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Chemioterapia della malattia in fase avanzata (stadio III – IV FIGO) I primi studi effettuati su pazienti con malattia in stadio avanzato avevano

2.10. Storia naturale

2.11.6 Chemioterapia della malattia in fase avanzata (stadio III – IV FIGO) I primi studi effettuati su pazienti con malattia in stadio avanzato avevano

dimostrato un aumento della sopravvivenza nelle pazienti trattate con regime di combinazione cisplatino e ciclofosfamide. [65 – 66 – 67].

Negli anni ’90 due ampi studi clinici randomizzati hanno dimostrato che la terapia combinata con cisplatino e paclitaxel offriva risultati migliori in termini di sopravvivenza, rispetto al regime terapeutico fino ad allora utilizzato. Studi ancora successivi hanno dimostrato che la sostituzione del carboplatino al cisplatino, nella combinazione con il paclitaxel, aveva la stessa efficacia terapeutica, a fronte di un

migliore profilo di tossicità.

Lo schema di somministrazione prevede infusione di carboplatino AUC 5-7.5 e paclitaxel 175 mg/m2 (infusione di 3 ore) ogni 3 settimane per 6 cicli.

Tuttavia, sebbene questo rappresenti lo schema terapeutico standard, va tenuto di conto che statisticamente il 75% delle pazienti con malattia avanzata recidiva entro 2 anni, con una sopravvivenza a 5 anni inferiore al 35%.

Da questo si evince la necessità di apportare delle modifiche alla terapia e in questo senso sono stati condotti alcuni studi clinici randomizzati i quali hanno dimostrato che l’aggiunta di un terzo agente chemioterapico quali la doxorubicina liposomiale, la gemcitabina o il topotecan a regime con carboplatino e paclitaxel non aggiungono alcun vantaggio in termini di sopravvivenza libera da malattia. [68]

Terapia anti-angiogenetica e a bersaglio molecolare:

Le nuove frontiere della farmacologia in ambito oncologico sono rappresentate dagli studi sulla “target therapy” che rappresenta una prospettiva molto promettente, viene analizzata con particolare attenzione la terapia anti- angiogenetica.

La neoangiogenesi rappresenta infatti un elemento fondamentale e imprescindibile per la proliferazione, la crescita e la diffusione del tumore.

L’interazione tra il VEGF e i suoi recettori (VEGFR 1-2-3) ne costituisce un elemento essenziale, l’aumento dell’espressione di VEGF, infatti, è stato dimostrato essere un fattore prognostico negativo nel carcinoma ovarico poiché associato alla progressione tumorale e alla riduzione della sopravvivenza.

Studi condotti da Napoleone Ferrara in questo ambito hanno portato alla scoperta del primo (e più studiato) farmaco anti-angiogenetico usato in chemioterapia, il bevacizumab, un anticorpo monoclonale diretto contro il VEGF-A.

i risultati dello studio di fase III “OCEANS”, lo studio ha valutato l'uso dell'antiangiogenetico in combinazione con la chemioterapia (carboplatino e gemcitabina) seguito dall'uso continuato di beva in monoterapia in donne affette da carcinoma ovarico sensibile al platino precedentemente trattato (ricorrente). Le donne trattate con bevacizumab hanno riportato una riduzione pari al 52% del rischio di progressione della malattia rispetto alle donne trattate con sola chemioterapia. [69 – 70]

In termini di sopravvivenza globale, invece, un beneficio statisticamente significativo si riscontra solo nelle pazienti in stadio III e IV con malattia residua > 1cm. Considerando questi risultati, gli effetti collaterali e l’elevato costo, il bevacizumab non costituisce ad oggi una opzione terapeutica standard per tutti gli stadi FIGO, ma il suo utilizzo in combinazione con carboplatino e paclitaxel per 6 cicli e successivo mantenimento per 15 mesi, è stato approvato dall’EMA (European Medical Agency) per le pazienti in stadio IIIB-IV.

Uno studio multicentrico randomizzato di fase 3, il MITO-MANGO 2, si è proposto l'obiettivo primario di valutare se l'aggiunta di bevacizumab alla chemioterapia nelle pazienti pretrattate con composti di derivazione del platino e platino-sensibili, possa prolungare la SLP delle pazienti rispetto alla sola chemioterapia.

Nuove prospettive, nella terapia anti-angiogenetica, sono offerte da farmaci diretti contro altri fattori e vie angiogenetiche implicate nella progressione del carcinoma ovarico e nella resistenza alla terapia anti-VEGF.

Il pazopanib e il vergatef (BIBF1120), infatti, contrastano l’angiogenesi inibendo il recettore del VEGF (VEGFR-1, -2 e -3), il recettore per il platelet derived growth factor (PDGFR-α e -β) e il recettore per il fibroblast growth factor (FGFR- 1 e -3); il trebanabib, invece, blocca l’angiogenesi inibendo i recettori per l’angiopoietina 1 e 284.

Rivestono particolare importanza i nuovi inibitori del check-point del ciclo cellulare, il maggiore esponente di questo gruppo di molecole è la trabectedina, farmaco efficace nel trattamento di seconda linea del carcinoma ovarico recidivante.

I risultati di un trial di fase III, OVC – 3006, condotto a Milano da Colombo e al. hanno evidenziato che l'associazione di trabectedina e doxorubicina liposomiale pegilata in pazienti con tumore parzialmente sensibile al platino migliora l'OS, da 16,4 mesi del trattamento in monotererapia con doxorubicina liposomiale pegilata a 22,4 mesi del trattamento combinato trabectedina – doxorubicina .

Inoltre, un secondo studio ha dimostrato che questo regime di seconda linea seguito da trattamento con platino è in grado di prolungare di 9 mesi l'OS rispetto alla sola doxorubicina liposomiale pegilata (27,7 mesi contro 18,7 mesi), con una riduzione di mortalità del 42%.

Uno studio del 2015 randomizzato e multicentrico, il CORAIL ha valutato la sicurezza e l'attività di una nuova molecola, la lurbinectedina, nelle pazienti affette da carcinoma ovarico platino – resistente. Sono state arruolate 420 donne con malattia non resecabile, è stata valutata l'attività di questo farmaco e se è in grado di migliorare la SLP a confronto con il regime a base di topotecan o doxorubicina liposomiale pegilata; dati preliminari di fase II dimostravano già un miglioramento della SLP da 1,7 mesi del solo topotecan a 5,7 mesi.

Il limite principale di questo nuovo schema a base di Lurbinectedina è che non abbiamo un dato preciso riguardante le tossicità del trattamento.

Un’altra strategia presa in esame è stata la somministrazione di chemioterapia ad alta intensità di dose (“dose dense therapy”). Questo schema terapeutico prevede la somministrazione di farmaci a dosi minori, ma a intervalli ravvicinati, al fine di raggiungere elevate concentrazioni che permettano di superare l’eventuale chemioresistenza sviluppata dal tumore.

Uno studio giapponese NOVEL, ha dimostrato che pazienti trattate con paclitaxel 80 mg/m2 settimanale e carboplatino AUC 6 ogni 3 settimane, avevano una OS e SLP superiore rispetto a quelle sottoposte a terapia standard [86].

Tuttavia, nonostante questi buoni risultati, la chemioterapia ad alta intensità di dose non è stata adottata in maniera diffusa a causa della tossicità determinata e le possibili differenze farmacogenetiche esistenti tra le popolazioni giapponesi e quelle caucasiche.

Alcuni studi sulla popolazione occidentale (MITO-7) sembrano, infatti, indicare che non ci sono differenze significative in termini di SLP tra la terapia standard e la dose - dense therapy.