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70 2.1 Cenni storici sulla frutticoltura trentina

Nel documento 1 Informazioni legali (pagine 72-75)

Gastone Dallago, Nicola Sandri, Paolo Odorizzi

La storia della frutticoltura trentina, a causa della conformazione orografica, delle diversità climatiche, delle vicende storiche, non presenta tratti omogenei e quindi non può essere trattata in generale. Il territorio della provincia di Trento è caratterizzato dalla netta divisione centrale sull’asse nord-sud che la valle del fiume Adige, altimetricamente contenuta entro i duecento metri sul mare, opera fra le vallate alpine solcate da fiumi e torrenti affluenti dell’Adige disposte a pettine a oriente e a occidente rispetto a questa. Ai fini di questa trattazione sulla frutta assumono importanza solamente le Valli del Noce (Non e Sole), la Valsugana, le Valli del Sarca e la Valle dell’Adige, mentre le altre vallate sono trascurabili sotto questo profilo, eccetto per coltivazioni particolari quali l’olivo e le prugne nella zona del Garda, le noci e le castagne in alcune zone delle Giudicarie.

Si tratta comunque di coltivazioni che non hanno mai raggiunto il livello di colture da reddito se non in maniera marginale. La redditività delle colture, con i conseguenti rinnovi varietali dettati da esigenza di mercato, e i miglioramenti delle pratiche agronomiche è la causa dell’abbandono di alcune vecchie varietà, ma contemporaneamente ha evitato l’abbandono delle campagne come avvenuto in altre zone. L’unica coltivazione comune a tutto il territorio è stata ed è ancora la vite, pur con le limitazioni imposte dalla situazione orografica e climatica. Fino al 1900 la vite era coltivata fino a 850 metri di altitudine, mentre oggi si coltiva solo al di sotto dei 700 metri.

Il territorio agricolo, fin dai tempi più antichi, è stato occupato da cereali e rape (fino al 1700), quindi da mais e patate con un’ importante produzione di grano saraceno (a partire dal 1500), da prati foraggeri e da seminativi. La vite è stata coltivata quasi sempre associata ai seminativi e al gelso che, nell’ambito della filiera della seta, è stato di assoluto rilievo economico. Tale coltura è stata esercitata dalla metà del ‘500 fino al 1930 e quasi sempre consociata alla vite con quota altimetrica massima di 850 metri. Dall’ultimo quarto dell’Ottocento, in proporzione inversa al declino della vite e del gelso, a causa di concomitanti problemi commerciali e avversità parassitarie e fitosanitarie, assunse sempre maggiore importanza la coltivazione del pero e del melo. Fra il 1950 e il 1980 il pero venne abbandonato giungendo alla monocoltura melicola nelle Valli del Noce. La vite permane, come coltivazione intensiva, nella Valle dell’Adige, in Valle di Cembra, nella Valle del Sarca e in zone limitate della Valsugana.

Anche se la presenza di alberi fruttiferi è certamente antichissima, solamente a partire dalla seconda metà dell’Ottocento iniziò quel processo di specializzazione che è tuttora in corso. Il pero e il noce erano probabilmente presenti già in epoca preistorica, la vite e il castagno paiono essere giunti con gli Etruschi, la mela, il ciliegio e il pesco con i Romani. Le più antiche informazioni iconografiche, pervenute a partire dal sec. XIII, ci mostrano viti, peri e meli; analogamente nei documenti alto-medioevali sono citati pero, melo, vite e noce. La sopravvivenza di queste specie è stata garantita nel corso dei secoli grazie alla loro longevità, mentre altre, come il cotogno, l’albicocco e il pesco, furono reintrodotte nel Quattrocento. In particolare il pesco era coltivato come capofila dei

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filari di vite, ma oggi non v’è più traccia di questa usanza. Le prime

informazioni varietali sulla vite sono del XV sec.; infatti si citava la presenza di un Burgheserwein (Borgogna?) in Valsugana. L’affermazione della coltura delle pomacee inizia dall’ultimo quarto dell’Ottocento ed è legata a fattori concomitanti. L’Istituto Agrario di San Michele all’Adige (1874) e il Consiglio Provinciale d’Agricoltura (1882), con la ramificazione dei Consorzi Agrari Distrettuali e i docenti delle cattedre ambulanti, iniziarono una vasta azione d’informazione e di promozione tra i piccoli proprietari, che portò ben presto a diffondere colture più razionali e redditizie in molte vallate del Trentino.

L’Istituto Agrario di San Michele all’Adige possedeva una propria stazione sperimentale e un vivaio per la produzione di marze con ben 150 varietà di melo distinte tra varietà da tavola e da cuocere e mele da sidro francesi a maturazione tarda; il fine di tali sperimentazioni era la diffusione di queste varietà tra i frutticoltori della parte italiana della Provincia. Nel 1886 le mele trentine vennero esposte alla Mostra Pomologica di Bolzano e nel 1888 ebbero grande successo alla Grande Esposizione Frutticola a Vienna. I successi si tradussero in un maggiore introito e questo fu il più potente e persuasivo incentivo a mettere a dimora nuovi impianti e a migliorare le tecniche di coltivazione. Il rinnovo era una pratica rischiosa, ma ha dato un contributo notevole all’evoluzione della frutticoltura. Pochi anni dopo, nel 1895, il Trentino produceva già 100 tonnellate di frutta, tanto da far nascere la prima cooperativa d’esportazione. Fondamentali furono la realizzazione della moderna rete viaria, sia ferroviaria sia stradale, e la presenza degli acquedotti irrigui costruiti a partire già dai primi del ‘700 i quali, benché realizzati prevalentemente per il foraggio, furono indispensabili per lo sviluppo della frutticoltura. Dall’altro lato si ebbe il declino della coltivazione del gelso per la crisi commerciale della seta, causata dall’invasione dei prodotti esteri e dalle malattie; contemporaneamente si ebbe il declino della viticoltura provocata dalle distruzioni apportate nei vigneti dalla comparsa dell’oidio e della fillossera. Le piante da frutto, fino alla fine dell’Ottocento, erano quasi esclusivamente confinate entro i brolii, giardini-frutteto cintati da alti muri a ridosso delle abitazioni più signorili. I primi frutteti estensivi di melo e pero furono messi a dimora nella seconda metà dell’Ottocento nelle zone oltre il limite della coltura della vite e del gelso, e sono quelli i cui alberi superstiti costituiscono oggi i “patriarchi da frutto”.

La coltivazione estensiva degli alberi da frutto permetteva la coltivazione del foraggio. Il soggetto su cui le cultivar erano innestate era il “franco”, sia per le mele che per le pere; il sesto di impianto consentiva la messa a dimora da ottanta a cento piante per ettaro, quindi le distanze fra le piante erano di circa 10 metri. Fino al 1970 questa era l’unica tipologia di coltivazione e permetteva a ogni contadino di allevare anche capi bovini. Successivamente, con l’adozione di portinnesti clonali per il melo (il pero era stato nel frattempo abbandonato), si passava alla coltura intensiva con la dominante monovarietà Golden Delicious, all’utilizzo di anticrittogamici, concimi di sintesi, diserbanti, con conseguente abbandono dell’allevamento di qualsiasi bestiame.

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Melo

Nei primi meleti specializzati i sesti di impianto risultavano comunque molto larghi permettendo lo sfalcio (o la coltivazione promiscua) dell’interfila per il foraggio destinato alle produzioni zootecniche. Gli astoni piantati erano nella totalità “franchi di piede”. La forma di allevamento più diffusa era il vaso trentino, lo sviluppo della pianta era notevole e la gestione difficoltosa. Fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale la frutticoltura non è progredita, né dal punto di vista agronomico né dal punto di vista fitoiatrico. A partire dagli anni ’60 del ‘900 nascono i primi impianti irrigui che hanno dato un forte sviluppo alla frutticoltura portando acqua dove non era disponibile.

Dai primi impianti a scorrimento si sono avute diverse evoluzioni della tecnica irrigua come gli impianti a pioggia degli anni ’80 e la loro rapida conversione a impianti a goccia (irrigazione localizzata sul filare) operata negli ultimi 10 anni. Di pari passo, oltre agli impianti irrigui, sono stati modificati anche gli impianti di melo: dai portinnesti franchi si è passati a quelli più contenuti presenti ai giorni nostri (denominati tecnicamente MM111, M106, M7, M26, M9). Negli anni ’90 sono state introdotte le prime piante con rami anticipati2 provenienti dall’Olanda e dal Belgio, che hanno permesso di avere frutteti competitivi in breve tempo. Anche il numero di piante a ettaro è stato modificato: con sesti d’impianto 3.20 x 0.8/0.9 m si possono mettere a dimora circa 3500 piante/ha che entrano in produzione già dal secondo anno. Il frutteto specializzato odierno facilita le operazioni colturali e la meccanizzazione, e permette di avere produzioni qualitativamente e quantitativamente competitive a livello mondiale. La difesa fitosanitaria è oggi più semplice grazie alla taglia contenuta dei meli e all’evoluzione e a una facilitata distribuzione dei prodotti fitosanitari.

Le prime notizie varietali sul melo le abbiamo in una corrispondenza del 1739 fra nobili di Cles, in Valle di Non, e nobili viennesi. In essa sono richiesti da questi ultimi i pomi rosmarini, una varietà autoctona che si è poi diffusa sia nelle aree mitteleuropee che del centro-nord d’Italia con una cultivar bianca e una rossa meno pregiata. Solo dalla metà dell’Ottocento, in un rapporto sullo stato dell’agricoltura in Trentino dovuto ad Agostino Perini, abbiamo un elenco delle varietà di mele coltivate a quei tempi. In questo rapporto, nella constatazione di una generale arretratezza dell’agricoltura, non mancavano aspetti positivi. Questi erano soprattutto riferiti a una fiorente coltivazione di frutta di ogni specie nel paese di Revò (Valle di Non) della quale si faceva commercio anche in paesi lontani. Circa l’elenco, nel quale si citano diciotto varietà, si osserva che esse erano sicuramente di più. Le varietà dell’elenco si possono così raggruppare: A. varietà di mele ancor oggi esistenti in Trentino e denominate come

allora ovvero (1) mantovani, (2) calamani, (3) massanzeri, (4) dolzani e (5) rosmarini. Esclusi i mantovani, di cui esistono ancora un centinaio

2 sviluppati da gemme pronte che si formano in primavera fino all'inizio dell'estate, germogliano nella stessa stagione formando ramificazioni laterali sui germogli dell'anno

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