• Non ci sono risultati.

CLAUSOLA PENALE E CAUSA DEL CONTRATTO

ALTRE SENTENZE DA STUDIARE

15) CLAUSOLA PENALE E CAUSA DEL CONTRATTO

99

15) CLAUSOLA PENALE E CAUSA DEL CONTRATTO.

Cassazione civile, sez. II, 24 aprile 2018, n. 10046

Fatto

RILEVATO IN FATTO

Con sentenza depositata il 24 dicembre 2008, il Tribunale di Genova, pronunciando sulla domanda proposta dalla T.N.I. s.r.l. nei confronti dell'A.P.I. s.p.a. (e con l'intervento della Emme-P s.r.l.), l'accoglieva dichiarando che: - con atto per notaio C. del 16 maggio 1985, era stata costituita una servitù di passo pedonale e veicolare gravante sul terreno, sito in (OMISSIS), in favore dell'immobile, ubicato in (OMISSIS), da esercitarsi secondo le modalità previste ai punti a) e b) dello stesso atto costitutivo; - che l'attrice T.N.I. s.r.l., priva della disponibilità della proprietà comunale individuata con la "part. (OMISSIS)", aveva diritto di esercitare la servitù di passo sulla porzione del fondo servente compresa nel perimetro A-E-F-G-H-D-A e che la convenuta A.P.I. s.p.a. era tenuta a consentire l'esercizio della servitù secondo le descritte modalità; - condannava A.P.I. s.p.a. al pagamento della somma pattuita a titolo di penale nella misura di Lire 5.000.000 mensili a decorrere dall'11 maggio 2001 e fino al novembre 2006, oltre rivalutazione e interessi dovuti al saldo; - condannava la convenuta e l'interventrice al pagamento, con vincolo solidale, delle spese giudiziali.

Decidendo sull'appello formulato dall'A.P.I. s.p.a. e nella resistenza dell'appellata T.N.I. s.r.l. oltre che nella costituzione della Emme-P s.r.l., la Corte di appello di Genova accoglieva il gravame limitatamente alla riduzione ad equità dell'ammontare della penale (determinandola nella misura mensile di Euro 500,00), rigettandolo nel resto e compensando integralmente tra le parti le spese del giudizio di secondo grado. A sostegno dell'adottata decisione, la Corte genovese dichiarava l'infondatezza del motivo con cui si contestava l'esistenza della servitù a favore della T.N.I. s.r.l., siccome essa risultava essere stata costituita con il suddetto atto notarile, nonchè delle doglianze relative all'applicazione e rivalutazione della riconosciuta penale, siccome avente natura accessoria rispetto alla costituzione della servitù e pienamente rispondente alla ratio della previsione contrattuale, nel mentre - come già evidenziato accoglieva la censura concernente l'entità della penale stessa, da ricondurre ad equità nella riportata misura di Euro 500,00 mensili, poichè più adeguata alle circostanze del caso concreto e proporzionata alla gravità dell'inadempimento e delle conseguenze che ne erano derivate.

Diritto

100

CONSIDERATO IN DIRITTO

Avverso la suddetta sentenza di appello ha proposto tempestivo ricorso per cassazione la T.N.I. s.r.l.

articolato in tre complessi motivi, al quale ha resistito con controricorso - contenente anche ricorso incidentale riferito ad un unico motivo - l'intimata A.P.I. s.p.a., mentre la s.r.l. Emme-P non ha svolto attività difensiva in questa sede.

Con la prima doglianza la ricorrente principale ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 101,112,113,114 e 345 c.p.c. e dell'art. 24 Cost. (ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la nullità della sentenza e/o del procedimento (in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) ed il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (con riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), avuto riguardo alla prospettata erroneità del presupposto sul quale era stata fondata la pronuncia impugnata, ovvero in ordine alla circostanza che l'appellante avesse svolto domanda di riduzione della penale (poi effettivamente accolta all'esito del giudizio di secondo grado con ridimensionamento della penale stessa secondo equità), con ciò eccedendo gli effetti limitati della domanda formulata dall'A.P.I., che non conteneva tale richiesta e per la quale essa T.N.I. s.r.l. non era stata evocata in giudizio.

Con la seconda censura, la T.N.I. s.r.l. ha prospettato - in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) - la violazione e falsa applicazione degli artt. 1382,1384,2727 e 2729 c.c., art. 2 Cost. e degli artt.

1174, 1175, 1321, 1323, 1375, 1470 e 1538 c.c., oltre al vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (correlato all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), avuto riguardo alla assunta insussistenza dei presupposti, previsti dall'art. 1384 c.c., per poter pervenire alla riduzione della penale in via equitativa.

Con il terzo motivo la ricorrente principale ha dedotto la violazione degli artt. 91,92 e 112 c.p.c. e degli artt. 1382 e 1384 c.c. (ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) congiuntamente all'omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), in relazione alla disposta compensazione, da parte del giudice di appello, delle spese del secondo grado di giudizio.

Con l'unico motivo di ricorso incidentale l'A.P.I. s.p.a. ha denunciato - ponendo testuale riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 - la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1382,1384 e 832 c.c., sul presupposto che la Corte territoriale, dopo aver correttamente accertato e dichiarato la mancata interclusione del fondo di proprietà della T.N.I. s.r.l., aveva erroneamente riconosciuto, seppure in maniera equitativamente ridotta, l'applicabilità della disposta penale, che, invece, avrebbe dovuto essere esclusa alla stregua della sua efficacia meramente obbligatoria, allegando che, in ogni

101

caso, non avrebbe potuto essere rivalutata in relazione al disposto di cui all'art. 1382 c.c..

Il P.G., in persona del Sostituto Procuratore Gianfranco Servello, ha tempestivamente depositato le sue conclusioni ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c., comma 1, con le quali ha chiesto il rigetto di entrambi i ricorsi. Anche i difensori di entrambe le parti hanno depositato le loro rispettive memorie in applicazione della medesima disposizione normativa.

Occorre osservare, in via pregiudiziale, che nella sua memoria la difesa della ricorrente principale ha eccepito la nullità e/o inammissibilità dell'avverso controricorso (contenente anche ricorso incidentale) assumendo la carenza dei relativi poteri in capo al procuratore speciale Dr. D.M. di rappresentare la s.p.a. A.P.I. nel presente giudizio, sul presupposto che con la procura speciale notarile dell'11 luglio 2013 (allegata all'atto di costituzione) era stata a lui conferita (cfr. clausola n. 15 della stessa procura) la legittimazione, al fine di eventuali liti, a rappresentare la società "limitatamente a quanto inerenti le attività di distribuzione carburanti, le attività collaterali e non oil, in tutte le pratiche, nessuna esclusa ed eccettuata, nonchè in ogni stato e grado di giudizio avanti a tutte le giurisdizioni, sia ordinarie che straordinarie, col potere di nominare e revocare avvocati e procuratori per la difesa della società, di sottoscrivere all'uopo qualsivoglia atto o documento, e di accettare e sottoscrivere concordati e transazioni sia giudiziali che stragiudiziali", con la derivante esclusione del potere di rappresentanza nella controversia in questione, senza trascurare che la stessa procura con conteneva l'esplicita attribuzione del potere di rappresentanza dinanzi alla superiore giurisdizione di legittimità.

Ritiene il collegio che l'eccezione deve essere disattesa perchè il contenuto della procura involge il conferimento del potere di rappresentanza in capo al designato procuratore speciale con riferimento a tutte le pratiche, anche processuali, riguardanti la tutela delle attività commerciali proprie dell'A.P.I.

s.p.a. e, quindi, anche di quelle correlate a consentire l'esercizio di dette attività sul piano della logistica immobiliare e della utile fruizione degli spazi di insediamento degli inerenti impianti, a cui è, per l'appunto, riferibile anche la controversia pervenuta al vaglio di questa Corte.

Il potere di rappresentanza attribuito al procuratore speciale della suddetta società è, poi, da intendersi univocamente esteso anche alle cause da intentarsi dinanzi alla giurisdizione di legittimità, dal momento che nel testo della procura è chiaramente affermato che esso era stato assegnato "per ogni stato e grado di giudizio avanti a tutte le giurisdizioni ordinarie e straordinarie", in esse dovendosi, perciò, ricomprendere anche il giudizio di cassazione.

Ciò chiarito, ad avviso del collegio, occorre, in primo luogo, procedere all'esame dell'unico motivo di ricorso incidentale, in quanto esso attiene alla contestazione, a monte, della legittimità del riconoscimento del pagamento della penale in favore della T.N.I. s.r.l., che ha proposto ricorso in via

102

principale riferito, invece, a censure che investono la riduzione della penale stessa operata con la sentenza qui impugnata. La decisione del motivo di ricorso incidentale riveste, dunque, carattere di priorità sul piano logico-giuridico, connotandosi il suo esame come preliminare rispetto a quello dei motivi di ricorso principale.

Con il formulato ricorso incidentale l'A.P.I. s.p.a. - come già evidenziato - ha sostenuto, con un'unica doglianza, sia di non essere tenuta al pagamento della penale (per aver escluso il giudice di appello l'interclusione del fondo e, quindi, non sussistendone il relativo presupposto) sia che la penale stessa non fosse, comunque, trasmissibile in favore degli acquirenti successivi del fondo dominante, avendo natura meramente obbligatoria.

Rileva il collegio che il motivo è privo di fondamento e deve, perciò, essere respinto.

Si osserva, infatti, che - come ha statuito la Corte di appello - la specifica pattuizione che prevedeva la clausola penale era stata inserita, nel contesto del contratto principale, a garanzia dell'eventuale ritardo nell'assolvimento degli obblighi imposti in capo al titolare del fondo servente (poi intervenuto, in via definitiva, solo nel novembre 2006 con la demolizione totale degli impedimenti ostativi al comodo esercizio della costituita servitù), nell'atto costitutivo del diritto di servitù di passaggio ed era stata introdotta allo scopo appunto di rafforzare e tutelare l'attuazione del diritto con relativo patto, da parte dei contraenti originari, a favore di tutti gli acquirenti del fondo dominante, che fossero subentrati nella titolarità del diritto reale costituito (per come era reso evidente dal riferimento anche agli aventi causa dei compratori originari del fondo dominante). E questa volontà aveva ricevuto attuazione anche negli atti di trasferimento della proprietà del fondo dominante successivi alla costituzione della servitù e, quindi, anche nel titolo di acquisto da parte della T.N.I. a rogito per notar L. del 28/2/2001 che, pur non ponendo espresso riferimento alla clausola penale, doveva intendersi che la ricomprendesse nell'aver avuto riguardo a tutti i diritti (e, quindi, anche a quelli di natura obbligatoria fondati su clausole accessive al contenuto principale previsto nel titolo costitutivo originario del diritto reale, come, per l'appunto, la clausola penale da ritenersi, oltre che validamente contemplata, ancora efficace per la protrazione nel ritardo nell'adempimento dell'obbligo - a cui presidio era stata approntata dai contraenti originari - soddisfatto in via definitiva soltanto nel corso del giudizio intentato dalla T.N.I. s.r.l. nei confronti dell'A.P.I. s.p.a.) inerenti alla tutela della proprietà del fondo, anche di natura reale, alle pertinenze, servitù attive e passive, nulla riservato alla parte venditrice.

Non coglie nel segno, perciò, la censura della ricorrente incidentale secondo cui, con la decisione adottata, la Corte genovese aveva inteso attribuire un'efficacia "erga omnes" ad una clausola penale,

103

la quale, invece, non avrebbe potuto che essere dotata di effetti obbligatori e non afferire ad un'actio in rem, esperibile contro chiunque, con la conseguenza che non si sarebbe potuto estendere a terzi estranei - diversi dai contraenti originari l'effetto esclusivamente obbligatorio della clausola penale.

Deve, innanzitutto, ricordarsi che la clausola penale è un patto accessivo ad un contratto con funzione sia di coercizione all'adempimento sia di predeterminazione della misura del risarcimento in caso di inadempimento, con la conseguenza che essa, a norma dell'art. 1453 c.c., comma 1, trova applicazione sia nell'ipotesi che il contraente chieda la risoluzione del contratto sia in quella che egli proponga domanda volta a conseguire l'esecuzione coatta del negozio e vale unicamente come liquidazione convenzionale del danno fissata antecedentemente dalle parti.

Partendo da questo presupposto va sottolineato - correggendo in tale parte, ai sensi dell'art. 384 c.p.c., u.c., la motivazione della sentenza impugnata (risultando, invece, il dispositivo sul punto conforme al diritto) che alla clausola penale deve essere riconosciuta una propria causa, distinta da quella del contratto cui afferisce, con la conseguenza che essa non può essere equiparata a qualsiasi altra clausola del contratto principale, ma assume, anche secondo gli indirizzi dottrinali maggiormente convincenti, una sua rilevanza contrattuale autonoma, anche se collegata e complementare al contratto nel cui contesto si inserisce (v. Cass. n. 2036/1960 e Cass. n. 486/1964), la cui eventuale invalidità ed inefficacia travolge anche la clausola penale. L'autonomia della clausola penale rispetto al contratto cui aderisce rende, perciò, pacificamente ammissibile una sua pattuizione per le obbligazioni contrattuali e, quindi, anche con riferimento alla conclusione dei contratti da cui scaturisce la costituzione di diritti reali, con la possibilità che ove la causa giustificatrice persista, come nella specie - l'efficacia della stessa si trasmette anche a vantaggio degli aventi causa della parte a cui favore era stata originariamente approntata sull'accordo delle parti nella successiva circolazione del bene a cui afferisce il diritto reale costituito a mezzo convenzione assistita dalla garanzia dell'operatività della suddetta clausola.

Più specificamente, in relazione alla fattispecie che qui viene in rilievo, deve porsi in risalto che la prestazione accessoria ricollegabile alla clausola penale nel titolo di costituzione della servitù può essere ricompresa nell'alveo dell'applicabilità dell'art. 1030 c.c., che consente l'imposizione - per legge o per convenzione intercorsa tra le parti (come nel caso in esame) - di una prestazione di facere in capo al proprietario del fondo servente (l'A.P.I. s.p.a., nel giudizio in questione) avente ad oggetto un'attività ulteriore da compiersi o prima che la servitù inizi ad essere esercitata (ad es.: atti volti a conferire al fondo la configurazione e l'assetto necessari per consentire l'esercizio della servitù) ovvero - come nella fattispecie che qui ci occupa - anche in un momento successivo (prestazione a

104

garanzia del cui completo e definitivo adempimento era stata concordata, per l'appunto, la clausola penale).

In altri termini, la suddetta prestazione accessoria imposta al proprietario del fondo servente dalla legge o dal titolo non entra propriamente a far parte del contenuto della servitù, ma costituisce oggetto di una obbligazione propter rem autonoma, ancorchè ad essa accessoria. Tra questa obbligazione (il cui adempimento può, perciò, essere tutelato mediante la previsione di una clausola penale contestuale all'accordo concluso) e la servitù sussiste, tuttavia, una relazione strumentale inscindibile, tale per cui essa ha ragion d'essere e risulta opponibile ai terzi solo se ed in quanto esiste ed è opponibile la servitù (Cass. n. 5129/1983), si trasferisce insieme alla servitù cui è accessoria (Cass.

n. 3221/1981) e si estingue se viene a cessare quest'ultima. Per altro verso, la suddetta obbligazione esiste soltanto se risulta dal titolo costitutivo della servitù ed è opponibile a terzi solo se nella trascrizione dello stesso titolo costitutivo del diritto di servitù viene fatta apposita menzione della clausola concernente le prestazioni accessorie. Queste ultime sono, per l'appunto, qualificabili come obligationes propter rem (e non come obbligazioni personali e, quindi, "non ambulatorie") allorchè abbiano un contenuto di facere funzionale al perseguimento dello scopo di consentire che la servitù inizi ad essere esercitata, mentre, quanto agli obblighi aventi ad oggetto prestazioni da eseguirsi (da parte del proprietario del fondo servente) dopo che la servitù ha iniziato ad essere esercitata (come nel caso oggetto della controversia qui in esame), e fintantochè detto esercizio perdura, possono configurarsi come obbligazioni propter rem ad essa accessorie soltanto quellCaventi ad oggetto prestazioni di fare strumentali all'esercizio di una servitù affermativa.

Sulla base di questa impostazione dogmatica consegue che la mancata o inesatta esecuzione della prestazione accessoria imposta dalla legge o dal titolo in capo al proprietario del fondo servente fa sorgere in capo a quest'ultimo l'obbligazione di risarcire i danni che siano derivati al proprietario del fondo dominante, il che giustifica la legittimità della pattuizione di una clausola penale accessoria con la quale le parti intendano - come è avvenuto nel caso di specie - predeterminare tale misura risarcitoria nel quantum e nella durata, trattandosi di un inadempimento contrattuale (art. 1218 c.c.), posto che si verte in tema di inadempimento di una prestazione dedotta in un'obbligazione propter rem (con l'effetto che il diritto al risarcimento del danno è soggetto alla prescrizione decennale e il titolare della servitù del fondo dominante non ha l'onere di provare che la mancata esecuzione della prestazione è imputabile a dolo o colpa del proprietario del fondo servente).

Respinto il (pregiudiziale) motivo di ricorso incidentale, si può passare all'esame dei motivi formulati con il ricorso principale.

105

Con la sua prima censura la T.N.I. s.r.l. ha dedotto - nei sensi in precedenza richiamati - l'illegittimità dell'impugnata sentenza della Corte di appello di Genova nella parte in cui era stato ritenuto che l'appellante avesse svolto domanda di riduzione della penale, con ciò eccedendo gli effettivi limiti della domanda della stessa appellante, che non conteneva siffatto "petitum" e per la quale essa T.N.I.

non era stata evocata in giudizio.

Rileva il collegio che la riferita doglianza è infondata e va rigettata nei termini che seguono.

Effettivamente - esaminando anche il contenuto dell'atto di appello dell'A.P.I. s.p.a. (ammissibile anche in questa sede trattandosi della deduzione di un vizio processuale) - non sembra che essa avesse chiesto, oltre al rigetto integrale delle pretese di parte avversa, anche la riduzione della penale, alla quale la Corte di appello ha provveduto sul presupposto della "ritenuta" proposizione di una domanda in tal senso, per come sembra evincersi anche dal contenuto inequivoco del dispositivo della medesima sentenza di appello.

Tuttavia, se è vero che nel dispositivo (laddove risulta testualmente statuito, al punto 2, "accoglie la sola doglianza dell'appellante che attiene all'ammontare della penale") il giudice di appello sembri attestare che una domanda di riduzione della penale fosse stata proposta (e lo sarebbe stata, ipoteticamente, anche per la prima volta in appello: v., ad es., Cass. n. 21297/2011), pur non risultando riscontrata dagli atti questa circostanza, dal passaggio della motivazione sul punto (pag. 5 della sentenza) si evince univocamente che la Corte di appello ha inteso esercitare il suo potere di riduzione d'ufficio della penale in via equitativa, come ammesso dall'art. 1384 c.c., laddove, dopo aver dato atto dei presupposti per l'applicazione della penale, ha ritenuto che "pareva giusto ridurre ad equità la penale, rispetto alla previsione contrattuale, rideterminandola nella somma - più adeguata alle circostanze del caso concreto e proporzionata alla gravità dell'inadempimento e delle conseguenze che erano derivate - di euro 500,00 mensili" (a fronte dell'importo di cinquemilioni di Lire per ogni mese di ritardo nell'assolvimento dell'obbligo convenzionalmente previsto).

In tal senso, quindi, deve ritenersi che, in effetti, il giudice di appello ha inteso avvalersi legittimamente del potere di provvedere d'ufficio alla riduzione della penale, che è pacificamente ammesso dalla giurisprudenza di questa Corte in conformità a quanto statuito fin dalla sentenza delle Sez. U. n. 18128/2005 (v., successivamente, anche Cass. n. 22002/2007 e, da ultimo, Cass. n.

25334/2017, ord.).

Anche il secondo motivo proposto dalla ricorrente principale circa l'asserita mancata o inadeguata valutazione - da parte del giudice di appello - dei presupposti per pervenire alla riduzione della penale nella richiamata misura è destituita di fondamento e va respinta.

106

Infatti, la Corte genovese - conformandosi all'obbligo discendente dalla previsione di cui all'art. 1384 c.c., al fine di poter pronunciare la riduzione della penale siccome manifestamente eccessiva (nella misura predeterminata convenzionalmente dalle parti) - ha dato conto di aver rivalutato i presupposti per l'applicazione della clausola penale, evidenziando come essa, in effetti, rinveniva la sua origine causale in una situazione di fatto che non aveva impedito del tutto l'esercizio della servitù, ma lo aveva soltanto diminuito e reso più scomodo, ragion per cui da tale situazione era derivato un danno riconducibile ad una presumibile diminuzione dei ricavi - certamente inferiore a quello concordato preventivamente dalle parti. Pertanto, in virtù delle circostanze concrete ed in applicazione del criterio di proporzionalità alla gravità dell'inadempimento e delle conseguenze che ne erano derivate, la Corte territoriale ha adeguatamente giustificato la sua decisione di pervenire alla riduzione della penale nell'anzidetta misura, ponendo anche riguardo all'interesse che il creditore aveva all'adempimento dell'obbligazione garantita dalla clausola penale. Del resto, nella condivisa giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 6158/2007 e Cass. n. 2231/2012), è stato già affermato che l'apprezzamento sulla eccessività dell'importo fissato con clausola penale dalle parti contraenti, per il caso di inadempimento o di ritardato adempimento, nonchè sulla misura della riduzione equitativa dell'importo medesimo, rientra nel potere discrezionale del giudice di merito il cui esercizio è incensurabile in sede di legittimità, se correttamente fondato, a norma dell'art. 1384 c.c., sulla valutazione dell'interesse del creditore all'adempimento con riguardo all'effettiva incidenza dello stesso sull'equilibrio delle prestazioni e sulla concreta situazione contrattuale, indipendentemente da una rigida ed esclusiva correlazione con l'entità del danno subito.

Anche il terzo ed ultimo motivo del ricorso (relativo alla contestata compensazione delle spese del giudizio di appello) non merita accoglimento, poichè la disposta compensazione totale delle spese giudiziali del secondo grado di giudizio è stata motivatamente fondata dalla Corte territoriale sul presupposto della ravvisata reciproca soccombenza delle parti rispetto all'oggetto principale del

Anche il terzo ed ultimo motivo del ricorso (relativo alla contestata compensazione delle spese del giudizio di appello) non merita accoglimento, poichè la disposta compensazione totale delle spese giudiziali del secondo grado di giudizio è stata motivatamente fondata dalla Corte territoriale sul presupposto della ravvisata reciproca soccombenza delle parti rispetto all'oggetto principale del