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Il divieto di diminuzione della dote e i criteri generali di congruità dotale secondo la Rotagenerali di congruità dotale secondo la Rota

Alcune decisiones della Rota fiorentina sulla congruità dotale (1742-1784)

1. Il divieto di diminuzione della dote e i criteri generali di congruità dotale secondo la Rotagenerali di congruità dotale secondo la Rota

fiorentina

Il milanese Giuseppe Gorani, pubblicista, avventuriero e illuminista amico dei philosophes francesi (tra cui Voltaire) e italiani, ebbe

senz’altro una vita movimentata169. Nei suoi viaggi toccò la Corsica

(per servire Pasquale Paoli), la Grecia, Costantinopoli, la Spagna, il Portogallo, l’Austria, la Francia, non tralasciando mai di mettere per iscritto i propri pensieri e i frutti dei propri studi economici, filosofici e politici. Tra il 1779-1780 e poi dal 1786 al 1788 ebbe modo di intraprendere lunghi viaggi anche in Italia, giungendo fino a Napoli.

Come quasi due secoli prima aveva fatto l’inglese Robert Dallington170,

lasciò un’efficace descrizione del Granducato di Toscana rimasta poi in parte inedita171. A proposito dell’ordinamento giudiziario toscano

notava come, per le cause civili, “il tribunale col quale si esercita la giustizia ha sede in un palazzo proprio, e dispone di ventun giudici, tre auditori, un cancelliere, un vicecancelliere, due coadiutori e sette tra segretari, scrivani ed uscieri”. La materia penale, aggiungeva poi il

169 Della quale un’ottima sintesi è in F. Cusani, Il conte Giuseppe Gorani, cenni

biografici in Archivio storico lombardo, vol. V, 1878, pp. 615-635.

170 Descrizione dello Stato del Granduca di Toscana. Nell’anno di Nostro Signore

1596 (a cura di L. Rombai e di N. Francovich Onesti), All’insegna del Giglio, Sesto

Fiorentino, 1983.

171 Il manoscritto dei Tableaux philosophiques, historiques et critiques des moeurs et

des gouvernments des peuples de l’Italie, conservato nella Biblioteca Palatina di

Vienna, non fu infatti pubblicato, a differenza delle Mémoires secret set critiques des

cours, des gouvernments et des moeurs des principaux états de l’Italie (1793),

Gorani, procurava senz’altro meno incomodi rispetto al settore civile, giacché “la popolazione è mite e, per sua natura, non è portata al crimine”172.

In ambito civilistico l’organo giurisdizionale più autorevole nel Granducato di Toscana era la Rota fiorentina, nata a Firenze nel 1502173, lo stesso anno del conferimento a Pier Soderini del

gonfalonierato a vita. Alessandro de’ Medici e successivamente Cosimo de’ Medici, secondo duca di Firenze e poi primo Granduca di Toscana, conservarono il tribunale ereditato dall’epoca repubblicana pur riformandolo a più riprese: fu così che la Rota divenne un punto

fermo dello “Stato che non c’è”174. Ora, varie raccolte settecentesche e

172 G. Gorani, L’Italia nel XVIII secolo (a cura di Giuseppe Caciagli), Arnera

Edizioni, Pontedera, 1997, VII, vol. I, pp. 134-136.

173 Preceduta dall’istituzione del Consiglio di Giustizia del 1494, la Rota fiorentina

del 1502 ebbe fin dal principio l’obbligo di motivare le proprie sentenze. Le decisioni venivano conservate in appositi volumi detti Libri motivorum, spesso richiamati nella pratica quotidiana del foro. Più tardi si iniziò a stamparle in “volanti” e nel XVIII secolo si passò a raccoglierle in volumi appositi secondo l’ordine cronologico. Al riguardo, cfr. M. Ascheri, Tribunali giuristi e istituzioni dal medioevo all’età

moderna, il Mulino, Bologna, 1994, pp. 116-117. Tornando alla vicenda storica della

Rota fiorentina, occorre richiamare brevemente alcune delle riforme che la riguardarono nel corso dell’età moderna: la prima consistente fu quella del 1532. Tra le novità vi era la redistribuzione delle competenze tra i sei giudici: quattro, uno per quartiere, si occupavano delle cause di prima istanza; gli altri due avevano giurisdizione in solido sulle cause di primo appello per le sentenze emesse dal tribunale di Mercanzia e, individualmente, sulle cause di prima istanza di due quartieri cittadini ciascuno. Il secondo appello spettava a tre dei giudici di prima istanza, dai quali rimaneva escluso quello che aveva emesso la sentenza di primo grado. Nella giurisdizione di ciascun quartiere rientravano anche le porzioni di contado e distretto pertinenti sulla base della divisione amministrativa del territorio

soggetto a Firenze.

Dopo questa ridefinizione generale, la Rota fu più volte riformata fino all'ultima modifica apportata al tribunale durante il principato mediceo, risalente al 1717. La dinastia lorenese, una volta acquisito il Granducato di Toscana, si fece promotrice di un rinnovamento profondo delle strutture amministrative, politiche e giudiziarie. Pietro Leopoldo in particolare attuò una serie di riforme giudiziarie che portarono nel 1771 ad una radicale ridefinizione di organizzazione e competenze della Rota fiorentina, che pure mantenne il ruolo di tribunale di primo, secondo e terzo grado. Le riforme continuarono negli anni successivi e mirarono in genere a ridurre la giurisdizione della Rota, che infine fu abolita durante l'occupazione francese, nel 1808. Sulle origini e sugli sviluppi della Rota fiorentina, cfr., tra gli altri, A. Anzilotti,

La costituzione interna dello Stato Fiorentino sotto il duca Cosimo I de' Medici,

Francesco Lumachi, Firenze, 1910, e M. Ascheri, I grandi tribunali in P. Cappellini, P. Costa, M. Fioravanti e B. Sordi (a cura di), Diritto - Il contributo italiano alla

storia del Pensiero, Enciclopedia Italiana, 2012.

174 Così è definito il Granducato di Toscana in L. Mannori, Il sovrano tutore.

Pluralismo istituzionale e accentramento amministrativo nel principato dei Medici (secc. XVI-XVIII), Giuffrè, Milano, 1994, p. 17.

ottocentesche di decisiones rotali, come quelle dell’Ombrosi, del Vernaccini o dell’Artimini e del Marzucchi costituiscono fonti di inestimabile valore per chi si accinga allo studio del Granducato toscano d’Ancien Régime. Fonti alle quali, tuttavia, gli storici dell’età moderna e gli storici del diritto non hanno ancora riconosciuto la dovuta dignità, nonostante i casi rotali registrati forniscano a chi sa interpretarli inestimabili conoscenze circa l’economia, la società, il

diritto e perfino la mentalità175 della Toscana dei secoli XVI-XVIII.

Quest’ultima considerazione, valida in generale, assume un particolare significato con riferimento alla congruità dotale, poiché fu solamente grazie all’operato della giurisprudenza e alla pratica quotidiana del foro che essa poté acquisire un’identità e una funzione chiare. Al momento del conflitto tra privati intorno all’ammontare congruo di una dote, la flessibilità dello ius commune, talora stigmatizzata come causa ultima del caos giuridico dell’Ancien Régime, diveniva virtù. Lo si capirà pienamente passando in rassegna le decisiones tra il 1742 e il 1784 che toccarono i principali aspetti della congruità: il divieto di diminuzione dell’ammontare dotale, i criteri di quantificazione di una dote congrua, i rapporti tra la congruitas dotale e la legittima spettante alla femmina e, infine, i profili processuali, in particolare la richiesta del supplemento dotale. In quanto meritevole di una trattazione autonoma, sarà infine preso in esame un interessante caso del 1762 in cui furono coinvolti i Placidi, nobile famiglia senese.

Sul divieto di diminuzione della dote, legato alla congruità della stessa e ben radicato nel pensiero giuridico, è certamente da prendere in considerazione un caso del 1742176. Come spesso accadeva, la

controversia risaliva assai indietro nel tempo: al 1682 per la precisione, quando Francesco Luzzi, di Borgo San Sepolcro, concesse in

175 Per un’analisi della definizione e delle prospettive della storia delle mentalità, v. J.

Le Goff, Mentalità: una storia ambigua in J. Le Goff e P. Nora (a cura di), Fare

storia. Temi e metodi della nuova storiografia, Einaudi, Torino, 1981, pp. 239-258.

176 B. Artimini e C. Marzucchi, Raccolta delle decisioni della Ruota fiorentina dal

MDCC al MDCCCVIII, Marchini, Firenze, 1836-1866, serie I, tomo X (1739-1744),

matrimonio sua figlia Margherita a un certo Matteo Galli. La dote promessa ammontava a “piastre tremila”, una discreta cifra dalla quale si evince l’agiatezza della famiglia dotante. I Luzzi erano in effetti un’antica e nobile stirpe del Borgo, al punto che, tanto per citare un esempio, un altro figlio di Francesco, Antonio Giuseppe, più volte menzionato nell’opera dell’abate Pietro Farulli177, fu priore della

confraternita di San Bartolomeo (assai importante in città), cavaliere di

Santo Stefano178 e, nel 1690, nel 1710 e nel 1712, Gonfaloniere di

Borgo San Sepolcro. Eppure, di certo per tutelare l’onorabilità e il prestigio familiari, Francesco Luzzi ricorse allo strumento della cosiddetta “dote simulata”, ossia promise “per istrumento rogato Ser Pietro Paolo Bindassini”179 e datato 12 aprile le già citate 3000 piastre,

ma, come risultò da “un chirografo di recognizione di buona fede”, costituì in realtà un dote di sole 2000 piastre. Alla restituzione di tale ultima cifra erano dunque tenuti i Galli in caso di scioglimento di matrimonio per qualsivoglia causa. Quella di simulare in pubblico la dazione di un’elevata quantità di beni dotali era una prassi diffusa durante l’Ancien Régime, soprattutto tra chi aveva un buon nome da difendere, e cioè gli aristocratici. “Gl’interessi del padre e dello sposo”, sostiene Bellomo descrivendo le doti simulate, “convergevano, perché l’uno si privava di una minor quantità di beni, e l’altro era pago che agli occhi della comunità la moglie apparisse dotata molto convenientemente”180. Era calzante anche la definizione del De Luca:

177 Cfr. P. Farulli, Annali e memorie dell’Antica e Nobile Città di S. Sepolcro, Nicolò

Campicelli, Foligno, 1713, pp. 80, 135, 136.

178 Per farsi un’idea di cosa ciò implicasse, occorre ricordare che l’Ordine di Santo

Stefano, istituito da Cosimo de’ Medici con l’autorizzazione di papa Pio IV nel 1561, era accessibile soltanto a coloro che potevano dimostrare quattro quarti di nobiltà. L’allora duca di Firenze aveva infatti concepito l’Ordine anche come efficace strumento per legare a sé le oligarchie toscane superando ogni prospettiva cittadinesca o particolaristica. Sull’argomento, cfr. F. Angiolini, I cavalieri e il

principe. L’Ordine di Santo Stefano e la Società toscana in Età Moderna, EDIFIR,

Firenze, 1996, pp. 21-22.

179 B. Artimini e C. Marzucchi, Raccolta delle decisioni, dec. DCCCCLVI, serie I,

tomo X (1739-1744), p. 640.

180 M. Bellomo, La condizione giuridica della donna. Vicende antiche e moderne, Il

“L’uso delle doti simolate, overamente à pompa, è molto frequente, non già sopra tutta la dote, mà in qualche parte, per mantenere in tal maniera il decoro, ò per dir meglio la vanità, et il fumo che oggidì pare che sia il maggior pabolo del genere umano, dal quale il fumo vien stimato più che l’arrosto”181.

Ad ogni modo, il matrimonio di Margherita con Matteo Galli non durò, perché il marito perì dopo soli due anni. Nel 1687 quindi la Luzzi convolò di nuovo a nozze con Giuliano Guelfi e stavolta, sebbene ancora non fossero stati recuperati i beni dotali dagli eredi del defunto marito, il padre le assegnò in dote 2500 scudi “di moneta romana in stabili di suolo” insieme a 1000 scudi a titolo di patrimonio extradotale, da restituirsi però allo stesso Francesco Luzzi nell’ipotesi di scioglimento del matrimonio. Sui successivi sviluppi il testo della decisio non spese più di tante parole, limitandosi a notare come “insorsero successivamente più, e varie differenze, sopra i pagamenti di questa seconda dote, e si agitarono frà le parti diversi Giudizi in più Tribunali”182. Il pomo della discordia era in particolare quel “patto

reversivo” con cui il Luzzi si riservò una pretesa sui 1000 scudi

extradotali. Nel 1721 il Magistrato Supremo183 emanò una sentenza con

cui affermò che la famiglia Luzzi godeva del diritto alla restituzione della somma risultante dalla differenza tra l’ammontare della dote del secondo matrimonio e quella del primo, qui intesa però come 3000 piastre (e non le reali 2000!). Secondo la sintesi della Rota, la sentenza del 1721 stabiliva “che il patto reversivo vaglia, e si attenda per quella rata, che eccede la prima costituzione della dote”184.

181 G. B. De Luca, Il dottor volgare, lib. VI, cap. XIV, n. 1 (p. 145).

182 B. Artimini e C. Marzucchi, Raccolta delle decisioni., serie I, tomo X (1739-

1744), dec. DCCCCLVI, p. 641.

183 Il Magistrato Supremo, istituito con le Ordinazioni del 1532, era un vero e proprio

tribunale del principe, con una giurisdizione generale e potenzialmente estesa a tutte le cause. Ne facevano parte quattro consiglieri e, in sostituzione del principe, un suo luogotenente, che presiedeva l’organo.

184 B. Artimini e C. Marzucchi, Raccolta delle decisioni, serie I, tomo X (1739-1744),

La famiglia Luzzi, tuttavia, non si diede per vinta e Pietro, nipote di Francesco in quanto figlio del citato Antonio Giuseppe e cavaliere di Santo Stefano anche lui, insistette pervicacemente nella richiesta agli eredi di Giuliano Guelfi, ormai deceduto, di restituire in integrum i 1000 scudi. Portato all’attenzione dei giudici rotali, la decisione del Magistrato Supremo fu infine ribaltata nel 1742. A detta del Bizzarrini, relatore della sentenza, uno soltanto era il nodo cruciale: “Tutta la questione si riduceva a vedere se la dote della Signora Margherita Luzzi, allorché passò in seconde nozze col Sig. Giuliano Guelfi fosse, o nò statale diminuita dal Signor Francesco di lei padre, poiché se costasse di tal diminuzione, non averebbe potuto il Sig. Francesco Luzzi validamente stipulare, ed apporre a suo favore il patto reversivo sopra la somma di Scudi 1000 assegnati per di più alla prima dote, e come meri estradotali, e doverebbero gli detti Scudi 1000 considerarsi come parte della prima dote liberamente promessa, e perciò non soggetti ad alcun vincolo, o patto di doversi in certi casi restituire”185.

Detto altrimenti, prima di dar ragione ad uno dei litiganti occorreva chiarire in primo luogo se Francesco Luzzi avesse o meno diminuito la dote di Margherita in occasione del secondo matrimonio: se così era avvenuto, il Luzzi non avrebbe potuto apporre un patto reversivo sulla somma di 1000 scudi elargita a titolo extradotale, stante il divieto di diminuzione della congrua dote.

Quest’ultimo era dunque il perno su cui poggiavano le argomentazioni del giudice rotale. E infatti, precisava il Bizzarrini, “[...] dopo costituita la dote in una certa somma, e liberamente alla donna, non puole questa restare pregiudicata né meno dal padre, o col diminuirsi la somma già stabilita, o coll’apporvi patti, e condizioni, che rendano deteriore la di lei qualità”. In armonia con la communis opinio, la Rota rivelava peraltro una certa sensibilità per la tutela delle ragioni giuridiche ed economiche femminili, estendendo la portata del precetto anche alle seconde nozze: “[il divieto di diminuzione e di

deterioramento della dote] procede non solamente durante il primo matrimonio, ma ancora quando la figliuola passa al secondo letto, mentre in tal caso eziandio la dote non può ridursi a somma minore, né aggravarsi di nuovi pesi, che nella prima non fossero”186.

A quale conclusioni giunse la Rota fiorentina? Discostandosi da quanto riportato nella precedente statuizione del Magistrato Supremo (evidentemente indotto in errore dalla simulazione del 1682), il giudice rotale non ravvide affatto una diminuzione nell’entità della seconda dote rispetto alla prima: invero quest’ultima, come risultava da varie testimonianze e dagli incartamenti processuali, non ammontava in realtà a 3000 piastre, ma a 2000, il che la rendeva inferiore, e non superiore ai 2500 scudi romani promessi in occasione del successivo matrimonio con Giuliano Guelfi. Ne era una prova eloquente un documento di Francesco Luzzi redatto di suo pugno il 12 settembre 1682, all’epoca dello sposalizio tra Margherita e Matteo Galli: “[...] dichiaro con la presente esser solo la dote di detta mia figlia Scudi 2100 di Paoli 10 compreso gli Scudi 100 di panni e mobili, e tanto in caso di restituzione, [i Galli] devono restituire le duemila piastre in contanti, e non le tremila, perché non hanno ricevuto se non duemila”187. Tutto ciò considerato, l’esito della pluridecennale

controversia non poté che essere favorevole alla famiglia Luzzi: essendo chiaro oltre ogni dubbio che non vi era stata col secondo matrimonio un’illecita deminutio del patrimonio dotale (ma semmai un aumento), il patto reversivo sui 1000 scudi extradotali fu riconosciuto pienamente valido con la conseguente ineccepibilità sul piano giuridico delle pretese dei Luzzi.

Si è appena visto come nella specificità del caso concreto una regola in apparenza semplice come il divieto di diminuzione dotale fosse in

186 Ivi, pp. 641-642. 187 Ivi, p. 643.

realtà suscettibile di applicazioni inaspettate. Lo stesso, come insegnava il De Luca, valeva per i criteri generali di congruità della dote, delineati con dovizia di particolari da una costante e uniforme dottrina e tuttavia sterili e privi di contenuto sostanziale se non adattati alla pratica sociale per mezzo dell’attività giurisprudenziale. Dignità del dotante e del marito, numero di figlie, consuetudine della famiglia e del luogo: i più comuni parametri di commisurazione della congrua dote ricorrevano come imprescindibili punti di riferimento teorici nelle decisiones della Rota fiorentina. E tuttavia, di fronte alla concretezza del processo, le declinazioni degli astratti criteri di congruità erano molteplici, variegate, talora ingegnose e in ogni caso profondamente condizionate dalla sensibilità dei giudici rotali e da circostanze contingenti.

In proposito un primo caso interessante risale al 1744 e riguarda una

famiglia fiorentina, i Tacci188. Nel 1698 Girolamo Tacci, già vedovo

della moglie Maria Giulia Serrati, compì il suo “passaggio da questa all’altra vita”. Le due figlie ancora “pupille” passarono sotto la tutela del fratello di Girolamo, il prete Michelangelo Tacci ed ebbero destini divergenti: una, Anna Maria, finì nel monastero delle monache di San Benedetto, detto “le Santucce di Castiglion Fiorentino” (1703), l’altra, Maria Orsola, andò in sposa ad un nobile, il “luogotenente” Alessandro Fazzuoli (1707). La dote promessa per il matrimonio, procurata dal cugino di Maria Orsola, Anton Giuseppe, “possessore dell’Eredità di detto Signor Girolamo Tacci per esser già morto il detto Prete Michelangelo Tacci”189, raggiungeva i 1100 scudi, pagati interamente

in terre. Era una dote congrua? Rispose affermativamente l’auditore Franceschini, “per diverse circostanze insieme unite”. Anzitutto la congruità e la non eccessività dotali erano presunte fino a prova contraria, come già una precedente decisio rotale qui richiamata aveva statuito: “[...] de hac excessivitate [dotis], quae regulariter non

188 B. Artimini e C. Marzucchi, Raccolta delle decisioni, serie I, tomo X (1739-1744),

dec. DCCCCLXXXII, Castilionen. Seu Florentina Dotis, pp. 1236 e ss.

praesumitur, sed ab allegante est plene et concludenter probanda”190.

Inoltre i criteri fondamentali di congruità parevano essere stati osservati pienamente: quello della consuetudine familiare, poiché “una simil Dote di Scudi mille fu assegnata alla Signora Maria Giulia Serrati sua Madre”; quello della dignità maritale, giacché l’apporto dotale era consono al prestigio di “Casa Fazzuoli non meno ricca di Beni che adorna di sublime civiltà e cultura, e aggregata alla nobiltà di Cortona”; quello delle facoltà del dotante, visto che il patrimonio attivo di Girolamo Tacci “montava allora alla somma di Scudi 3000 in circa”. E se la dote di Maria Orsola costò addirittura un terzo delle

sostanze lasciate dal padre191 fu perché “la Signora Maria Orsola era

in tal tempo della sua dotazione rimasta unica figlia”192. Ma il

Franceschini, probabilmente non così certo dell’effettiva consistenza

del patrimonio del Tacci193, sentì la necessità di aggiungere che, se

anche esso fosse stato inferiore a 3000 scudi, “era non ostante non eccessiva la detta dote” poiché essendo i beni in questione “patrimonio fidecommisso” potevano e, se necessario, dovevano essere spesi finanche interamente per la costituzione della congrua dote “dell’unica figlia del gravato, quando il fidecommisso dovesse passare nel Cugino, o altro simile Colonnello collaterale”194. Una regola,

questa, consolidata da tempo nello ius commune ed espressa, tra gli altri, dal cardinal De Luca: “[...] ut pro constituenda, vel restituenda dote, totum fideicommissum valeat interverti, si totum ad congruam est necessarium”195. Il resto della decisio si concentrò sul fulcro della

vicenda giudiziaria della famiglia Tacci, ossia sulle differenti

190 I. De Comitibus, Decisiones inclitae rotae senensis et florentinae, Stamperia

Bonducciana, Firenze, 1776, tomo I, dec. LV, p. 818.

191 È questo un esempio calzante di quanto per una famiglia italiana dell’età moderna

potesse essere dispendioso costituire una dote per la figlia.

192 B. Artimini e C. Marzucchi, Raccolta delle decisioni, serie I, tomo X (1739-1744),

dec. DCCCCLXXXII, p. 1239.

193 Seppur “appoggiate sopra fatti non provati”, erano infatti emerse nel corso del

processo alcune controverse passività, di cui però i giudici rotali non si curarono nel quantificare la ricchezza di Girolamo Tacci (3000 scudi circa).

194 B. Artimini e C. Marzucchi, Raccolta delle decisioni, serie I, tomo X (1739-1744),

dec. DCCCCLXXXII, pp. 1239-1240.

conseguenze prodotte dall’utilizzo di beni materni o paterni al fine di dotare la figlia. La delicata vertenza, tuttavia, non ebbe più attinenza con la congruità dotale.

Non meno interessante fu il caso dei Rosini196 (1774). In sintesi,

Francesco Rosini aveva impugnato in quanto incongrua la costituzione delle doti di due sue zie, Caterina e Francesca Rosini, del valore di 60 scudi ciascuna. È opportuno sottolineare che la chiave per la risoluzione della lite risiedeva nella verifica del rispetto dei criteri di congruità da parte del dotante, ossia Francesco Rosini “seniore”. Ora, era chiaro che l’onere di provare che le doti costituite dall’avo fossero state eccessive e perciò incongrue ricadeva sul giovane Francesco. Cionondimeno le sue argomentazioni non convinsero i giudici rotali, i quali ragionarono pressappoco nel modo seguente: in primo luogo,