scala sociale. Così un nobile costituiva una dote “da sedici fazzoletti”,

104 Legge sopra il vestiario (1568) in L. Cantini, Legislazione toscana, Stamperia

Albizziniana, Firenze, 1803, tomo VII, pp. 36-38.

105 Dopo la parentesi del Regno d’Etruria (1801-1807) la Toscana rimase annessa alla

Francia fino all’abdicazione di Napoleone nel 1814.

106 Cfr. M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto, p. 178.

107 Riportati in L. Cantini, Legislazione toscana, tomo VI, p. 21 ss.

108 Il titolo granducale fu concesso a Cosimo soltanto tre anni dopo da papa Pio V. 109 Sulle suddivisioni territoriali del Granducato di Toscana, v. E. Fasano Guarini, Lo

stato mediceo di Cosimo I, Sansoni, Firenze, 1973.

mentre un bracciante si accontentava di una più misera da quattro. L’importante era rimanere al proprio posto, ovvero nella posizione che meglio si confaceva alle aspettative della comunità. Le vie per muoversi senza inciampi in questa realtà rigida e codificata erano due: “di ordine familiare individuale (una data famiglia si arricchisce, è in grado di mettere insieme doti più consistenti e inizia a insediarsi in una comunità gerarchicamente superiore) oppure collettivo (la comunità nel suo insieme modifica il valore delle doti costituite, in genere attraverso una modificazione dei propri statuti)”. Non era allora solo per ragioni di equità o di osservanza della communis opinio che le Costituzioni estensi del 1771 legavano la congruità dotale alla

condizione sociale della famiglia obbligata nonché dello sposo111.

Ma la questione della dote congrua aveva ulteriori implicazioni nelle famiglie dell’età moderna. Al momento della determinazione dell’ammontare dotale si scontravano in effetti due opposte ragioni: dell’autorità politica, che cercava di favorire il numero delle unioni e di prevenire in via generale la disgregazione dei grandi e medi patrimoni (prospettiva nient’affatto irrealistica considerata l’inflazione delle doti a partire già dal XIII secolo), e della singola famiglia, perennemente in cerca di affermazione sociale o di alleanze strategiche anche a costo di sacrifici patrimoniali. Una siffatta contrapposizione di interessi spiega perché gli statuti cittadini fossero fin dal Basso Medioevo attenti a porre un valore massimo alla misura dotale: in Sicilia, ad esempio, nella prima metà del Duecento fu limitata a 300 tarì; a Venezia (1551) si stabilì che le doti non oltrepassassero, salvo

che per le ereditiere, i 5000 ducati112; in Italia meridionale, con una

prammatica di Ferdinando IV e di Lord Acton (1800), i 15000

ducati113. Del caso romano ci parla il cardinal De Luca, informandoci

che “è stato più volte stabilito per buon governo, e per moderare li

111 P. Ungari, Storia del diritto di famiglia, p. 68.

112 Cfr. E. Besta, La famiglia nella storia del diritto italiano, Giuffrè, Milano, 1962,

p. 147.

moderni lussi, li quali per tal causa cagionano la povertà delle fameglie. E particolarmente in Roma ciò fu stabilito per l’ultima legge di Sisto Quinto, con la quale oggidì si vive cioè, che la dote di qualsivoglia sorte di persone, possa esser minore, mà non maggiore di scudi 5500 di moneta corrente”. Ciononostante a suo avviso “queste leggi però in pratica pare che abbiano dell’ideale, siche servono solamente per un seminario di liti, senza profitto alcuno della Repubblica”114. Trattando non di dote ma di corredo, nel ducato di

Firenze la già menzionata legge sul vestiario del 1568 prescriveva: “La quantità delle Donora, o vero Corredo, si regoli secondo la quantità delle doti è ragioni di dieci per cento, con salvo non dimeno che sia la dote quanto si vogli la valuta delle donora non possa passare scudi trecento d’oro”115. Un’acuta osservazione dell’architetto e umanista

fiorentino Leon Battista Alberti rivela inoltre come la pattuizione di una dote eccessivamente elevata potesse alle volte nuocere, oltre che al patrimonio del dotante e alle ragioni del potere politico, anche agli interessi maritali: “Siano adunque le dote certe e presente e non troppe grandissime, perché quanto e’ pagamenti hanno a essere maggiori, tanto più tardi si riscuotono, tanto sono più litigiose risposte, tanto con più dispetto ne se’ pagato”116.

I legislatori dell’età moderna si cimentarono tuttavia di rado nella fissazione del minimo ammontare delle doti, sebbene, come spiega il

Besta117, con l’aumento del favore verso l’agnazione fosse sempre più

concreto il pericolo che gli apporti dotali si riducessero a quantità irrisorie, specie in famiglie con un discreto numero di figlie da maritare. Sul punto ebbero un ruolo rilevante i contributi di dottrina e giurisprudenza volti ad evitare che lo doti costituite fossero inferiori a un congruo valore, come più in là vedremo.

114 G. B. De Luca, Il dottor volgare, lib. VI, cap. II, nn. 2-3 (pp. 20-21). 115 Legge sopra il vestiario (1568), p. 37.

116 L. B. Alberti, I libri della famiglia (a cura di R. Romano, A. Tenenti e F. Furlan),

Einaudi, Torino, 1994, p. 119.

L’ultima considerazione mostra come porre il problema della congruitas dotis incontrasse in qualche misura anche gli interessi della donna. In effetti, nonostante dopo il matrimonio i mariti divenissero i legittimi amministratori del patrimonio dotale e dunque alle mogli fosse precluso disporne autonomamente, una giovane portatrice di ricchezze tramite una dote cospicua aveva maggiori possibilità di contrarre uno sposalizio più vantaggioso grazie al suo potere contrattuale. La nozione di congruità poteva perciò garantirle che l’ammontare dotale non scendesse al di sotto di una certa soglia, accrescendo così le sue probabilità di sposare un buon partito. L’esempio di Borgo San Sepolcro tra Sei e Settecento racconta meglio di mille parole quanto mediante un solido patrimonio dotale una donna di elevata condizione potesse guadagnarsi prestigio e rispetto nel contesto familiare ed extrafamiliare. Assicurando ai mariti tra i 3000 e i 7000 fiorini nel corso dei XVII secolo, le giovani abitanti aristocratiche infatti “parimenti a quanto succedeva a Poppi, [...] acquisirono un nuovo senso di legittimità per il contributo che davano, assieme ai loro padri e mariti, al mantenimento e al successo delle loro famiglie. [...] Il loro contributo dotale, [...], era anche necessario alla stipulazione di alleanze matrimoniali tra le famiglie dell’emergente patriziato regionale”118.

Una volta costituita una dote congrua secondo gli accorgimenti che affronteremo in seguito, lo ius commune, sull’assunto che l’entità della dote costituita non potesse essere diminuita, forniva alla moglie e alla famiglia d’origine due importanti istituti per tutelare quell’ammontare ritenuto equo secondo il diritto: l’inalienabilità dei beni dotali e la restituzione della dote a causa della cosiddetta vergenza del marito all’inopia. Quest’ultima era la condizione del coniuge che cadeva in miseria mettendo a repentaglio il patrimonio dotale per risollevarsi dallo stato di grave crisi economica. Lo ius commune non tollerava

118 G. Benadusi, Equilibri di potere nelle famiglie toscane tra Sei e Settecento in G.

Calvi e I. Chabot, Le ricchezze delle donne. Diritti patrimoniali e poteri familiari in

neanche il rischio di un tale sperpero e allora consentiva alla moglie di recuperare quanto compreso nella dote secondo il medesimo meccanismo previsto per il caso di scioglimento del matrimonio. Già gli statuti fiorentini del 1415 menzionavano espressamente questa cautela predisposta a favore delle donne: “Viro vero vergente ad inopiam, mulier agere possit in bonis viri, et ea petere secundum formam iuris communis usque ad quantitatem, et ratham suae dotis, et donationis, et augumenti, et ea defendere contra quoslibet creditores”119. Ancora nel 1825 l’abate romano Giuseppe Dall’Olio

spiegava: “La Dote non si restituisce, se non sciolto il Matrimonio. Evvi però un caso, in cui, costante il Matrimonio, si fa luogo alla di lei restituzione, o assicurazione; e questo è della vergenza del Marito all’inopia, cioè allorché da indizj di futura imminente decozione, e nel caso, in cui sia convocato il concorso su i beni del Marito”120. A

proposito di Firenze Thomas Kuehn riporta il caso di Antonia di Checco, che, nel 1427, dopo ben quattordici anni di matrimonio, poté recuperare dal marito Bastiano di Paolo di Lorenzo la sua dote di 50 fiorini. Inoltre due rescritti settecenteschi dell’epoca di Pietro Leopoldo, datati 12 luglio 1780 e 2 aprile 1785, lasciano intendere quanto ampie, almeno in via teorica, fossero le facoltà femminili di prevenire e di bloccare l’azione dei creditori del marito sui beni dotali, ennesima conferma che, nel diritto comune, il “credito dotale si risolveva in un vincolo ampio ed effettivo sul patrimonio familiare”121.

E tuttavia nella maggioranza delle famiglie le donne tanto ardite da reclamare dallo sposo il patrimonio dotale erano in verità piuttosto rare: più spesso al contrario cooperavano con i mariti o comunque ne

subivano passivamente fortune e sfortune122.

119 Statuta populi et communis Florentiae publica auctoritate collecta, castigata et

praeposita anno salutis MCCCCXV, Kluch, Friburgo, 1778-1783, I, lib. II, rub.

LXIV (p. 161).

120 G. Dall’Olio, Elementi delle leggi civili e romane, Tipografia Rosa,Venezia, 1825,

tomo II, p. 93.

121 M. Scardozzi, Tra due codici, p. 103. 122 Cfr. T. Kuehn, op cit., p. 445-446.

L’inalienabilità dei beni dotali era destinata alle medesime finalità di tutela del congruo apporto femminile già riscontrate nella vergenza del marito all’inopia, ma ebbe un iter storico-giuridico molto più

travagliato e complesso123. Fin dal XII secolo una domanda assillò i

glossatori: durante il matrimonio il marito poteva obbligare e alienare i beni ricevuti in dote? Il punto di partenza, al solito, era il diritto romano, che sul punto era chiarissimo: un capitolo della lex Iulia de adulteriis coercendis, la lex Iulia de fundo dotali, menzionata dal giurista Paolo nel Digesto124, vietava al marito e ai suoi eredi

l’alienazione del fondo dotale in territorio italico e la costituzione di

ipoteche sopra di esso senza il consenso della moglie125.

Coerentemente con lo spirito del legislatore romano, Martino riteneva che i praedia dotalia fossero inalienabili anche se la sposa avesse acconsentito all’iniziativa del marito; i beni dotali stimati, viceversa, erano a suo avviso alienabili. La Glossa accursiana precisò poi che la lex Iulia non era applicabile solo alle res inaestimatae, ma anche a quelle res che, per le modalità dell’aestimatio, fossero da considerarsi inaestimatae. Di qui, come già accennato, veniva nel Granducato di Toscana dell’età moderna la preferenza dei mariti per la dos aestimata. In ogni caso, la tendenza generale del diritto, in armonia col contesto sociale comunale, era di svincolare il più possibile il marito dai “lacci e lacciuoli” che ne intaccavano il controllo pieno ed effettivo sulla gestione del patrimonio familiare. Perciò nel tempo il principio di inalienabilità subì un inarrestabile processo di erosione, a riprova di quanto erroneo sia trattare alla stregua di una mera ripetizione del diritto giustinianeo il pensiero giuridico del Basso e del Tardo Medioevo: già Azzone, vissuto tra la seconda metà del XII secolo e il 1225 circa, affermava che fossero valide non soltanto le alienationes

123 Per l’epoca medievale ancora una volta fondamentali sono M. Bellomo, Profili e

id., Ricerche.

124 D. 23, 5, 1, Paul.

125 Cfr. C. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari. Sponsalia.

necessariae del fondo dotale da parte del marito, ma anche quelle non necessariae e tuttavia utili alla moglie, così come quelle aventi ad oggetto le res mobiles dotales, in quanto non menzionate dalla lex Iulia. Alberto Gandino e altri si spinsero poi ancora più in là nell’attacco all’inalienabilità dei beni dotali126.

Se scalfire il principio era concesso, eliminarlo del tutto, considerati gli orizzonti culturali del diritto, era impensabile. E allora come liberare il marito dalle “catene” salvando al tempo stesso la lettera della lex Iulia? Una strategia fu di privare la moglie di qualsivoglia potere di agire nei confronti dei terzi a cui il marito aveva alienato il fondo dotale in violazione della legge. Un’altra, più subdola, fu di costringere le donne ad acconsentire alle alienazioni disposte dal coniuge e, soprattutto, a giurare che non sarebbero contravvenute in futuro a quanto pattuito coi terzi estranei. Il giuramento non era un impegno di poco conto, poiché, coinvolgendo la coscienza, se violato era occasione di spergiuro, un peccato sanzionato con la scomunica dal diritto canonico127. Tanto

bastava nella società italiana dell’età moderna, pervasa di religiosità e

di devozione128, per evitare che le mogli esigessero quanto era loro

dovuto secundum ius.

Gli esiti di tale processo furono la massiccia commercializzazione delle doti e, in fin dei conti, l’avvio silenzioso della loro dissoluzione a causa delle logiche di mercato. Il patrimonio dotale perse perciò la sua effettiva autonomia, finendo in tutto o in parte in mano a terzi non appena la famiglia incontrava serie difficoltà economiche. In altre parole, i beni femminili divennero lo scudo per proteggere quelli maschili. Già nel 1673 il cardinal De Luca, al solito lucido e disincantato, dichiarava che l’inalienabilità della lex Iulia “oggidì è quasi svanita, e si può dire che abbia dell’ideale, stante che si è

126 Cfr. M. Bellomo, Profili, pp. 171-172.

127 Cfr. I. Fazio, Percorsi coniugali nell’Italia moderna in M. De Giorgio e C.

Klapisch-Zuber (a cura di), Storia del matrimonio, Laterza, Roma-Bari, 1996, p.166.

128 Sul ruolo della religione nell’Italia moderna, v. O. Niccoli, La vita religiosa

introdotto quasi per stile in ogni contratto di mettervi il giuramento”129. Nel XVIII secolo lo sgretolamento del principio,

seppur non in maniera uniforme nei vari Stati della penisola italiana, era nella sostanza concluso.

Analizzate le implicazioni socio-economiche della congruità dotale e gli istituti giuridici cui essa era collegata nel sistema dello ius commune, è ora giunto il momento di scandagliare succintamente le tesi dei giuristi dell’età moderna in relazione alle principali problematiche insite nella definizione di dote congrua.

2. La dottrina italiana dell’età moderna intorno