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Da CO, La Verna, II Ritorno, paragrafo 10, pp 146-148:

Presso Campigno (26 Settembre) 10. […]

………... Laggiù nel crepuscolo la pianura di Romagna. O donna sognata, donna adorata, donna forte, profilo nobilitato di un ricordo di immobilità bizantina, in linee dolci e potenti testa nobile e mitica dorata dell’enigma delle sfingi: occhi crepuscolari in paesaggio di torri là sognati sulle rive della guerreggiata pianura, sulle rive dei fiumi bevuti dalla terra avida là dove si perde il grido di Francesca: dalla mia fanciullezza una voce liturgica 5

risuonava in preghiera lenta e commossa: e tu da quel ritmo sacro a me commosso sorgevi, già inquieto di vaste pianure, di lontani miracolosi destini: risveglia la mia speranza sull’infinito della pianura o del mare sentendo aleggiare un soffio di grazia: nobiltà carnale e dorata, profondità dorata degli occhi: guerriera, amante, mistica, benigna di nobiltà umana antica Romagna.

………... 10

[…]

Il percorso di ritorno dal santuario in vetta alla Verna è cominciato e Campana ormai è di nuovo nei pressi di Campigno. Così come la via è quella dell’andata, anche i riferimenti e i ricordi letterari si ripetono. Nella parte citata del paragrafo 10 la mente di Dino sembra riandare di nuovo al canto V dell’Inferno – d’altronde l’aveva già detto nel manoscritto del Più lungo giorno all’inizio della seconda parte della sezione che la «poesia di movimento» dantesca aveva come esempio lampante questo famosissimo canto infernale – ma con alcune variazioni rispetto a quanto detto nella

Notte.

 Innanzitutto, Campana apre il passo nominando esplicitamente il luogo in cui si trova, lo stesso dove sono vissuti – e morti – Paolo e Francesca: «Laggiù nel crepuscolo la pianura di Romagna» (riga 2). Poi a metà del passo vi è la «preghiera lenta e commossa» (r. 6) che «risveglia la mia speranza sull’infinito della pianura o del mare sentendo aleggiare un soffio di grazia» (r. 7-8) con cui il poeta sin dalla «fanciullezza» (r. 5) invoca l’intervento della chimerica «donna sognata» (r. 2), la poesia. Questa frase è utile perché serve ad introdurre le caratteristiche fisiche di quella terra che si trova tra la «pianura» e il «mare» (r. 7) – e il ricordo corre alla terzina di If V 97-99 «Siede la terra dove nata fui / sulla marina dove ‘l Po discende / per aver pace co’ seguaci sui» – mentre la frase conclusiva ne offre anche le qualità morali poiché dice che la «Romagna» è «guerriera, amante, mistica, benigna di nobiltà umana antica» (r. 9). Ogni punto della definizione va spiegato con un riferimento preciso alla Commedia. Intanto, la terra romagnola è detta «guerriera» (r. 8) così come in If XXVII 37-38 in cui Dante conferma all’anima di Guido da Montefeltro – il quale gliene chiede notizia parlando dall’interno della fiamma in cui è condannato a stare per l’eternità, essendo stato un consigliere fraudolento – che «Romagna tua non è, e non fu mai, / sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni». Poi è «amante» (r. 9), certamente con riferimento alla vicenda di Paolo e Francesca, e «mistica» (r. 9) per il fatto che due grandi spiriti del Paradiso, Pier Damiano e il frate benedettino Romoaldo – l’uno, dopo aver lasciato l’attività forense per farsi monaco ed esser diventato cardinale, fu dedito alla vita contemplativa forse proprio nel monastero di Santa Maria in Porto presso Ravenna43; l’altro, che era ravennate, fu il fondatore dell’ordine dei Camaldolesi – vi dimorarono e poterono assurgere a santità proprio in virtù di quei luoghi

– si vedano rispettivamente i versi 106-126 del canto XXI del Paradiso e la terzina ai versi 49-51 del canto seguente. Infine, quella terra è definita «benigna di nobiltà umana antica» (r. 9) con richiamo a due passi del canto XIV del Purgatorio che indicano prima la situazione della Romagna attuale e poi quella del passato:

Oh Romagnuoli tornati in bastardi! (Pg XIV 99) le donne è cavalier, li affanni e li agi

che ne ‘nvogliava amore e cortesia

là dove i cuor son fatti sì malvagi. (Pg XIV 109-111)

In questo caso la citazione non è rintracciabile a livello letterale, ma fa riferimento all’atmosfera generale dei due passi messi a confronto.

 Già alcune righe prima Campana aveva introdotto la caratteristica di bellicosità della regione ravennate definendola «guerreggiata pianura» – con riferimento ai versi appena citati sia di If XXVII 37-38 sia di Pg XIV 109-111 – ma la frase merita di essere analizzata in blocco. Essa recita: «O donna sognata, donna adorata, donna forte, profilo nobilitato di un ricordo di immobilità bizantina […] occhi crepuscolari in paesaggio di torri là sognati sulle rive della guerreggiata pianura, sulle rive dei fiumi bevuti dalla terra avida là dove si perde il grido di Francesca». La «donna forte» e nobile di cui si parla è sempre la Chimera campaniana, però in relazione di nuovo alla Francesca dantesca, espressamente nominata ancora una volta per mezzo del suo «grido» – si veda a tal proposito If V 87 in cui «l’affettuoso grido» è quello di Dante, ma vi risponde ovviamente quello ancor più amorevole dell’eroina romagnola che «vola» a parlare con lui insieme all’amato – che può essere inteso sia come segno di gioia e d’amore vissuto con Paolo sia come urlo di dolore e di morte perpetrata dal marito nei confronti dei due amanti. A differenza del passo corrispondente della Notte, il verbo cambia: lì il «grido» si spegneva mentre qui «si perde» con un senso lievemente mutato, come se tra quei «fiumi bevuti dalla terra avida» – per i quali il richiamo va al verso 99 dello stesso canto – la voce di Francesca rimanesse inascoltata fino a “perdersi”, appunto, nel paesaggio naturale di una terra troppo abituata alla guerra, alla lotta e alla sofferenza per far caso alle grida di un’unica donna.

Insomma, queste poche righe del paragrafo 10 riassumono un’immagine forte, il ricordo della Francesca dantesca e con lei di tutte le «barbare regine antiche» (par. 7) che il “sommo poeta” ha incontrato nel secondo cerchio infernale, le quali rappresentano – insieme alla Notte di Michelangelo – il paragone preferito da Campana per la sua Chimera-poesia. Si tratta dell’ultimo riferimento diretto all’Alighieri nella sezione della Verna, ma rappresenta anche una ripresa e una chiusura del cerchio che coinvolge le prime tre parti dei Canti Orfici, così lunghe e discorsive, in

cui la scrittura di Dino è ancora aperta, ariosa, larga tanto da far passare rinvii e richiami lampanti ed espliciti – nonché esplicitati per nome. D’ora in poi, benché non mancheranno affatto i riferimenti danteschi, sarà più difficile trovarli e contestualizzarli senza un diretto intervento dell’autore.