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Alcune decisiones della Rota fiorentina sulla congruità dotale (1742-1784)

2. I rimedi processuali a tutela della congruitas dotaledotale

Alcune delle decisiones della Rota fiorentina tra il 1742 e il 1784 entrarono nel merito dei rimedi processuali offerti a protezione della congruità dotale.

In due dei casi analizzati, quello dei Gervasi di Casola (1773) e quello dei Gotti di Pisa (1784), abbiamo riscontrato delle giovani donne giunte oltre il venticinquesimo anno di età senza essere sposate o inviate in convento. Esercitando una facoltà loro riservata dal sistema del diritto comune e da insigni giuristi quali il De Luca o il Fontanella, sia Elisabetta che Angiola convolarono a nozze con mariti scelti

autonomamente e senza prestare ascolto al pater261. Immediatamente

dopo ricorsero allo strumento processuale per conseguire una dote congrua, sul presupposto che soltanto la via giudiziaria avrebbe potuto assecondare le loro pur legittime richieste. In particolare, nella sentenza del 1773 il relatore Morelli volle essere il più chiaro possibile sul punto: “Sebbene le leggi abbiano sempre avuto in aborrimento, che i figli convenghino il padre avanti il Giudice, e perciò in vista della patria potestà sia di regola a quelli proibito il contestare col medesimo alcuna giudicial lite, [...] nondimeno vi sono alcuni casi nei quali è di ragione permesso al figlio l’implorare l’offizio del Giudice per le ragioni che abbia contro il padre, e tra questi casi vi è certamente quello, in cui la figlia non essendo stata collocata in matrimonio dal padre dentro l’età di 25 anni, può dopo un tal tempo da se medesima procacciarsi il marito, e astringere giudicialmente il padre a costituirle la dote congrua”262. Inoltre, a rimarcare l’esistenza di

limitazioni alla potestà paterna, la Rota non applicò qui la consueta

261 Angiola, come si ricorderà (cfr. supra, pp. 87 e ss.), sposò addirittura un uomo di

inferiore condizione sociale.

262 B. Artimini e C. Marzucchi, Raccolta delle decisioni, serie II, tomo VIII, dec.

presunzione di congruità della dote costituita, giacché essa, operante tout court se il padre dotava spontaneamente la figlia secondo il suo ragguardevole giudizio, cessava invece qualora “il padre offerisce la dote, dopo essere stato legittimamente intimato avanti il Giudice”. E infatti non era consentito al genitore, “che è il collitigante, il proferire da se medesimo la sentenza nella propria causa”263. In questa

situazione la decisione sul congruo ammontare della dote spettava unicamente al giudice.

Riguardo al supplemento, è conservato il testo di una fondamentale decisio datata 27 settembre 1774264. Di nuovo troviamo le tracce della

battaglia di una figlia contro il padre, i fratelli e, in generale, il lato maschile della famiglia. Teresa Moneta, sposa di Giuseppe Sturioni e discendente di un’illustre famiglia fiorentina, citò in giudizio di fronte al Magistrato Supremo il padre Benedetto, “olim huius Rotae Florentinae Auditoris”, e, dopo il di lui trapasso, i fratelli eredi del patrimonio paterno (dei quali non sono riportati i nomi), “pro conseguendo supplemento usque ad congruam dotem”265. Quest’ultimi

tuttavia non mancarono di muovere delle obiezioni contro le istanze dell’insoddisfatta sorella: l’azione per un supplemento intanto non competeva a Teresa “costante adhuc matrimonio”; in aggiunta la dote elargita per il matrimonio tra la Moneta e lo Sturione fu donata “ab Augusta Munificentia” alla stessa Teresa, il che esonerava i dotanti da ogni obbligo e rendeva vane ulteriori verifiche circa l’incongruità della

dote266. La Rota a maggioranza respinse entrambe le suddette tesi e,

stimando incongrua la dote costituita da Benedetto Moneta, a conclusione del giudizio condannò i fratelli di Teresa all’esborso di 1200 scudi di supplemento dotale.

263 Ivi, p. 85.

264 Ivi, dec. CCCCXXXIV, Florentina Supplementi Dotis, pp. 823 e ss. 265 Ivi, p. 825.

Quali furono le argomentazioni del verdetto ancora una volta benigno nei confronti della parte femminile? Il relatore, Giovanni Vinci, articolò le tesi della corte ponendo in principio la regola per cui, qualora gli statuti del luogo avessero escluso dalla successione la femmina propter masculos, questa godeva del diritto ad una dote congrua ed eventualmente della facoltà di agire in giudizio per ottenerla. Così risultava pacificamente dalla communis opinio doctorum, dall’autorità dei tribunali e perfino dallo Statuto fiorentino, qui richiamato: “Possint tamen, et debeant tales mulieres exclusae a successione in quolibet casuum praedictorum, si non fuerint dotatae, convenienter, et competenter dotari de bonis patris, avi, seu cuiuslibet alterius ascendentis, de cuius successione tractatur, secundum conditionem, et facultatem patris, avi, vel proavi, et aliorum ascendentium”267. E anche se, in ipotesi, uno statuto escludeva le

femmine dai diritti successori senza nulla aggiungere bisognava comunque ritenere che, benché implicitamente, riservasse loro una congrua dotazione. Di conseguenza, dato che alla donna non ammessa alla successione competeva un’azione al fine di ricevere una dote soddisfacente, a fortiori le spettava anche la facoltà di richiedere un supplemento dotale fino al raggiungimento della misura congrua: “[...] filia exclusa a statuto possit petere supplementum dotis quia hoc procedit, quando statutum faciat mentionem de congruitate dotis, vel quando simpliciter statutum excludit dotatam, vel dotandam”268. È da

aggiungere per rimarcare l’importanza nella disciplina dotale della nozione di congruitas che ad avviso della Rota l’assenza di dote era in tutto e per tutto equiparabile all’incongruità della stessa269.

Ma veniamo all’esame delle tesi dei fratelli di Teresa Moneta. La prima, si ricorderà, si incentrava sulla radicale impossibilità della

267 Statuta populi et communis Florentiae publica auctoritate collecta, castigata et

praeposita anno salutis MCCCCXV, Kluch, Friburgo, 1778-1783, I, lib. II, rub.

CXXX (p. 224).

268 B. Artimini e C. Marzucchi, Raccolta delle decisioni, serie II, tomo VIII, dec.

CCCCXXXIV, p. 828.

sorella di agire (seppure in astratto a ragione) per un supplemento dotale finché il matrimonio era in vita. Lo avrebbe potuto richiedere, invece, solo “si adhuc innupta esset domina Theresia Moneta, aut ageretur potius in casu iam dissoluti Matrimonii”270. Così infatti

disponeva il Codice giustinianeo, che appunto precludeva alla moglie la facoltà di rivolgersi ai successori paterni per qualsivoglia reclamo attinente alla dotazione attribuendola viceversa al marito: “Si pro te pater marito tuo stipulanti promisit dotem, non tibi, sed marito contra successores soceri competit actio”271. Dopo un’attenta analisi

dell’appena menzionata disposizione romanistica, la Rota ritenne però più equo e conforme all’ordinamento considerato nel suo complesso dare la precedenza all’arcinota regola per cui, come più e più volte ribadito da Tiberio Deciani, dal De Luca, dal Fontanella e da molte altre insigni autorità, “etiam constante matrimonio, et vivente adhuc viro, foeminis a statuto esxclusis dotis supplementum debeatur, atque actionis exercitium ipsis omnino contra patrem vel eius haeredes, competat”272. Tra le varie opzioni prospettate dallo ius commune i

giudici rotali preferirono quella maggiormente attenta alla preservazione di un minimo margine di autonomia giuridica della donna e già qui assestarono un duro fendente all’apparato argomentativo dei fratelli Moneta. Se sul piano storico-sociale questo atteggiamento conferma ancora una volta la notevole protezione talora offerta dalla Rota alle giovani toscane nel contesto familiare di provenienza, sul piano giuridico la motivazione della deliberazione passò per un cavillo legato alla lettera del testo del Codice richiamato dai convenuti: riguardo alla disposizione giustinianea, scrisse il relatore, “[...] nulla quaestio est, quod non de augumento dotis, vel supplemento agatur sed tantummodo de dote marito promissa”273.

270 Ivi, p. 829. 271 C. 5, 11, 5.

272 B. Artimini e C. Marzucchi, Raccolta delle decisioni, serie II, tomo VIII, dec.

CCCCXXXIV, p. 829.

Detto altrimenti, il legislatore romano si riferiva soltanto alla dote promessa al marito, non al supplemento dotale: i fratelli Moneta proponevano quindi un’interpretazione indebitamente estensiva del dettato normativo. Concludendo il ragionamento, la Rota evidenziò di nuovo come “si etenim filia adversus patre praedictam inofficiositatis quaerelam valeat intentare, eo magis id ipsum contra ipsius haeredes agere poterit, qui filiam excludunt a successione patris, onere tamen, et conditione ipsam congrue, et competenter dotandi”274. Perciò in caso

di exclusio propter masculos, prevista appunto dallo Statuto fiorentino, nulla poteva ostacolare l’esercizio di un’azione da parte della dotata per l’ottenimento di un supplemento fino all’ammontare dotale congruo. Lo svantaggio per la parte femminile derivava unicamente dall’irrilevanza della legittima nella determinazione della soglia minima della congruitas: “Aut quando propter statutum dos non succedendo in locum legitimae filia petit supplementum usque ad legitimae, quantitatem in cuius locum ipsa dos non succedit”275.

Su questo preciso punto merita forse riportare l’opinione dissenziente276 dell’auditore Francesco Rossi277, se non altro al fine di

approfondire la questione giuridica e di valorizzare ancora di più il ruolo di tutela svolto dalla maggioranza dei giudici rotali nei confronti di Teresa Moneta. Mentre i colleghi ritennero che, nel caso specifico, l’azione “ad consequendam congruam dotem” competesse anche alla moglie seppur in costanza di matrimonio, “ego vero”, chiarì il Rossi, “petita venia contrariam sententiam veriorem esse putavi”278. Il

sistema del diritto comune, e in particolare la più volte richiamata disposizione del Codice di Giustiniano, prescrivevano anzitutto che nel silenzio del marito la moglie non poteva reclamare la dote, poiché

274 Ibid. 275 Ivi, p. 834.

276 Sulla motivazione rotale e sul “voto di scissura”, cfr. M. Ascheri, Tribunali,

giuristi e istituzioni, pp. 99 e ss.

277 B. Artimini e C. Marzucchi, Raccolta delle decisioni, serie II, tomo VIII, dec.

CCCCXXXV, Florentina dotis, pp. 839 e ss.

l’apporto dotale svolgeva la funzione economica di provvedere agli oneri matrimoniali, sostenuti nel corso della vita non dalla sposa, ma dallo sposo, vero amministratore del patrimonio familiare. Inoltre a detta del Rossi la lettera del testo non impediva di ritenere incluso nella norma anche il supplemento dotale. Due le eccezioni previste alla regola generale: la prima “quando maritus vergit ad inopiam, vel est absens, vel civiliste moritur”; la seconda “quando mulier in Iudice preventivo ageret contra patrem ad effectum exigendi congruam dotem, adveniente casu viduitatis et ne dilatio ei foret praegiudicialis ex futura diminutione substantiae paternae, ius habet cogendi patrem ad constituendam dotem congruam, sed non ad solvendam constante matrimonio”279. Né l’una né l’altra erano tuttavia riscontrabili nel caso

di specie, motivo per cui la stessa promozione di un’azione da parte di Teresa Moneta era da considerarsi contra ius.

Riprendendo l’analisi della decisio definitiva, vale la pena menzionare due limitazioni alla richiesta di supplemento dotale incidentalmente richiamate dalla Rota benché non applicabili nella controversia tra Teresa Moneta e i fratelli. La prima privava la dotata dell’actio supplementi allorché la dote ricevuta fosse stata congrua al momento della dotazione: “Aut quando filia pro supplemento agit, et dos recepta congrua fuit tempore dotationis, quo casu filiae denegatur actio pro augumento deficiente dotis ipsius incongruitate”280. Guardando però al

solito alla condizione del marito, al patrimonio paterno e alla consuetudine della famiglia Moneta, il mero apporto di 200 scudi da parte di Benedetto, padre di Teresa, non soddisfaceva i requisiti della congruità dotale, a prescindere dalla generosa donazione di 1000 scudi da parte di Renata Teresa contessa d’Harrach, vedova del conte Saverio Melzi e terza moglie di Francesco III d’Este281. Un’analisi

279 Ivi, p. 843.

280 Ivi, dec. CCCCXXXIV, p. 834.

281 Si trattò di un matrimonio morganatico e fu il terzo del duca, già marito in

precedenza di Carlotta Aglae di Borbone-Orléans, deceduta nel 1761, e di Teresa di Castelbarco, deceduta invece nel 1768. Cfr. M. Romanello, Francesco III d’Este,

sommaria dello status socio-economico dei Moneta e degli Sturioni non lasciava in effetti dubbi circa la prosperità e il prestigio delle famiglie coinvolte: “Quoad conditionem Viri satis abunde notum erat genus praeclarum, patrimonii quantitas futurae successionis in bonis patruorum tutissima spes, et nobile militare officium, quod ab eo nuperrime adsequtum exercebatur: adeoque tota vis propositae exceptionis ad quantitatem patrimonii paterni tempore dotationis reducebatur”. Oltre alla brillante carriera militare e alla notevole consistenza patrimoniale di Giuseppe Sturioni, la Rota conosceva bene anche le buone finanze del dotante Benedetto Moneta, notoriamente facoltoso grazie ai suoi molteplici immobili di proprietà nonché ai suoi numerosi lucri personali. Non era un caso perciò se in passato aveva potuto permettersi di dotare le sue altre figlie “non in minori summa scut. 1600”282. In sintesi, quello tra Teresa Moneta e Giuseppe Sturioni

era stato a tutti gli effetti un matrimonio d’alto rango (dove più che mai emergeva l’indissolubile “legame tra matrimonio e risorse economiche”283) e come tale esigeva un apporto dotale considerevole:

ciò che appunto non poteva dirsi della somma elargita da Benedetto Moneta alla figlia. Ne derivavano logicamente la non applicabilità della summenzionata eccezione e dunque la conferma della facoltà di domandare un supplemento.

La seconda cautela, certo non meno interessante, concerneva l’ipotesi della dote promessa dal padre al marito e che passava dunque direttamente nel dominio di quest’ultimo: in tal caso non alla moglie, ma soltanto allo sposo spettava l’azione per richiedere il contributo dotale o un suo supplemento. Spiegava infatti la Rota: “Aut denique procedunt in terminis omnino dispositioni dicti Textus conformibus, et sic uxori actio ex stipulatu denegatur, cum dotis dominium a patre promissae penes maritum resideat, et propterea costante matrimonio,

1997.

282 Cfr. B. Artimini e C. Marzucchi, Raccolta delle decisioni, serie II, tomo VIII , dec.

CCCCXXXIV, p. 837-838.

a viro tantum actio pro consequenda promissa dote, sit exercenda”284.

Ciononostante, prosegue il Vinci, nella fattispecie sottoposta al vaglio della corte, posto che una dote incongrua come quella assegnata a Teresa Moneta non poteva essere reputata una dote “promissa, stipulata, aut legata, aut alio quolibet modo constituta”, “soli mulieri licet nuptae actionis exercitium indubitanter competit”285. Detto

altrimenti, poiché una dotazione “incongrua et incompetens” non andava ritenuta né promessa né effettivamente costituita era quantomeno arduo immaginarne un dominio maritale tale da pregiudicare la facoltà della moglie di agire in giudizio.

In merito al secondo argomento dei fratelli di Teresa la Rota fu altrettanto chiara. La donazione di terzi alla donna non si presumeva affatto elargita con lo scopo di esonerare il padre dalla relativa obbligazione dotale e dunque il dotante non se ne poteva avvalere come espediente per giustificare la costituzione di una dote miserrima. A Teresa Moneta allora, poiché aveva ricevuto soltanto 200 scudi dal padre Benedetto, lo ius commune riconosceva tutti gli strumenti necessari per porre fine a un’incongruità dotale tanto lampante, inclusa in primis l’azione di supplemento dotale. A riprova della fondatezza di simili argomenti, la Rota menzionò una lettera esibita in giudizio dai difensori di Teresa proveniente dalla contessa d’Harrach e datata 9 marzo 1773, in cui si leggeva quanto segue: “alla richiesta da ella fattami non posso io in risposta, che accertarla sicuramente che ogni generoso contrassegno da ella sperimentato dalla beneficientissima clemenza dell’augustissima nostra Sovrana, non sarà mai stato, con intenzione di pregiudicarla ne’ suoi diritti dotali Paterni”. Per dirla con le parole del relatore, “Quid ergo dubitandum, quid discepitandum amplius superea quaestione, de qua agebatur?”286.

284 B. Artimini e C. Marzucchi, Raccolta delle decisioni, serie II, tomo VIII, dec.

CCCCXXXIV, p. 834.

285 Ibid. 286 Ivi, p. 837.

Per riepilogare: Teresa non fu dotata secondo congruità dal padre Benedetto; essendo stata esclusa propter masculos, godeva perciò della facoltà di richiedere agli eredi paterni, ossia ai fratelli, un supplemento. A una siffatta conclusione non riuscirono ad opporsi né le parti convenute con le loro difese, entrambe respinte, né le ulteriori eccezioni previste dalla disciplina generale dello ius commune relativa al supplemento dotale.

Un uso processuale quantomeno singolare della congruità dotale emerge da un caso del 1779, che vide coinvolta una povera famiglia

contadina del Granducato287. In due sentenze i fratelli Giovanni Battista

e Sebastiano Puglioli furono condannati a pagare al cognato Donato Pieri la dote per la sorella Bartolommea, già costituita dal padre il 25 novembre 1711 e “registrata in Gabella”. Impugnata la sfavorevole decisione di fronte alla Rota, i due fratelli ottennero però l’assoluzione con un ribaltamento inatteso delle precedenti statuizioni. Il relatore Luci giustificò le sue conclusioni sulla base della fragilità del quadro probatorio con cui Donato Pieri aveva tentato di certificare l’esistenza e l’ammontare del credito dotale del quale esigeva l’adempimento. Ponendo in secondo piano la valutazione dell’autorità giudicante in merito a una scrittura privata presentata dal Pieri a sostegno delle sue tesi, va sottolineato come la stessa misura incongrua della dote costituì per la Rota una prova irrefutabile dell’inverosimiglianza del credito dotale reclamato: “la dote di detta Bartolommea”, argomentava il Luci, “era stata costituita, nella detta copia, nella somma di scudi cento venti, somma, che non era in grado di sborsare un povero Contadino, che sei anni avanti ad altra figlia maritata, si era sforzato di dare la somma di sc. 70 come resultava negl’Atti, talchè dall’esorbitanza della somma era dato l’inferirne, che la copia fosse

287 B. Artimini e C. Marzucchi, Raccolta delle decisioni, serie II, tomo XI, dec.

fittizia”288. L’idea di una simulazione di dote non sfiorò neppure la

mente dei giudici rotali, poiché in effetti era pratica comune non tra gente umile come i Puglioli, ma tra famiglie aristocratiche o agiate abbastanza da avere una rispettabilità sociale da difendere.

3. Un caso emblematico: la famiglia Placidi di