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La dottrina italiana dell’età moderna intorno alla nozione di congruità della dote

La congruità della dote nella società e nel pensiero giuridico modern

2. La dottrina italiana dell’età moderna intorno alla nozione di congruità della dote

Nel corso della storia moderna la congruità dotale non trovò nel pensiero giuridico il medesimo spazio che invece fu riservato ad altri aspetti della disciplina dotale, come l’inalienabilità, il dominium rei dotalis, la costituzione, le tipologie, la distinzione tra aestimatio e inaestimatio, i frutti dotali, l’estensione dell’obbligo di dotare. La determinazione dell’ammontare della dote, come ormai sappiamo, era infatti d’interesse familiare, privato più che strettamente giuridico e, inoltre, il diritto romano, piuttosto reticente sull’argomento, forniva ai giuristi pochi appigli su cui costruire una riflessione sistematica. Eppure, nonostante gli ostacoli, la dottrina italiana riuscì nel tempo a delineare una disciplina sufficientemente unitaria della congruità dotale, spaccandosi di rado al suo interno e rimettendosi semmai all’aequitas giurisprudenziale per ulteriori precisazioni. In particolare, l’attività dottrinale si soffermò con maggiore rigore sui seguenti punti: i criteri di quantificazione di una dote congrua, l’obbligatorietà o facoltatività di dotare ugualmente tutte le figlie appartenenti a uno

stesso nucleo familiare, i rapporti tra la congruitas dotale e la legittima spettante alla femmina e, infine, i profili processuali attinenti alla congruità, in particolare la richiesta del supplemento dotale. Non si tratta, è bene chiarirlo, di un’elencazione esaustiva di tutte le controversie teoriche in materia di congruità dotale, quanto piuttosto dei principali nodi che ritroveremo nelle decisioni analizzate della Rota fiorentina tra il 1742 e il 1784. Ora, i giuristi d’Ancien Régime che più rifinirono la disciplina della congruitas dotis e ai quali più spesso si richiamavano i giudici settecenteschi per motivare le loro sentenze furono Giovanni Battista De Luca e Giovanni Angelo Bossi. Non vanno tuttavia trascurate le opere dottrinali dei secoli XVIII e XIX, con particolare riguardo a quelle di Gregorio Fierli, di Antonio Filippo Montelatici e di Francesco Forti130.

È bene prendere le mosse dalla più significativa tra le problematiche sopra menzionate: quali i criteri per stabilire se una dote fosse congrua? Prima ancora però di analizzare le soluzioni proposte, occorre richiamare la giusta premessa del De Luca, certamente calzante in una trattazione come la nostra che intende porre l’accento sulle fonti giurisprudenziali. L’autore del Dottor Volgare, pur non lesinando dettagli in materia di congruità dotale, sapeva infatti che affaticarsi eccessivamente sulla definizione di dote congrua era per i giuristi “una fatica vana”, poiché “realmente questa si dice una questione di fatto più che di legge, la quale non riceve una regola certa, mà và decisa col prudente arbitrio del giudice, il quale si deve regolare alle circostanze individuali di ciascun caso”131. Inutile

insomma arrovellarsi su questa o quella minuzia: la precisa definizione di dote congrua andava rimessa al caso specifico, alla plasticità di un giudice in carne ed ossa, non certo a un trattato, “poiché quelle

130 In effetti, nonostante gli storici mutamenti politici, culturali e giuridici avvenuti in

Europa e in Italia a seguito della Rivoluzione francese e dell’Impero napoleonico, nella Toscana dei primi decenni del XIX secolo la disciplina della congruità dotale non aveva subito modifiche sostanziali.

generalità che si vanno considerando dà Giuristi, più pienamete accennate nel Teatro, sono bene considerabili, come una scorta per la quale deve caminar il giudice per regolare il suo arbitrio, principalmente considerando le circostanze del fatto, ma non necessarie, e precise”132.

Ciò posto, va detto innanzitutto che già prima dell’età moderna la dottrina italiana si era prefissa di enucleare in astratto dei criteri per determinare l’equo ammontare della dote, muovendo dal presupposto che, come sosteneva Accursio, dotare la figlia fosse un imprescindibile “paternum officium”133. Il diritto giustinianeo certo non aiutava la

scientia iuris, poiché il riferimento più esplicito al riguardo era una sintetico passaggio di Papiniano contenuto nel Digesto, secondo cui “[...] dotis etenim quantitas pro modo facultatium patris et dignitate mariti constitui potest”134. Di qui giuristi come Accursio e Azzone,

prestando la consueta attenzione alle esigenze paterne, traevano il principio secondo cui la dote dovesse essere commisurata alla posizione sociale della famiglia d’origine e di destinazione della sposa e alle disponibilità economiche del pater, ossia alla qualitas personarum e alla quantitas patrimonii135. Questi ultimi due criteri

rimasero saldamente presenti nel pensiero giuridico anche durante i secoli dell’Antico Regime, ma il continuo emergere nella prassi quotidiana e a tutti i gradini della scala sociale del dilemma della congruità dotale spinse la dottrina a raffinare l’analisi e a rinvenire ulteriori parametri: i dotti richiamavano quasi sempre anche le consuetudini del luogo, gli usi e le abitudini familiari consolidate e il numero delle figlie. Così scriveva appunto il De Luca: a fianco della “qualità, così della donna, come dell’uomo” e della “quantità del patrimonio di quello, il quale deve dotare, col riguardo ancora se sia dote sussidiaria, come è quella, la quale si cava dal fidecomisso,

132 Ivi, n. 6 (p. 109).

133 Accursio, gl. et dotare, ad D. 23, 2, 19. 134 D. 23, 3, 69, 4, Pap.

perché no dev’essere di tanta lautezza, come quella dovuta dal padre”, bisognava tener conto anche dell’”uso generale del paese”, dell’”uso particolare di quella casa, ò fameglia” e “particolarmente del numero dei figli”136. Non giungeva a conclusioni nella sostanza dissimili

Giovanni Angelo Bossi, a detta del quale la congruità della dote andava ricavata dalle facultates di chi dotava, dalla dignitas della famiglia dotante e di quella dotata, dalla condizione del marito e della moglie, dal “numerus liberorum”, dalla “consuetudo regionis” e infine dagli usi familiari137. Ancora nel XVIII secolo e poi nel XIX

l’elencazione dei criteri di commisurazione di una dote congrua rimasero pressappoco i medesimi: valgano sul punto le considerazioni del giurista di Pescia Francesco Forti138, che, nei primi decenni

dell’Ottocento, ricostruendo storicamente l’evoluzione della nozione di congruità dotale ribadiva come quest’ultima fosse “da considerarsi secondo le consuetudini del paese, della famiglia, la condizione del marito, e da tassarsi secondo il prudente arbitrio del giudice”139. Un

discorso a parte lo meriterebbero le doti delle monache, ritenute congrue alla stregua di canoni diversi da quelli tradizionali: in tal caso infatti, argomentava il De Luca, l’unico criterio da seguire era la misura della dote “la qual’è solita darsi darsi al monastero”, non rilevando minimamente che la giovane fosse “nobile” o “ignobile”,

“più ricca” o “meno provista de beni di fortuna”140.

136 G. B. De Luca, Il dottor volgare, lib. VI, cap. X, nn. 2-3 (pp. 105-106). 137 Cfr. G. A. Bossi, Tractatus, cap. XIII, pp. 514-519.

138 Francesco Forti, nato a Pescia nel 1806, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza

dell’università di Pisa ed ebbe tra i suoi docenti l’insigne studioso di diritto criminale Giovanni Carmignani. Dopo la laurea si spostò a Firenze, dove lo accolse il Viesseux. Entrato in contatto con gli ambienti liberali, il Forti prese parte alle principali dispute giuridiche, storiche e politiche del tempo. Nel 1832 fu nominato avvocato presso la Ruota criminale di Firenze, ma morì poco dopo, nel 1838. Cfr. L. Rossi, voce Forti, Francesco in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 49, Roma, 1997.

139 F. Forti, Trattati inediti di giurisprudenza, Viesseux, Firenze, 1854, p. 77.

140 G. B. De Luca, Il dottor volgare, cap. X, n. 9 (p. 111). Perciò destinare una figlia

al monastero, pur comportando l’esborso di una dote, aveva per il padre costi assai minori che maritarla.

La solidità dell’opinione dottrinale si rifletteva peraltro nelle legislazioni italiane. Così ad esempio Vittorio Amedeo II, eccellente riformatore e abile promotore dell’espansione territoriale del suo

regno141, dispose nelle sue Costituzioni sabaude del 1729, pubblicate in

francese e italiano, che “la congruità della Dote rispetto alle maritande si regolerà a misura della qualità, e Beni della famiglia, e singolarmente avuto riguardo a quelle, che sogliono assegnarsi alle Persone di simil grado secondo la consuetudine del Luogo”142.

Per chiudere sul punto, merita sottolineare che il sistema del diritto comune prescriveva che, una volta costituita secondo congruità, una dote non potesse più essere diminuita nel corso del matrimonio né avere un differente valore in caso di seconde nozze. La regola, ricordava il De Luca, non era però da intendersi “con troppo indiscreto rigore”, giacché non valeva nell’ipotesi in cui si fosse accordata una dote per un matrimonio poi non avvenuto. In tale ipotesi il valore promesso inutilmente non vincolava in alcun modo il dotante per il futuro. Così, ad esempio, se il padre, “in occasione di trattare un matrimonio di sua sodisfazione”, costituiva una dote elevata ma poi lo sposalizio per una qualche ragione non approdava a buon fine, era del tutto legittimo che ne seguisse un altro “con dote minore”. Allora il divieto di diminuzione della dote “camina quando la dote abbia già avuto il suo effetto per un matrimonio, il quale dopoi si sia disciolto per morte, overo per legitimo divorzio, siche bisogni la nuova dote per contrarre un’altro matrimonio, mà non già quando sia una semplice destinazione imperfetta”143.

Le facoltà del dotante, come più volte ricordato, avevano un peso decisivo nella valutazione della congruitas dotale. Nel corso del Seicento, in Toscana un padre aristocratico, residente in un centro di

141 Come ben spiegato in C. Storrs, War, diplomacy and the rise of Savoy. 1690-1720,

Cambridge University Press, Cambridge, 1999.

142 Leggi e Costituzioni di Vittorio Amedeo II, Torino, 1729, tomo II, lib. V, tit. XIV

(p. 314).

provincia come Borgo San Sepolcro, al momento della costituzione della dote era in grado di mettere insieme tra i 3000 e i 7000 fiorini, somme considerevoli per lo standard del tempo. Al contrario un padre povero del Granducato non arrivava oltre i 300 scudi, motivo per cui nel dicembre del 1768 Pietro Leopoldo sancì l’esenzione “dal pagamento della Gabella prescritta” proprio di “tutte le doti che non eccederanno nel totale la somma di scudi trecento, [...], in qualunque forma siano quelle costituite”144. Soprattutto dalle sostanze paterne

dipendeva quindi l’entità della dote costituita, il che indusse i giuristi a porsi due domande fondamentali: era il padre tenuto a dotare ugualmente tutte quante le figlie? E ancora: la consistenza patrimoniale del dotante andava valutata con riguardo al momento della costituzione della dote o viceversa al momento del suo sopravvenuto decesso? Al primo quesito la posizione dottrinale prevalente, in linea con la consueta sensibilità per le libertà paterne, rispondeva che nulla imponeva di attenersi a una rigida uguaglianza tra le figlie. Secondo l’autorevole parere del De Luca, occorreva tenere di conto della “pratica cotidiana molto frequente”, dalla quale si ricava che “ad un’istesso padre conviene, secondo le congiunture, maritare le sue figlie con inegualità notabile di dote, per la diversa qualità dei mariti, overo per la mutazione dello stato del padre, ò dei parenti”. Era giusto dunque che “non abbia il padre, overo un altro maggiore, l’obligo di trattare tutte le figlie ò descendenti, con una totale egualità”145. Anche

l’illustre avvocato di Cortona Gregorio Fierli146, di certo una delle

personalità più in vista del panorama giuridico toscano del XVIII

144 Motuproprio relativamente alla condonazione delle Gabelle sulla Dote, reduzione

della Gabella, Censi e permute del dì 19 dicembre 1768, in L. Cantini, Legislazione toscana, tomo XXIX, p. 189.

145 G. B. De Luca, Il dottor volgare, lib. VI, cap. X, n. 4 (p. 106).

146 Nato a Montecchio nel 1744, Gregorio Fierli frequentò i corsi di giurisprudenza

presso l’università di Pisa per poi apprendere la pratica dell’avvocatura a Firenze nello studio di Giovanni Paolo Ombrosi. Le sue opere giuridiche riscossero notevole successo tra i pratici del diritto, ma il Fierli si occupò anche di economia e di riforme, appoggiando apertamente la legislazione leopoldina. Mori a Firenze nel 1807. Cfr. O. Gori Pasta, voce Fierli, Gregorio in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 47, Roma, 1997.

secolo, sottolineava come la misura congrua della dote non fosse legata “alla quantità della dote assegnata all’altre Figlie maritate”147.

Rafforzava l’opinione prevalente Antonio Filippo Montelatici, “Pubblico Professore d’Istituzioni Imperiali, e dell’Arte de’ Notai nello studio Fiorentino”148: premesso che il padre fosse tenuto a dotare

la figlia “congruamente”, e che la congruità dotale dovesse essere desunta avendo riguardo alle risorse economiche del dotante, alla “dignità della famiglia tanto del dotante, che della dotata”, alla “qualità, e condizione dei coniugi”, al “numero dei figli del dotante”, il Montelatici aggiungeva ai suddetti criteri anche la “quantità della dote data dal padre all’altre figlie”. Sennonché più avanti asseriva che “non può la figlia lamentarsi procedendo specialmente ai termini dello Statuto fiorentino per essergli stata assegnata una dote minore, che all’altra; e perciò per questo capo non sarà consentito di chiedere il supplemento per conseguire un egual quantità; essendo in facoltà del padre di assegnare ad una figlia una dote maggiore, e ad un’altra una minore”. Ma se era il fratello a dotare allora costui “è tenuto a costituire una dote eguale alle sorelle”149, un’aggiunta, questa,

poggiata su numerose opinioni precedenti, tra cui quella del Bossi: “[...] post mortem patris non posse introducere inaequalitatem dotium, quam ipse pater ex variis causis explicatis potest servare in constituenda filiabus dote”150. L’eccezione appena ricordata è

facilmente spiegabile se consideriamo che la società d’Antico Regime conferiva al pater, non ad altri un’indiscussa autorità all’interno del nucleo familiare.

Il secondo quesito preannunciato, e cioè se le facoltà del dotante dovessero essere valutate al momento della costituzione della dote o al momento della sopravvenuta morte dello stesso, trovò una risposta

147 G. Fierli, Osservazioni pratiche (trad. di A. Vita), Vincenzo Vestri, Prato, 1827,

tomo I, cap. III, osservazione XLIV, p. 246.

148 Tomo decimoterzo delle Gazzette toscane, Pagani, Firenze, 1778, p. 146.

149 A. F. Montelatici, Elementi di giurisprudenza civile (trad. di G. Sacchetti),

Stamperia Bonducciana, Firenze, 1824, tomo V, cap. IX, pp. 24-25.

altrettanto univoca del primo. Ancora una volta ci è d’aiuto il Montelatici, che riportava sul punto la dottrina prevalente senza discostarsene: “Il sentimento più vero si è, che si deve avere riguardo al tempo della dotazione; dimodochè sebbene nel tempo di mezzo tra la dotazione, e la morte del padre siano aumentate le facoltà paterne non può domandare la figlia il supplemento della dote”151. E anche il

Fierli precisava che la congruità dotale dovesse essere commisurata alle forze patrimoniali del padre “al tempo del contratto Matrimonio”152. Nei casi concreti sottoposti al vaglio della Rota

fiorentina l’argomento aveva risvolti pratici di non poco conto.

Vero e proprio grattacapo per la dottrina italiana d’età moderna fu il rapporto che intercorreva tra dote congrua e legittima. Già abbiamo segnalato che l’exclusio propter dotem fu ripresa non dal diritto romano giustinianeo, bensì dalla tradizione giuridica longobarda, in quanto più confacente agli interessi familiari della civiltà comunale italiana del Basso Medioevo, perennemente in cerca di soluzioni pratiche capaci di preservare intatto il patrimonio paterno in mani maschili. Grazie all’exclusio, alla morte del padre una figlia poteva soltanto richiedere la dote ricevuta, che diveniva perciò un surrogato della legittima senza tuttavia acquisirne il carattere della rigorosa rispondenza proporzionale al patrimonio paterno. L’istituto era espressamente menzionato in parecchi statuti comunali, tra i quali, per esempio, quelli di Volterra e di Pisa153.

“La Toscana”, spiega la Scardozzi, “è la regione d’Italia dove, nel corso dei secoli, il sistema dotale aveva assunto con più chiarezza la funzione di strumento per l’esclusione delle donne dalla trasmissione del patrimonio familiare”154. Francesco Forti, commentando la legge

successoria del 1814155, per alcuni versi un allontanamento dalla logica

151 A. F. Montelatici, Elementi, tomo V, cap. IX, p. 24. 152 G. Fierli, Osservazioni pratiche, tomo I, cap. III, p. 246. 153 Cfr. M. Bellomo, Ricerche, p. 176.

154 M Scardozzi, Tra due codici p. 95.

155 In base alla quale, per quanto ci riguarda, alle donne fu concesso il diritto a

delle epoche precedenti, tratteggiò un breve ma efficace quadro storico-giuridico in proposito: “Negli antichi Statuti che hanno avuto forza in Toscana fino al 1808”, spiegava, l’esclusione delle femmine dalla successione avveniva o propter dotem o propter masculos. Nel primo caso, “la dote succedeva in luogo di legittima”; nel secondo le donne “dovevano intendersi escluse anche dalla legittima e la dote non succedeva in luogo della legittima né si misurava sulla legittima”, ragione per cui qui la figlia “non poteva pretendere che una dote congrua da considerarsi secondo le consuetudini del paese, della famiglia, la condizione del marito, e da tassarsi secondo il prudente arbitrio del giudice; ma i suoi diritti non erano esercitabili se non nel caso del matrimonio”156. In altre parole, laddove gli statuti non

escludevano a priori le femmine dalla successione la dote prendeva il posto della legittima loro spettante; laddove viceversa, in presenza di maschi, privavano espressamente le donne della legittima, ad esse non rimaneva che reclamare una dote congrua secondo i parametri consolidati nel sistema dello ius commune. Con specifico riferimento agli statuti fiorentini, ricordava il Fierli commentando le opinioni del giurista quattrocentesco Paolo di Castro, detto il Castrense, la scelta compiuta era inequivocabilmente quella della exclusio propter masculos: “la dote esistendo i maschi non succede in luogo di legittima, poiché [lo statuto di Firenze] comincia dall’esclusione delle donne, e procede dipoi alla loro dotazione”. E questa, aggiungeva, “è la massima costante e indubitata dei nostri tribunali”157.

La riflessione del Forti di un qualche interesse per la congruità dotale si chiudeva qui, ma un interrogativo restava irrisolto: qualora una figlia avesse avuto astrattamente diritto alla legittima, la dote doveva essere commisurata in primis a quest’ultima relegando in secondo piano gli altri tradizionali criteri di quantificazione o, al contrario, poteva anche

loro quota di legittima avesse superato di un sesto il valore della dote ricevuta.

156 F. Forti, Trattati inediti, pp. 76-78.

157 G. Fierli, Le più celebri teoriche dei dottori (trad. di Negotante Albini), Tipi delle

essere inferiore? Ancora una volta era potenzialmente messa a repentaglio la discrezionalità del dotante con eventuale pregiudizio alle sue esigenze patrimoniali e alla sua arbitrarietà. Cionondimeno la dottrina giuridica, attenendosi al consueto copione, scongiurò qualunque rischio. Il De Luca riporta l’opinione “riprovata” secondo cui “la tassa della dote vada regolata dalla tassa, che la legge hà fatto della legittima dovuta alli figli, mentre in vita non si dà legittima, mà si attende la congruità”158. Meno di un decennio prima del De Luca,

Giovanni Angelo Bossi, dopo aver lungamente confrontato le tesi avverse in dottrina sullo spinoso argomento, si era spinto più in là: “Vera itaque sententia est iuxta ius commune, dotem, congruam non semper esse legitimae quantitate, quae filiae contingeret, si eo tempore dotationis pater moreretur, aestimandam, et praestanda, sed posse dici, et esse congruam dotem, quae sit minor legitima, si pater legitime, et congrue filiam dotet, seu dotaverit pro modo suarum facultatum, et inspectis, et servatis circunstantis dignitatis personarum eiusdem patris, filiae, et mariti, numeri filiorum, et aliis”159. La via

prescelta era perciò di lasciare mani libere al dotante, che poteva anche non attenersi rigorosamente alla quota di legittima di regola spettante alla figlia, bastandogli semmai dotare quest’ultima secondo gli usuali criteri di congruità. Siffatto meccanismo consentiva, da un lato, di ovviare al rischio di costringere il pater a raggiungere una somma di beni precisa e definita ex lege; dall’altro, di mantenere intatto il suo potere discrezionale. In ogni caso, le posizioni sul punto erano divergenti, ma lo stesso De Luca, nel suo Theatrum veritatis, notava come nel Regno di Napoli fosse in uso tra conti e baroni la consuetudine per cui la dote, ancorché congrua, potesse essere inferiore alla legittima: “Doctores distinguentes Magnates ab aliis, intelligendi videntur in terminis consuetudinis praedictae, in quibus cum liceat fratri dare dote de paragio minus legitima, videtur pro

158 G. B. De Luca, Il dottor volgare, lib. VI, cap. X, n. 3 (p. 106). 159 G. A. Bossi, Tractatus, cap. XIII, n. 37 (p. 521).

exemplo deduci casus Magnatum, in quibus casus est frequenter