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Aspetti della congruità della dote in alcune decisiones della Rota fiorentina al tramonto dell'Ancien Regime (1742-1784)

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UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di laurea magistrale in Giurisprudenza

Tesi di laurea

Aspetti della congruità della dote in alcune decisiones

della Rota fiorentina al tramonto dell’Ancien Régime

(1742-1784)

Il Candidato

Il Relatore

Giulio Talini Prof. Andrea Landi

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Indice

Introduzione...3

La rilevanza storica della dote nella famiglia italiana del XVIII secolo...8

1. Illuminismo, famiglia e matrimonio nell’Italia del Settecento...8 2. L’istituto della dote nel Settecento: un quadro d’insieme...22 2.1 Cenni storici sul percorso della dote in Italia fino all’età

moderna...22 2.2 Il ruolo sociale, giuridico ed economico della dote nell’Ancien Régime...26

La congruità della dote nella società e nel pensiero giuridico moderni...36

1. Congruità della dote e società d’Ancien Régime...36 2. La dottrina italiana dell’età moderna intorno alla nozione di congruità della dote...45

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Alcune decisiones della Rota fiorentina sulla congruità dotale

(1742-1784)...60

1. Il divieto di diminuzione della dote e i criteri generali di congruità dotale secondo la Rota fiorentina...60

2. I rimedi processuali a tutela della congruitas dotale...92

3. Un caso emblematico: i Placidi di Siena...101

Conclusioni...114

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Introduzione

“Vorrei piuttosto avere le corna, che gli mancasse roba sul corredo”1

spiegava una vecchia contadina del Granducato di Toscana a Lapo de’ Ricci, georgofilo toscano del primo Ottocento. Frasi come questa possono oggi far sorridere, specie dopo gli storici mutamenti nella famiglia occidentale avvenuti nel secondo dopoguerra2. L’autorità

patriarcale, il maggiorascato, la dote, il corredo appaiono alle nuove generazioni niente più che polverose fondamenta di un antico ordine familiare ormai dissolto. E tuttavia giova qui ricordare che fu soltanto sotto il quarto governo Moro (1974-1976), e non secoli fa, che la

celebre riforma del diritto di famiglia del 19753 introdusse nel Codice

Civile l’art. 166 bis: “È nulla ogni convenzione che comunque tenda alla costituzione di beni in dote”. È chiaro, quindi, che rivolgere l’attenzione alla dote nelle famiglie toscane dell’età moderna e alle icastiche parole di una povera contadina pisana, come qui si vuole fare, non è sterile esercizio di erudizione, ma, almeno nel caso italiano, sguardo a un passato non troppo lontano e soprattutto ricerca storiografica di ambito sociale, economico e giuridico ricca di spunti. Non è però la dote genericamente intesa l’oggetto del nostro studio, bensì la nozione di congruità della dote, una vexata quaestio presente nel pensiero dei giuristi fin dall’epoca bassomedievale. Sul punto, a differenza di quanto può dirsi degli altri aspetti dell’istituto dotale, la letteratura storica e storico-giuridica tacciono o si soffermano solo superficialmente. Eppure le fonti dimostrano che nella vita quotidiana delle famiglie italiane tra il Cinquecento e il Settecento la determinazione dell’ammontare della dote per le figlie, un obbligo

1 P. Malanima, Il lusso dei contadini. Consumi e industrie nelle campagne toscane

del Sei e Settecento, il Mulino, Bologna, 1990, p. 143.

2 E magistralmente sintetizzati in E. J. Hobsbawm, Il secolo breve 1914-1991, BUR,

Milano, 2014, capp. X-XI.

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anzitutto paterno, e dunque la congruità della stessa, erano cause di bisticci e di beghe familiari di durata alle volte pluridecennale. Non è una sorpresa, dirà chi conosce a fondo la società d’Antico Regime: almeno fino alla cosiddetta “rivoluzione romantica” della seconda metà del XVIII secolo e alla svolta “sentimentale” dell’Illuminismo, ben rappresentata dalla Nouvelle Helöise di Jean-Jacques Rousseau (1761), l’aspetto patrimoniale e la convenienza erano questioni di vitale importanza in ogni matrimonio, a prescindere dal ceto. Perciò, tenendo conto degli interessi in gioco nelle dinamiche coniugali dell’Europa moderna, certo diversificati a seconda del rango sociale e cionondimeno sorprendentemente convergenti nella sostanza, la congruitas della dote era una questione doppiamente rilevante: in primo luogo perché era potenzialmente in grado di mettere in discussione la volontà del pater, limitandone la discrezionalità al momento della quantificazione dotale; in secondo luogo perché un ammontare più o meno significativo della dote aveva un peso non trascurabile nel determinare il prestigio di un gruppo familiare nonché la scelta del coniuge. Spietata e schietta, in proposito, era la rappresentazione del letterato ferrarese Giovan Battista Giraldi in pieno XVI secolo: “Nei matrimoni è prima da considerare la quantità della dote e poi la donna, perché non arricchiscono le case le virtù delle donne, ma le facoltà ch’elle in casa del marito portano”4.

Certo, dote “congrua” vuol dire tutto e niente. L’obiezione coglie nel segno, come è evidente a chi si avventura tra le fonti sull’argomento: da un lato la reticenza dei legislatori, attenti a non intaccare più del necessario l’autorità del pater, dall’altro la riflessione dottrinale al riguardo, quasi priva di appigli alla codificazione giustinianea e inevitabilmente astratta, alimentavano infatti la nebbia attorno al concetto di congruità dotale. Nella prassi quotidiana il rimedio contro la vaghezza, almeno in prima battuta, era il ricorso alla consuetudine, della famiglia o del luogo, e a criteri più o meno diffusi nella coscienza

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collettiva e nella trattatistica giuridica. Ma a chi rivolgersi in caso di controversie? Non certo alla muta legge né all’astrattismo dottrinale della communis opinio. Rimaneva allora soltanto la giurisprudenza, grande protagonista mediante l’interpretatio del diritto nell’Italia dell’età moderna e forse unico punto fermo in un panorama giuridico

altrimenti caotico, rarefatto, frammentato5. Se ne deduce allora che,

con riguardo alla nozione di dote congrua, rimanere su un piano puramente dogmatico, prassi tanto cara a una moltitudine di giuristi, condurrebbe senza dubbio in un vicolo cieco. È semmai calandosi nel caso concreto, in un’altra società, in un altro tempo, in un’altra mentalità che è possibile sperare in un qualche risultato. Lo storico e lo storico del diritto, se di congruità della dote si occupano, sono insomma costretti a “sporcarsi” le mani nella vita quotidiana e nelle vicende giudiziarie di secoli fa, in cerca di “carne umana” direbbe Marc Bloch6.

Anche su un piano più strettamente tecnico-giuridico la scelta di focalizzarsi sulle fonti giurisprudenziali si giustifica senza sforzo: come avrebbero potuto un legislatore o un trattato definire nel dettaglio, con vane pretese di onniscienza, ciò che solo e soltanto caso per caso, da un giudice in carne ed ossa, poteva essere specificato? È tuttavia ovvio che una ricerca in tema di congruità dotale tanto ambiziosa da analizzare esaustivamente le decisioni dei tribunali italiani o europei nel corso dell’età moderna richiederebbe sforzi degni di una fatica di Eracle. In questa sede, pertanto, è stata scelta una via più modesta: la presente ricerca è infatti circoscritta al Granducato di Toscana e, più precisamente, alle decisiones della Rota fiorentina, attiva fin dalla riforma del 1502, nel periodo compreso tra il 1742 e il 1784. Trattasi di un’epoca di fermento e di crisi di secolari certezze.

5 Infinite sul punto le critiche degli illuministi di tutta Europa. Celebre quella in

Voltaire, Dizionario filosofico, Mondadori, Milano, 1968, alla voce Leggi civili e

ecclesiastiche, pp. 441-442: “[...] Che ogni legge sia chiara, coerente e precisa: interpretare la legge vuol dir quasi sempre corromperla”.

6 Cfr. M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Einaudi, Torino, 2009, p.

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Mentre l’Europa, ormai priva di rivali temibili in campo economico e

militare7, si scontrava al suo interno e nel mondo coloniale prima nella

Guerra di Successione austriaca (1740-1748) e poi nella Guerra dei Sette Anni (1756-1763) e al di là dell’Atlantico la Rivoluzione americana scuoteva da cima a fondo l’Impero britannico e l’opinione pubblica occidentale, l’Illuminismo muoveva i suoi passi decisivi prima del fatidico 1789. L’esprit de lois di Montesquieu (1748), il monumentale progetto dell’Encyclopédie diretto da Diderot e d’Alambért (1751-1780), l’Essai sur les moeurs et l’esprits des nations di Voltaire (1756), il Contrat social di Rousseau (1762), il Dei delitti e delle pene di Beccaria (1764), la celebre risposta kantiana alla domanda Was ist Aufklärung? (1784) e molte, moltissime altre opere sgretolarono un poco alla volta le granitiche verità in campo religioso, politico, economico e sociale dell’Antico Regime, già intaccate

durante la crisi della coscienza europea8 tra Sei e Settecento. E col

circolare di libri, di idee e di uomini il dispotismo divenne “illuminato” e aperto, sia pur con la dovuta cautela, alle istanze di rinnovamento suggerite dai philosophes. Ciò accadde ad esempio nella Russia di Caterina II e nell’Impero di Giuseppe II, ma anche, per restare in ambito italiano, nella Napoli di Carlo III di Borbone e nel Granducato

di Toscana del Consiglio di Reggenza prima e di Pietro Leopoldo poi9.

In tale quadro di declino dell’Ancien Régime la famiglia e il matrimonio europei, non senza divergenze a seconda dell’area geografica e del contesto socio-economico, rimasero contraddittoriamente sospesi tra riforma e reazione, tra innovazione e conservazione. Chi ha studiato o studia la dote nei suoi riflessi

7 Anche a causa delle crisi o dei crolli degli imperi ottomano, Moghul, safavide e

cinese nel corso del XVIII secolo. Al riguardo, cfr. C. H. Parker, Relazioni globali in

età moderna. 1400-1800, il Mulino, Bologna, 2012.

8 L’espressione è tratta da P. Hazard, La crisi della coscienza europea, Utet, Torino,

2007.

9 Nel 1737, alla morte senza eredi dell’ultimo regnante della dinastia medicea, Gian

Gastone, il Granducato di Toscana passò a Francesco Stefano di Lorena, che governò attraverso un Consiglio di Reggenza fino alla sua morte nel 1765, quando a Firenze si insediò il figlio Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena.

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giuridici e sociali lo sa bene, ma lo saprà ancora meglio guardando alla vicenda storica della congruità dotale e alle statuizioni espresse in merito dalla Rota fiorentina nella seconda metà del XVIII secolo in una Toscana pur sempre all’avanguardia in fatto di spirito illuminista. Venendo alla struttura della ricerca, sarà opportuno in principio un inquadramento storico della famiglia italiana nel Settecento e del ruolo centrale che in essa rivestiva la dote. Poi passeremo alla congruità dotale, che più ci interessa: dalle implicazioni socio-economiche di tale nozione alle posizioni in merito della dottrina (romana, medievale e soprattutto moderna, toscana e non solo) e dei legislatori della penisola italiana. Infine verrà trattata la giurisprudenza della Rota fiorentina sulla congruitas dotis nel periodo compreso tra il 1742 e il 1784, sviscerando le numerose questioni emerse nelle controversie giudiziarie di gente toscana di più di due secoli fa. Da qui infine le conclusioni, che vere conclusioni non potranno né vorranno essere: l’auspicio è la prosecuzione di un filone di ricerca inesplorato o esplorato soltanto superficialmente, che attribuisca alle raccolte di decisiones della Rota fiorentina, preziose miniere di dati storici e storico-giuridici, il peso che meritano.

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La rilevanza storica della dote nella

famiglia italiana del XVIII secolo

1. Illuminismo, famiglia e matrimonio nell’Italia

del Settecento

“Famiglie, parrocchie, villaggi, mestieri”, ha scritto il Prosperi10

tratteggiando in poche righe la società d’Antico Regime, “erano altrettante cellule per le quali qualcuno di autorevole – il padre, il prete, un aristocratico, un magistrato – rispondeva della presunta armonia interna, ed aveva titolo a parlare. Ognuna di queste cellule era concepita come parte di un organismo vivente, e aveva una sua funzione”. Se è dunque vero che l’Europa moderna era un mondo di comunità e di gerarchie, un corpo sociale composito, altrettanto vero è che la famiglia costituiva un organo fondamentale di quel corpo. “Una patria è un insieme di famiglie” sottolineava Voltaire nel Dictionnaire philosophique11, brillante manifesto dell’Illuminismo.

Negli ultimi decenni la storiografia e i demografi hanno tentato a più riprese di classificare i modelli della famiglia europea tra Cinque e Settecento. Rimarchevole è stato l’operato del Gruppo di Cambridge per lo studio della popolazione, diretto dall’inglese Peter Laslett, che approdò a delineare cinque tipologie di aggregati: famiglie nucleari, estese, multiple, senza struttura e i solitari12. Di nuovo Laslett, insieme

ad altri storici del calibro di John Hajnal, tornò sulla questione in un

10 A. Prosperi e P. Viola, Storia moderna e contemporanea, Einaudi, Torino, 2000,

vol. 2, pp. 200-201.

11 Voltaire, Dizionario filosofico, voce Patria, p. 504.

12 Cfr. P. Laslett, Famiglia e aggregato domestico e Caratteristiche della famiglia

occidentale in M. Barbagli (a cura di), Famiglia e mutamento sociale, il Mulino,

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saggio fondamentale13, nella quale sono distinti il modello familiare

dell’Europa nord-occidentale, caratterizzato dal matrimonio tardivo (in media al di sopra dei 26 anni circa per gli uomini e al di sopra dei 23 anni circa per le donne) e dalla residenza neolocale, dal modello familiare prevalente nell’Europa meridionale e orientale, in cui si riscontravano piuttosto il matrimonio precoce e la residenza patrilocale. Per quanto qui interessa maggiormente, nella Toscana del XVIII secolo, sebbene i dati siano rarefatti, recenti studi14 hanno

dimostrato che, mentre l’età delle prime nozze dei maschi oscillava tra i 27 e i 33 anni, l’età al matrimonio delle femmine oscillava nella prima metà del secolo tra i 22 e i 27 anni, nella seconda metà tra i 24 e i 28 anni. Quanto alla struttura familiare prevalente invece è da notarsi come nel corso della seconda metà del Settecento il tradizionale modello patrilocale, a cui i fiorentini a lungo erano stati fedeli, era sempre più spesso sostituito da quello neolocale, soprattutto tra gli aristocratici. Così si evince dai dati del 1810 relativi alla città di Firenze riportati dal Barbagli15, secondo il quale “anche se se il

modello di residenza neolocale e il tipo di famiglia nucleare erano già molto diffusi nei centri urbani almeno da tre secoli, ora essi si estendevano ulteriormente, acquistavano ancor più importanza”16.

Senza dilungarsi più del dovuto sull’acceso dibattito in seno alla storiografia relativo alla classificazione delle famiglie europee dell’età moderna, preme rilevare l’intrinseco limite epistemologico di simili ricostruzioni di storia quantitativa: è quantomeno rischioso infatti affidarsi a numeri e statistiche in materia familiare prescindendo da pratiche e convinzioni sociali diffuse. In altre parole, le logiche di un aggregato contadino non erano accostabili a quelle di un aggregato

13 R. Wall, J. Robin e P. Laslett (a cura di), Forme di famiglia nella storia europea, il

Mulino, Bologna, 1984.

14 M. Breschi e R. Rettaroli, La nuzialità in Toscana, secoli XIV-XIX in Le Italie

demografiche. Saggi di demografia storica, Università degli Studi di Udine, 1995,

pp. 21-43.

15 M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX

secolo, il Mulino, Bologna, 2013, p. 180.

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nobiliare e proprio tali differenze originavano strutture familiari dissimili e peculiari.

In ogni caso - e l’affermazione è valida trasversalmente per tutta l’Europa moderna - il tratto unificante della famiglia risiedeva nel suo pilastro generativo: il matrimonio. Matrimonio che a partire dal Concilio di Trento (1545-1563), e in particolare dal decreto Tametsi (1563)17, era una faccenda quasi esclusivamente ecclesiastica, un

sacramento prima che un contratto18. Attraverso questa via la Chiesa di

Roma, controriformista e in espansione, aveva gettato le basi del suo monopolio su uno degli istituti centrali della societas Christiana e, di conseguenza, di un controllo sociale parallelo a quello del Sant’Uffizio e altrettanto pervasivo. Così, sebbene lentamente e con notevoli difformità a seconda delle regioni italiane, il modello che si consolidò tra i secoli XVI e XVII fu quello di un matrimonio celebrato in chiesa alla presenza di due o tre testimoni e del parroco, registrato dal celebrante, reso noto attraverso la pubblicazione di bandi per tre domeniche consecutive prima della cerimonia. Né la Chiesa né gli ordini religiosi accettarono più rituali locali e consuetudini come le convivenze e i rapporti prematrimoniali dopo gli sponsalia o la contrazione del matrimonio mediante il mero scambio del consenso tra gli sposi, espresso per verba de praesenti. I fedeli “cominciarono a sentirsi colpevoli verso ciò che prima era accettato, legittimo o tollerato”19. Se non altro sul piano teorico, giacché passare ai fatti non

fu tanto semplice e immediato, la Curia romana aveva dunque proclamato la propria giurisdizione esclusiva in materia matrimoniale e, come chiarisce la Lombardi20, toccò attendere le riforme

17 Per una spiegazione dettagliata, v. E. Bonora, La controriforma, Laterza,

Roma-Bari, 2009.

18 Ma la natura sacramentale del matrimonio era già stata affermata secoli addietro: la

prima volta in occasione del sinodo di Verona del 1184 con la bolla Ad abolendam

diversam haeresium pravitatem e poi, in via ufficiale, col Decreto degli Armeni

durante il Concilio di Firenze del 1439.

19 E. Bonora, La controriforma, p. 104.

20 D. Lombardi, Il matrimonio. Norme, giurisdizioni, conflitti nello stato fiorentino

del Cinquecento in C. Lamioni (a cura di), Istituzioni e società in Toscana nell’età moderna, Atti delle giornate di studio dedicate a Giuseppe Pansini, Firenze, 4-5

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settecentesche per una riaffermazione del potere secolare al riguardo.

In ultima analisi dopo Trento, per dirla col Passaniti21, “l’unità del

‘giuridico’ familiare si scinde in due gironi coordinati socialmente ma distinti: da una parte il diritto matrimoniale, governato dalla Chiesa con il suo diritto, dall’altra un diritto familiare ristretto, fondato su due cardini elementari ma indistruttibili: l’autorità paterna e le successioni”.

Bisognava infatti fare i conti anche col carattere marcatamente patriarcale della famiglia moderna ereditato dalla tradizione

romanistica. La società, parafrasando il Vismara22, era concepita come

una gerarchia, che a Dio riconduceva l’autorità del sovrano e del pater in un’ottica di preservazione di un atemporale, immobile ordine sociale. Sebbene non richiedesse il consenso dei genitori per la validità di uno sposalizio, il diritto tridentino definiva la sua mancanza “detestabile” e nel XVI secolo alcuni teologi arrivarono addirittura a bollare come peccato mortale il matrimonio contratto senza l’assenso

paterno23. Proprio con l’obiettivo di impedire nozze in contrasto con la

volontà dei genitori, uscì per la prima volta nel 1723 in appendice a un’opera di Domenico Zauli la “Dissertatio teologico-legalis de sponsalibus et matrimoniis quae a filiisfamilias contrahuntur parentibus insciis vel juste invitis” del canonista napoletano Francesco Maria Muscettola. Il ragionamento era pressappoco il seguente: disubbidire al padre e alla madre a causa del matrimonio non equivaleva forse a disubbidire al quarto comandamento? “In realtà”,

spiega il Gaudemet24, “fino al termine dell’Ancien Régime e in tutte le

categorie, il matrimonio è spesso deciso dai genitori”. Ciò era vero tanto per la famiglia del contado senese che riusciva a malapena a

dicembre 1992, vol. 2.

21 P. Passaniti, Diritto di famiglia e ordine sociale. Il percorso storico della società

coniugale in Italia, Giuffrè, Milano, 2011.

22 G. Vismara, Scritti di storia giuridica. La famiglia, Giuffrè, Milano, 1988, pp. 38

ss.

23 J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, SEI, Torino, 1989, p. 270. 24 ivi, p. 271.

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tirare a campare quanto per la famiglia aristocratica fiorentina con terre e titoli.

Al pater spettava insomma l’ultima parola sule nozze dei figli, ma quali erano i criteri di scelta del partner? Tentare un discorso unitario condurrebbe a indebite semplificazioni, poiché ogni ceto, ogni cellula della società aveva logiche distinte. Così, mentre le lavoratrici agricole sposavano braccianti nella speranza di potersi stabilire in una piccola fattoria grazie ai risparmi accumulati e le figlie di avvocati e di dottori sceglievano uomini della stessa professione dei padri per rinsaldare i

legami professionali25, nelle famiglie aristocratiche, se le figlie erano

numerose e c’era il timore di disperdere il patrimonio in doti, una strategia comune era quella di destinare soltanto una o alcune di esse all’amore di un uomo e di riservare alle altre la via del chiostro, con o senza il loro consenso. “Haveva 15 o 16 anni quando mi feci monaca”, dichiarò nel 1601 una ragazza di Udine, “et venni monaca volontariamente, perché, avendo delle sorelle hassai, mi pareva che fusse necessitata che io venissi”26. La giovane a cui era toccato in sorte

il matrimonio non era sentita dal padre, dagli zii e dai fratelli se non dopo che questi le avevano procurato un marito degno della casata o comunque del prestigio e dello status economico familiari. E da lei ci si aspettava una piena sottomissione agli interessi del parentado. Scendendo di qualche gradino nella scala sociale, un altro esempio di selezione del coniuge è fornito dall’ottimo studio di Chiara La Rocca

sulle famiglie livornesi di ceto medio-basso tra il 1766 e il 180627. Qui,

tra umili artigiani e commercianti di città, nonostante la società fosse attraversata da idee e da impulsi nuovi rispetto ai secoli precedenti un peso determinante nella scelta di un buon marito o di una buona moglie era ancora attribuito alla prossimità spaziale, alla comune

25 Cfr. O. Hufton, Donne, lavoro e famiglia in G. Duby e M. Perrot (a cura di),

Storia delle donne, Laterza, Roma-Bari, 2009, vol. 3.

26 D. Lombardi, Storia del matrimonio. Dal Medioevo a oggi, il Mulino, Bologna,

2008, p. 63.

27 C. La Rocca, Tra moglie e marito. Matrimoni e separazioni a Livorno nel

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attività lavorativa delle famiglie di provenienza, all’ottenimento di una dote pingue, al rinsaldamento di relazioni di credito o di affari, al perseguimento di collaborazioni lavorative o di scambi di servizi. Se dunque è vero che l’assenza di libertà dei figli di decidere con chi sposarsi è stata spesso esagerata a partire dalla cultura romantica, rimane innegabile la preminenza degli interessi familiari, e dunque collettivi, su quelli individuali.

Le esemplificazioni sulle scelte del partner nell’Italia moderna potrebbero andare avanti a lungo e più oltre avremo modo di prenderne in considerazione altre. Ciò che va sottolineato come denominatore comune del matrimonio d’Ancien Régime è la sua natura di affare in cui esigenze anzitutto economiche, politiche, di convenienza o di ascesa sociale della famiglia giocavano un ruolo fondamentale. La scelta del coniuge, in sintesi, “coinvolgeva l’intera famiglia, oltre ai parenti, agli amici e ai vicini, che si davano da fare per mettere insieme giovani e ragazze in età da marito o per reinserire rapidamente nel mercato matrimoniale vedovi e vedove ancora in giovane età”28.

Sulla famiglia, sul matrimonio e perfino sulla concezione della donna calò la vivace riflessione dei philosophes del secolo dei Lumi. Non che in tali ambiti l’Illuminismo abbia avuto lo stesso impatto e generato le stesse violente fratture che in materia di religione, di Chiesa cattolica, di scienza politica, di economia, di storiografia e via dicendo. Su rapporti e istituti familiari tradizionali la revisione illuministica fu semmai cauta ma allo stesso tempo capace di aprire le porte alle evoluzioni ottocentesche. È opportuno comprenderla per chiarire, da un lato, le vicende della famiglia italiana settecentesca e gli interventi dei legislatori illuminati in merito; dall’altro, per calare l’istituto della dote e, in seguito, della sua congruità in un contesto più ampio dove, in cerca di una sintesi, si scontravano venerazione dell’antico e spinta verso il nuovo.

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Il punto di partenza per capire la nuova sensibilità settecentesca con riguardo alla famiglia non può che essere Jean-Jacques Rousseau, con

la sua Nouvelle Heloïse (1761)29, un’opera per certi versi precorritrice

del Romanticismo. Nel suo romanzo epistolare dai toni moraleggianti, best-seller letto in tutta Europa con 70 edizioni in soli 20 anni30,

l’autore del Contrat social delineava una plastica rappresentazione della nuova corrente di pensiero, oggetto di trattati e di speculazioni in Italia come altrove, che poneva al centro del matrimonio il sentimento, il coinvolgimento emotivo dei coniugi. E ciò, come spiegato in un

bell’articolo da Annamaria Loche31, doveva per Rousseau contribuire

alla costruzione di una famiglia ordinata e ben guidata, a sua volta pilastro di una società altrettanto ordinata e ben guidata. Tali riflessioni, comunque, non spinsero affatto Rousseau a scalfire la rigidità dei ruoli tipica della famiglia patriarcale, nella quale l’uomo e la donna erano spesso descritti metaforicamente come il sole e la luna32, due mondi sotto lo stesso tetto e tuttavia operanti in sfere

separate: alla moglie la gestione del focolare domestico e della prole, al marito tutto ciò che riguardasse la vita all’esterno, non ultima la professione. Eloquenti in tal senso alcune righe de “La scienza della legislazione” (1780-1785) dell’illuminista napoletano Gaetano Filangieri: “La donna sedentaria per la natura del suo fisico; meno forte, ma più vigilante dell’uomo; esclusa, per la natura del suo sesso, dalla più gran parte delle civili funzioni, ed esclusa dall’altra parte, per l’uso, per l’opinione e per le leggi; la donna, io dico, sembra così dalla natura come dalle sociali istituzioni, destinata a questa interna

29 Altro pilastro della visione familiare di Rousseau è il romanzo pedagogico

intitolato Émile ou De l’Éducation (1762), dedicato a nuovi metodi di allevamento e cura dei bambini.

30 R. Darnton, Il grande massacro dei gatti ed altri episodi della storia culturale

francese, Adelphi, Milano, 1988.

31 A. Loche, La perfezione di Clarens. Utopia e politica in Jean-Jacques Rousseau in

Rivista di studi della filosofia, n. 3, 2005, pp. 385-407.

32 Cfr. L. Guerci, La sposa obbediente. Donna e matrimonio nella discussione

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amministrazione”33. Mary Wiesner, in un suo saggio fondamentale34, ha

ben descritto le radici di un pensiero che, tramutando il sociale in naturale, teorizzava l’intrinseca inferiorità fisica e intellettuale della donna e la sua necessaria subordinazione all’uomo: a queste

conclusioni condussero la tradizione cristiana e la patristica35, a sua

volta derivate dall’ebraismo, e il diritto romano della codificazione giustinianea. Per tornare a Rousseau, è opportuno sottolineare ancora che il filosofo ginevrino, per quanto originale nelle formulazioni, sulla questione femminile pervenne con la sua Nouvelle Heloïse a esiti non troppo distanti dal passato. Vocazione della donna rosseauiana era infatti la maternità, sue dimensioni la concretezza e la domesticità, sua religione i principi dettati dall’uomo. “La caratteristica fondamentale della donna rousseauiana”, riassume Tortarolo, “è la sua eterna infanzia”36.

Siamo qui ben lontani allora dal filone illuministico di radicale uguaglianza (almeno potenziale) tra uomo e donna rappresentato, ad

esempio, da d’Alembert37 e da Helvétius, e che aveva nel cartesiano

Poullain de la Barre38 un illustre antesignano. Eppure, come già

accennato, ciò non impedì a Rousseau di porre l’emotività, in realtà leitmotiv della sua intera filosofia, al cuore di ogni matrimonio, liberato così dal peso determinante della convenienza economica o di altro tipo. Una sensibilità, questa, che mise le radici anche nell’Italia settecentesca, meno vincolata ai precetti della Chiesa e più disinvolta

33 G. Filangieri, La scienza della legislazione, Le Monnier, Firenze, 1876, Libro IV,

parte I, capo XXXIV, p. 215.

34 M. Wiesner, Le donne nell’Europa moderna. 1500-1750, Einaudi, Torino, 2003,

pp. 29-37.

35 Si pensi, ad esempio, al fiorire nell’Occidente medievale del culto della Madonna,

vergine e madre, modello di purezza, di ubbidienza e di castità antitetico a Eva, archetipo della peccatrice. Sul punto, cfr. ivi, pp. 10-11.

36 E. Tortarolo, L’illuminismo. Ragioni e dubbi della modernità, Carocci, Roma,

1999, p. 242.

37 Significativo a tal proposito un passaggio della sua Lettre à Jean-Jacques

Rousseau, citoyen de Genève in Oeuvres, Belin, Parigi, 1821-22, IV, p. 450, nella

quale si teorizzava che l’inferiorità contingente del genere femminile derivasse dalla schiavitù e dall’avvilimento nel quale erano poste le donne.

38 Cfr. P. de la Barre, De l’égalité des sexes. Discours physique et moral où l’on voit

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nei costumi39, al punto da aver indotto Girolamo Dal Portico a definire

il Settecento come “il secolo dell’amore”40.

Sebbene infatti né la condizione della donna né la concezione rigorosamente gerarchica dei rapporti tra moglie e marito fossero messi in discussione, da più parti la famiglia d’Ancien Régime subì contestazioni. Il modello familiare tipico, incatenato a interessi politici ed economici, iniziò a essere concepito come una fonte di ingiustizie sociali e di barbarie. Finirono così sul banco degli imputati il fedecommesso, assurto dagli illuministi a icona di immobilismo e di antieconomicità, la primogenitura, il maggiorascato, l’autorità paterna, la scarsa rilevanza attribuita alle ragioni del cuore. Perfino il “voi”, abitualmente utilizzato in segno di riverenza nei rapporti interpersonali tra coniugi aristocratici, entrò in crisi in favore del “tu”, il che lascia intuire il maggiore spazio riservato all’affettività e all’intimità coniugali41. Era in atto, direbbe Tocqueville42, il passaggio da una

struttura familiare “aristocratica” a una “democratica”. La plurisecolare costruzione sociale e giuridica della famiglia era sotto attacco. Ad avanzare minacciosi erano nuovi valori borghesi e illuministici, che trovarono un loro centro di elaborazione privilegiato nella Milano austriaca dell’Accademia dei Pugni e della rivista il Il Caffè (1764-1766). Al riguardo è emblematica la vicenda biografica di Cesare Beccaria, uno degli illuministi lombardi più in vista: innamoratosi a 22 anni, nel 1760, della sedicenne Teresa de Blasco, il giovane nobile incontrò subito l’opposizione alle nozze del padre, il marchese Saverio, convinto che la ragazza non arrecasse vantaggi alla famiglia né finanziariamente né socialmente. Dopo essere stato messo agli arresti per tre mesi presso la propria abitazione, Cesare parve

39 Due esempi al riguardo sono senz’altro la commedia di Carlo Goldoni e la

diffusione della pratica del cicisbeismo, ben descritta in R. Bizzocchi, Cicisbei.

Morale privata e identità nazionale in Italia, Laterza, Roma-Bari, 2008.

40 G. Dal Portico, Gli amori tra persone di sesso diverso disaminati co’ principi della

morale teologica per l’istruzione de’ novelli confessori, Lucca, 1751, cit. in P.

Passaniti, Diritto di famiglia, p. 73.

41 M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto, pp. 317-343.

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placato e piegato al volere paterno, ma, tornato in libertà, cambiò ancora idea e sposò Teresa nel 1761. In seguito, nel suo “Dei delitti e delle pene”, Beccaria riprese a condannare gli eccessi dell’autorità patriarcale e del vecchio ordine familiare: “Queste funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche più illuminati, ed esercitate dalle repubbliche più libere, per aver piuttosto considerato la società come un’unione di famiglie che come un’unione di uomini. Vi siano cento mila uomini, o sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque persone, compresovi il capo che la rappresenta: se l’associazione è fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi; se l’associazione è di uomini, vi saranno cento mila cittadini e nessuno schiavo”43. La famiglia, in

quanto società naturale, non poteva essere imperniata su vincoli di subordinazione, bensì su obblighi di derivazione contrattuale: “Quando la repubblica è di uomini, la famiglia non è una subordinazione di comando, ma di contratto”44.

Pietro Verri, amico di Beccaria e principale redattore del periodico Il Caffè, tentò invece di vivere l’esperienza di padre come esperimento sociale e a tal fine educò la figlia Teresa alle buone letture e alla filosofia. Lo scopo, tuttavia, non era la ricerca di una sorta di emancipazione femminile, ma piuttosto la buona riuscita del futuro matrimonio, la sottomissione consapevole al marito. Proprio come per Beccaria, per Verri e per gli illuministi italiani il bersaglio erano infatti la famiglia allargata e l’onnipresenza del padre nelle decisioni di figli e nipoti e non le disparità tra coniugi o l’autorità maritale, che anzi erano considerate doverose, seppur in un contesto di affettuosità e di calore. E qui risiede il limite invalicabile, l’elemento di conservazione della riflessione illuministica italiana sulla famiglia: nel non aver posto in discussione, cioè, gli equilibri matrimoniali e la pretesa superiorità del marito alla moglie. Ecco perché, al di là della questione sentimentale,

43 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene (a cura di Alberto Burgio), Feltrinelli, Milano,

1991, XXVI, pp. 75-77.

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nei trattati di stampo illuministico le concezioni e gli istituti giuridici fondamentali del matrimonio, tra cui la dote, non furono toccati o lo furono soltanto di sfuggita.

Quest’ultimo punto ebbe un riflesso nell’atteggiamento dei legislatori settecenteschi nelle varie realtà politiche italiane45. In relazione alla

famiglia e in particolare al matrimonio il punto di partenza delle autorità statali era la plurisecolare stratificazione normativa in cui confluivano il Corpus iuris civilis giustinianeo, rivisto dai glossatori e dalla tradizione romanistica, istituti di diritto feudale, infinite consuetudini locali, statuti cittadini, la giurisprudenza di Rote e Senati, il diritto canonico (soprattutto il decreto Tametsi), e innumerevoli forme di normazione privata. In mezzo a tanta confusione, due furono le linee seguite dai riformatori settecenteschi e dai sovrani “illuminati” sull’onda di istanze giurisdizionalistiche: le misure contro i

fedecommessi46 e l’affermazione, non tout court ma circoscritta, della

potestas regia in matrimoniis47.

Legislazioni principesche come le Costituzioni piemontesi del 1723, del 1729 e del 1770 o il Codice estense del duca Francesco III del 1771 scalfirono ben poco i capisaldi del regime matrimoniale d’Antico Regime, poiché l’interesse del potere politico era quello di sottrarlo all’autorità della Chiesa romana, non di rivoluzionarlo. Perciò non può destare alcuno stupore che la spinta riformatrice andasse nella direzione di consolidare piuttosto che di erodere l’autorità patriarcale, di ratificare il costume sociale piuttosto che di mutarlo. Detto in altri termini, la politica non arrivò dove arrivò la filosofia.

45 Per un quadro generale dell’Italia del XVIII secolo, v. G. Greco e M. Rosa (a cura

di), Storia degli antichi stati italiani, Laterza, Roma-Bari, 2013.

46 Fin troppo diffusi in Italia, come già era rilevato in L. A. Muratori, Dei difetti della

giurisprudenza, Stamperia Muziana, Venezia, 1742, pp. 152-153: “Ma spezialmente dopo il 1600 cominciò ad inondar la piena de i fedecommessi. Non solo i nobili, ma anche i plebei vollero e vogliono farla da padroni della poca lor roba per gli secoli avvenire, di maniera che troppo frequenti oggidì s’odono le eredità vincolate a più e più generazioni”.

47 Cfr. P. Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia (1796-1975), il Mulino,

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Così ad esempio, se nel 1784 Giuseppe II introdusse in Lombardia il matrimonio civile, nelle Costituzioni modenesi del 1771 era punita severamente e ritenuta disonorevole quanto vituperabile l’unione di un nobile con una donna di più umile condizione. Patria potestà, separazione tra ceti, rigidità delle strutture sociali, inferiorità femminile: nessuno di tali pilastri del matrimonio d’Ancien Régime fu messo in discussione negli Stati italiani del Settecento. Anzi i legislatori si preoccuparono di puntellarli con sanzioni civili e penali come la diseredazione per il figlio sposato senza consenso, la reclusione della sposa in un chiostro o il carcere per il parroco

celebrante48. In gioco, è bene ribadirlo, non erano i cardini assiologici

familiari, ma l’affermazione della sovranità della Stato a scapito degli equilibri delineatisi con il Concilio tridentino. Né può attenuare la staticità del quadro complessivo l’esperimento di Ferdinando IV di Borbone della “colonia felice” di San Leucio, fondata nel 1789 e assurta a concretizzazione della componente utopistica dell’Illuminismo49.

Il caso toscano, su cui più avanti ci focalizzeremo, è interessante se raffrontato alle tendenze dell’epoca. Qui già a partire dall’epoca del Consiglio di Reggenza, del conte di Richecourt e dell’attivismo di Pompeo Neri, i propositi di riforma illuministici e fisiocratici trovarono terreno fertile, come magnificamente raccontato da Furio

Diaz50. Con Pietro Leopoldo, granduca di Toscana dal 1765 al 1790,

l’apertura alle idee dei philosophes fu ancora maggiore visti i suoi interventi sulle corporazioni, sui dazi interni, sul commercio dei grani,

sulla materia penale, sulla distribuzione terriera51. Proprio

l’Asburgo-Lorena toccò anche la disciplina del matrimonio, prima con il

48 ivi, p. 59.

49 Per una trattazione più diffusa sulla colonia di San Leucio, v. A. Bagnato, San

Leucio. Una colonia borbonica tra utopia e assolutismo, Agra, Roma, 1998.

50 F. Diaz, I Lorena in Toscana. La Reggenza, Utet, Torino, 1988.

51 Sulla stagione delle riforme leopoldine nel Granducato di Toscana v. Baldacci, Le

riforme di Pietro Leopoldo e la nascita della Toscana moderna, ed. Regione Toscana,

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provvedimento del 30 ottobre 178452, col quale, secondo una logica

tipicamente giurisdizionalistica, trasferì l’intero contenzioso matrimoniale al tribunale secolare, poi con la riforma degli sponsali del

179053, che abolì il carattere vincolante della promessa. Ma a causa

delle lamentele dei vescovi toscani e della Curia romana sia la prima di suddette leggi sia la seconda, assai più insolita quanto a specificità, furono riviste dal successore di Pietro Leopoldo, Ferdinando III, che con due provvedimenti tra il 1792 e il 1793 ristabilì la competenza vescovile in ambito matrimoniale e ripristinò l’obbligatorietà degli sponsali ad eccezione delle promesse contratte da minori di 20 anni, o senza il consenso paterno, o stipulate senza la presenza di tre testimoni e in forma scritta54. Tra passi avanti e indietro, perfino il Granducato di

Toscana degli Asburgo-Lorena della seconda metà del XVIII secolo, forse il più felice caso di assolutismo illuminato, non riuscì a portare avanti una linea di intervento coerente e organica con riguardo al matrimonio.

Per concludere questo inquadramento preliminare a una più dettagliata trattazione della dote e della congruità dotale, può chiarire le idee qualche breve cenno al “Traité du contrat de mariage”, celebre opera di Robert Joseph Pothier pubblicata nel 1771 e definita dagli storici “il punto d’arrivo della riflessione dottrinale dell’Ancien Régime sull’argomento”55. Il giurista di Orléans scriveva nella Francia degli

ultimi anni di regno di Luigi XV, in un contesto dove la monarchia, secondo la tradizione del gallicanesimo, rivendicava da tempo un

controllo sul clero francese, entrando non di rado in attrito con Roma56

e con i gesuiti, non a caso espulsi nel 1764. E tuttavia, pur respirando un’aria diversa dalla realtà italiana, Pothier tratteggia l’istituto

52 C. La Rocca, Tra moglie e marito, p. 246 e pp. 361-362. 53 ivi, p. 79.

54 Cfr. C. Cognetti, La riforma degli sponsali e del matrimonio nel pensiero di

Scipione de’ Ricci, in Il Diritto Ecclesiastico, LXXI, 1960, pp. 345-346.

55 J. Gaudemet, Il matrimonio, p. 252.

56 Si pensi, ad esempio, alle controversie tra Luigi XIV e Innocenzo XI, descritte

efficacemente in P. R. Campbell, Luigi XIV e la Francia del suo tempo, il Mulino, Bologna, 1997.

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matrimoniale seguendo una linea giurisdizionalista che anche in Italia e nel resto d’Europa incontrava consensi e assecondava una nuova sensibilità. Per Pothier il matrimonio è “le plus excellent, et le plus ancien de tous les contrats” e certamente quello che “intéresse le plus la société civile”57. La sua natura è duplice, poiché è sia contratto che

sacramento e, almeno sul secondo fronte, non possono essere contestati l’autorità della Chiesa e il suo giusto compito di cura della anime. Ma quanto al contratto matrimoniale è il potere politico, non ecclesiastico a decidere: il matrimonio infatti “appartient de même que tous les autres contrats à l’ordre politique, et il est en conséquence, comme tous les autres contrats, sujet aux loix de la puissance séculiere que Dieu à établie pour régler tout ce qui appartient au government e au bon ordre de la société civile”. Perciò l’autorità secolare ha il diritto

“de faire de loix pour le mariage de leurs sujets”58 e di imporre, ad

esempio, il consenso dei genitori come requisito per la validità dello sposalizio (in contrasto coi decreti tridentini) o il divieto di unioni tra persone di impari rango sociale.

In Pothier emergono dunque la marcia verso la secolarizzazione della società europea settecentesca, la potente seppur non ancora piena affermazione di sovranità dell’assolutismo illuminato, la crescente insofferenza nei confronti delle ingerenze ecclesiastiche nella vita civile, ma la sostanza della disciplina matrimoniale non cambia. L’impulso riformatore, in Pothier come altrove, era selettivo: badava poco all’oggetto e molto ai soggetti, col risultato di lasciare intatte le linee essenziali del matrimonio d’Antico Regime, a cominciare dalla dote.

57 R. J. Pothier, Traité du contrat de mariage, Debure, Parigi, 1771, p. 1. 58 ivi, pp. 14-15

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2. L’istituto della dote nell’Italia del Settecento:

un quadro d’insieme

2.1 Cenni storici sul percorso della dote in Italia fino

all’età moderna

La stagione dell’Illuminismo e i significativi mutamenti economico-sociali intercorsi nel XVIII secolo diedero impulso, come sopra illustrato, a svariate trasformazioni nella famiglia europea, sia nel quotidiano sia nell’elaborazione filosofica e legislativa, ma la rapidità dei mutamenti non va esagerata: la storia della famiglia, per riprendere

l’espressione di Braudel, procede sui sentieri della longue durée59. Le

incrostazioni dei secoli passati erano quindi molteplici e tra esse la più ingombrante era senz’altro l’istituto dotale, ancora una colonna portante del matrimonio nonché fulcro dei rapporti patrimoniali tra coniugi.

Già la sua travagliata e complessa vicenda storica rendeva la dote un’eredità ardua da mettere da parte. Senza soffermarsi sul Codice di Hammurabi e sul diritto della Grecia antica, l’istituto dotale (dos) deteneva un ruolo centrale nella famiglia romana fin dall’epoca arcaica60 e infatti la riflessione dei giuristi, raffinata e articolata, toccò

numerosi aspetti: dalle tipologie (profecticia se costituita dal paterfamilias, adventicia negli altri casi) alla funzione (ad sustinenda onera matrimonii), dai modi di costituzione (mediante datio, promissio o dictio) alla condizione giuridica dei beni dotali e al problema della restituzione degli stessi in caso di scioglimento del matrimonio. Non

59 Sul concetto di “lunga durata”, v. F. Braudel, Storia e scienze sociali. La lunga

durata in Annales E.S.C., n. 4, 1958, pp. 725-753 e id., Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino, 2010.

60 Per una felice sintesi della dote romana, v. M. Marrone, Manuale di diritto privato

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può destare stupore perciò l’ampio spazio riservato alla dote nel diritto giustinianeo e in particolare nel Codice61 e nel Digesto62.

L’istituto dotale come conosciuto in età moderna era tuttavia il frutto del recupero del diritto romano nell’Italia dei Comuni e soprattutto delle nuove esigenze delle famiglie cittadine. Nell’Alto Medioevo la dominazione longobarda in una vasta porzione della penisola italiana aveva infatti portato con sé in luogo della dote l’uso del faderfio, il dono che il mundualdo corrispondeva al genero alla conclusione del matrimonio con la figlia, dapprima di modesta entità, poi di notevole ammontare, al fine di compensare la donna per l’esclusione dalla successione ereditaria63. Ma durante la prima metà del XII secolo,

“quando la vita si riorganizzava nelle città in forme nuove e nascevano i comuni”, la dote riacquistò quasi improvvisamente

“l’antica dignità”64. E anzi tanta ne fu la diffusione che ovunque tra

Tre e Quattrocento crebbe il suo valore: valga per tutti l’esempio di Venezia, dove a metà del XIV secolo le doti pagate dalle famiglie patrizie ammontavano in media a seicentocinquanta ducati, negli anni Settanta e Ottanta a mille ducati e, a inizio XV secolo, a cifre ancora superiori, col risultato che il Senato dovette vietare nel 1420 i

pagamenti che oltrepassassero i milleseicento ducati65. Perciò la nascita

di una femmina creava nelle famiglie una crescente apprensione, visti gli esborsi che si prospettavano per maritarla come si conveniva. Lo illustra con la consueta efficacia Dante nello stigmatizzare la decadenza morale dei suoi tempi comparati a quelli dell’avo Cacciaguida, un’epoca in cui “non faceva, nascendo, ancor paura / la

61 C. 5, 12, 30, de iure dotium. 62 D. 23, 3, de iure dotium.

63 Su faderfio, meta e morgengabe dei Longobardi, cfr. F. Brandileone, Il contratto di

matrimonio in Saggi sulla storia della celebrazione del matrimonio in Italia, Hoepli,

Milano, 1906.

64 M. Bellomo, Ricerche sui rapporti patrimoniali tra coniugi. Contributo alla storia

della famiglia medievale, Giuffrè, Milano, 1961, p. 62.

65 Cfr. L. Fabbri, Trattatistica e pratica dell’alleanza matrimoniale in M. De Giorgio

e C. Klapisch-Zuber (a cura di), Storia del Matrimonio, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 108.

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figlia al padre, ché ‘l tempo e la dote / non fuggien quinci e quindi la misura”66.

Come c’era da aspettarsi, le incombenze e i rischi derivanti dall’avere una o più figlie condusse a una recrudescenza dei pregiudizi e dello svilimento della donna, inferiore nel fisico e nell’intelletto all’uomo, fragile, lussuriosa, intrigante e adesso perfino una minaccia per la ricchezza e la stabilità del nucleo familiare. Per limitare quanto possibile i danni derivanti dalla “sciagura” di aver generato una femmina, a Firenze come altrove si ricorse da un lato alla monacazione forzata delle giovani, sottratte così alla vita coniugale67, dall’altro alla

deliberata noncuranza del diritto giustinianeo, che prescriveva l’uguaglianza dei sessi di fronte all’eredità, e al recupero, riconoscibile negli statuti già dal XIII secolo, della regola di origine longobarda dell’exclusio propter dotem, lo strumento con cui appunto si escludevano le figlie dotate dall’asse successorio. Da allora, in altri termini, per una donna la dote ebbe un prezzo salato: la rinuncia all’eredità. Quest’ultimo punto allontanò drasticamente la dote

medievale da quella romana68. Non era infrequente, inoltre, che, se non

maritata o non inviata in convento, alla giovane (a prescindere dalla classe sociale) toccasse invecchiare nella casa paterna occupandosi dei servizi domestici. Per quanto singolare possa apparire oggi, il matrimonio era quindi un lusso mai scontato, come si evince dalla massiccia diffusione del celibato e del nubilato: grazie al catasto fiorentino del 1427 sappiamo ad esempio che a Firenze e nelle

campagne circostanti circa la metà della popolazione non era sposata69.

Il frequente ricorso alla dote, che stando alle fonti private era spesso finalizzato a stringere alleanze familiari o d’affari, specie nel caso di mercanti o di imprenditori, spinse gli statuti e la riflessione dottrinale a

66 D. Alighieri, Divina Commedia (a cura di Lodovico Magugliani), BUR, Milano,

2007, Paradiso, XV, vv. 103-105.

67 Sebbene anche la monacazione richiedesse l’esborso di una dote.

68 Cfr. I. Chabot, Risorse e diritti patrimoniali in A. Groppi (a cura di), Il lavoro delle

donne, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 51.

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soffermarsi con acribia sulle più frequenti controversie in materia dotale, di corredo e di donatio propter nuptias. Sorprende soprattutto la ricchezza e la vivacità intellettuale della dottrina medievale, che fin dal XII secolo scandagliò la disciplina romanistica attraverso un’attenta esegesi del testo giustinianeo prospettando però soluzioni non necessariamente attaccate alla littera e anzi spesso creative e adeguate al contesto socio-economico di provenienza. I temi principali affrontati dai glossatori come Martino Gosia, Martino da Fano, Odofredo, Martino, Bulgaro, Azzone, Accursio, Baldo degli Ubaldi, Bartolo da Sassoferrato, ricomparvero poi nelle opere giuridiche dell’età

moderna70, non di rado senza essere ulteriormente approfonditi.

Non è il caso di indugiare più del necessario sulla vasta elaborazione giuridica della dote in età medievale. Lasciando alle pagine successive le questioni direttamente o indirettamente attinenti alla congruità dotale sollevate dai giuristi del Basso e del Tardo Medioevo, un punto merita però di essere sottolineato fin d’ora: nelle ricerche sull’individuazione del nucleo immutabile dell’istituto dotale, sulla sua natura giuridica, sulla sua funzione in concreto e nei dibattiti sul dominium rei dotalis, sulla dos inaestimata o aestimata,

sull’alienabilità dei beni dotali da parte del marito71, i glossatori (o

meglio, alcuni tra essi), a fianco di una spiccata tendenza a piegare la disciplina della dote alle esigenze economiche e politiche delle famiglie comunali e dei mariti, rivelarono d’altra parte una cauta sensibilità per la posizione giuridica della moglie. Ciò facendo, è bene chiarirlo, tutelavano più che altro il patrimonio della famiglia di provenienza di quest’ultima, ma è cionondimeno un aspetto interessante per lo storico. In ogni caso, tracciando un quadro d’insieme, agli inizi dell’età moderna la linea favorevole al lato

70 Cfr. M. Bellomo, Profili della famiglia italiana nell’età dei Comuni, Giannotta,

Catania, 1975, pp. 150-151.

71 In merito a tali e a molte altre controversie della dottrina italiana bassomedievale in

materia di dote, un’approfondita ricostruzione è in M. Bellomo, Profili e id.,

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maschile del nucleo familiare aveva prevalso su quasi tutti i fronti e una siffatta eredità ebbe forti ripercussioni sociali ed economiche nei secoli a venire, come vedremo in alcuni casi della Rota fiorentina nella seconda metà del Settecento.

La controversia intorno al dominium rei dotalis è emblematica di quanto appena affermato. Sulle res aestimatae la soluzione era unanime: “de aestimatis [...] constat secundum omnes quod viri sunt de iure gentium et civili” scriveva Accursio72 non dando adito a dubbi.

Il dissenso nasceva semmai riguardo alla dos inaestimata, poiché Martino e i suoi seguaci sostenevano che il marito fosse dominus iure civili tantum delle res inaestimatae e che la moglie detenesse sulle stesse il dominium naturale; Bulgaro al contrario assegnava al marito sia il dominium civile sia quello naturale. A prevalere tra i giuristi del XIII secolo, dopo decenni di divisioni in giurisprudenza, fu l’opinione di Bulgaro, il che denotava la spiccata inclinazione sociale prima che giuridica a escludere ogni forma di partecipazione della donna alla direzione e alla gestione del patrimonio familiare. Già all’epoca di Bartolo da Sassoferrato la questione era considerata un capitolo chiuso: “[...] non est dubium”, rilevava laconicamente Bartolo73, “quod

constante matrimonio [dos] est in bonis viri”.

Nella dote, in definitiva, si riflettevano nitidamente gli equilibri consolidatisi all’interno della famiglia tardomedievale, sbilanciati dalla parte maschile più che da quella delle donne. In età moderna il quadro rimase pressappoco il medesimo.

2.2 Il ruolo sociale, giuridico ed economico della dote

nell’Ancien Régime

72 Accursio, gl. naturali iure ad C. 5, 12, 30, 1, l. in rebus.

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Conclusa questa breve parentesi storica sull’istituto dotale in Italia, ne è ora opportuna un’analisi approfondita limitata alla storia moderna e, in particolare, al XVIII secolo, di cui sopra si sono delineati i tratti principali in relazione alla famiglia e al matrimonio. Solo così infatti la nozione di congruità dotale e le problematiche che essa poneva potranno essere comprese.

“Nullum sine dote fiat coniugium” recitava una vecchia massima

canonica74. La sua veridicità si conservò anche tra Cinque e Settecento,

poiché per tutto il corso dell’età moderna la dote rimase il nucleo fondamentale dei rapporti patrimoniali tra coniugi. L’istituto dotale era infatti allo stesso tempo la concretizzazione di numerosi interessi economici (maschili naturalmente), il sigillo di alleanze familiari, una preziosa fonte di risorse e non di rado un fattore determinante nella scelta del partner, sia che comprendesse un materasso e qualche misero mobile per la casa sia che fosse di 500.000 scudi d’oro, come quella promessa da Filippo IV di Spagna per le nozze tra la figlia Maria Teresa e il re di Francia Luigi XIV (1660). Del resto, parafrasando le

parole del giurista tedesco Lynkerius75, in una società in cui per avere

“decoro e onore” occorrevano ricchezze ogni occasione di trasmissione di beni assumeva una veste cruciale.

Compagno inseparabile della dote era il corredo. Tra i beni portati dalla sposa, accanto ai “danari” compariva infatti spesso anche la “roba”, sebbene nelle doti più ricche i contanti fossero generalmente prevalenti. Ma cosa finiva nel corredo? Bisognerebbe distinguere tra ceti sociali e tra aree urbane e rurali, ma perlopiù capi d’abbigliamento, gioielli, biancheria, mobilio e alle volte perfino il letto. Per farsi un’idea un poco più precisa, può giovare l’elencazione di alcuni beni di un corredo registrato a Livorno nel 1780: “[...] Tre panche da letto d’albero ben pulite con suo saccone di tela ordinaria, quattro lenzuola di lino che due più fine e altre più grosse; undici camice cioè quattro

74 Sulla cui origine v. M. Bellomo, Ricerche, p. 66.

75 Lynkerius, Disputatio De vinculo familiae, Jena, 1691: “Bona enim et divitiae

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di tela fine con manichini smerlati e sette di lino guarnite come sopra; diciotto tovaglioli che sei ordinari e dodici fini usati, due tovaglie alla gremigliola [...]”76.

Ad ogni modo, se dotare e come dotare erano decisioni che anzitutto spettavano al padre, come sottolineava, tra gli altri, il cardinal De Luca77, ma, in sua assenza, l’onere passava a madri, fratelli, zii o tutori.

Quello di ricevere una dote era un vero e proprio diritto per la figlia, cui corrispondeva l’obbligo rigoroso del pater o di chi per lui. “Mettere insieme dote e corredo per il matrimonio”, è stato

correttamente osservato78, “erano eventi economici dominanti per la

giovinezza di una fanciulla”, al punto che a Firenze nel 1425 fu fondato il Monte delle Doti, il quale, contro il pagamento annuale di una somma fissa o l’accumulazione di proventi di un dato patrimonio, assicurava alle famiglie la possibilità di costituire una dote godendo della maturazione degli interessi prodottisi negli anni con il deposito. Il fenomeno va inquadrato in una più generale monetarizzazione delle

doti, a sua volta radice della loro commercializzazione79. Di frequente

accadeva tuttavia che, se la giovane era in miseria o comunque se i talora immensi sforzi profusi dall’intera famiglia nel raccogliere un patrimonio sufficiente a costituire una dote non fossero bastati,

accorrevano in aiuto istituzioni pie e confraternite80. Quanto la pratica

fosse comune a Firenze lo evinciamo dalle parole di Pietro Leopoldo scritte nel lasciare il Granducato di Toscana nel 1790 per ricoprire la carica di imperatore a Vienna: “Il popolo fiorentino”, sottolineava

76 C. La Rocca, Tra moglie e marito, p. 91.

77 G. B. De Luca, Il dottor volgare, Roma, 1673, lib. VI, cap. III, n. 1 (p. 27): “In

primo luogo la legge obliga sopra tutti il padre à dotare le figlie femine legitime, e naturali, in maniera, che quando vi sia il padre, non entra obligo alcuno della madre, né degli altri ascendenti, nemeno quello dè fratelli, ò di altri parenti”.

78 T. Kuehn, Figlie, madri, mogli e vedove. Donne come persone giuridiche in S.

Seidel Menchi, A. Jacobson Schutte e T. Kuehn (a cura di), Tempi e spazi di vita

femminile tra medievo ed età moderna, il Mulino, Bologna, 1999.

79 Su cui ci si sofferma in G. Delille, Strategie di alleanza e demografia del

matrimonio in M. De Giorgio e C. Klapisch-Zuber (a cura di), Storia del matrimonio,

Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 289 ss.

80 Su cui, per il caso fiorentino, v. M. Fubini Leuzzi, Condurre a onore. Famiglia,

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l’Asburgo-Lorena pieno di disprezzo, “è ozioso e preferisce procurarsi il denaro con gli inganni; pensa poco alla famiglia, preferisce ricorrere a sussidi e a doti, rimedi temporanei, piuttosto che guadagnarsi il sostentamento della famiglia colla fatica, col lavoro e coll’industria”81. E aggiungeva sulle confraternite di carità che

“solamente in Firenze erano in numero di 264”82 e che da esse

venivano la maggioranza delle doti, ottenute senza sforzo da una pigra plebe.

Gli accordi in materia di dote, che di solito erano conclusi dal padre della futura sposa e dal futuro sposo, potevano anche essere redatti per iscritto. Tra i ceti elevati, vista l’entità delle transazioni economiche e degli interessi in gioco, era necessario rivolgersi anche a un notaio, mentre nelle fasce più povere della popolazione si ricorreva non di rado all’ausilio del prete locale, o perché non si sapeva scrivere o perché ci si serviva di lui come testimone affidandogli anche la

redazione del testo. In generale nelle scritte83, redatte e firmate da chi

gestiva lo scambio di beni, il padre prometteva di dare in moglie la figlia allo sposo, che si impegnava ad accettarla, e poi erano stabilite la modalità di consegna e l’entità della dote, ricevuta dallo sposo, nel caso fiorentino, “dopo la dazione dell’anello e la consumazione del matrimonio, secondo l’uso affermatosi nel corso del Quattrocento in seguito all’istituzione del Monte delle doti, che elargiva al marito la somma maturata per la dote solo dopo che il matrimonio era stato consumato e la gabella pagata”84. Gli accordi scritti contenevano

anche l’ammontare dell’apporto maritale, ossia la donatio propter nuptias, in genere ben inferiore rispetto alla dote secondo la

81 Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena, Relazioni sul governo della Toscana (a cura di

A. Salvestrini), Olschki, Firenze, 1969, I, p. 28.

82 ivi, I, p. 176.

83 La diffusione della pratica del contratto matrimoniale nel XVIII secolo è stata

studiata con riferimento all’area tedesca in G. Barth-Scalmani, Contratti

matrimoniali nel XVIII secolo: un’analisi tra la storia del diritto e quella di ‘genere’

in S. Seidel Menchi, A. Jacobson Schutte e T. Kuehn (a cura di), Tempi e spazi di vita

femminile tra medioevo ed età moderna, il Mulino, Bologna, 1999.

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consuetudine ampiamente affermata a partire dal XIII secolo nell’Italia dei Comuni85.

Riguardo alle modalità di consegna, il caso livornese studiato da Chiara La Rocca rivela quanto diffusa fosse la pratica di frazionare la dote in due parti: una prima metà era consegnata al momento degli sponsali, mentre la seconda al momento del matrimonio de praesenti o, in alternativa, la cessione della prima parte avveniva durante il matrimonio de praesenti e la seconda nelle settimane o nei mesi

successivi, spesso in forma rateizzata86. La logica del sistema poneva

perciò la donna al centro del conflitto tra famiglia d’origine, che tendeva a dilazionare il più possibile i pagamenti, e marito, incline piuttosto ad affrettarli.

I beni dotali passavano sotto l’amministrazione maritale, ma, almeno giuridicamente, non in sua proprietà e dunque rimanevano separati dalle sue sostanze. E infatti, poiché per causa di morte o di scioglimento del matrimonio il patrimonio dotale andava restituito al

lignaggio d’origine della sposa87, la dote era garantita da un’ipoteca sui

beni maritali. Sul punto erano già chiarissimi gli statuti fiorentini del 1415, che sottoponevano a ipoteca l’intera proprietà del marito in vista di un’eventuale restituzione della dote: “Omnibus, et singulis obligatis, et in futurum obligandis principaliter, vel accessorie ad restitutionem alicuius dotis, augumenti dotis, vel donationis propter nuptias pro

aliquo, vel simul cum

aliquo marito praesenti, vel futuro bona omnia praesentia, et futura ipsius mariti pro ipsa dote data, vel confessata, augumento dotis, vel donationis propter nuptias, absque aliquo alio actu, vel facto a tempore obligationis, vel fideiussionis, vel confessionis

do-85 Cfr. M. Bellomo, Ricerche, pp. 15 ss.

86 C. La Rocca, Tra moglie e marito, pp. 98-103.

87 E non direttamente alla sposa stessa, che anzi poteva essere rimessa sul mercato

delle alleanze matrimoniali. Sfuggivano a tale meccanismo soltanto le vedove anziane prive del padre e dei fratelli.

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