Dall’alta ripida china precipite Come movente nel caos d’un turbine Come un movente grido del turbine Come il nocchiero del cuore insaziato.
Bolgia di roccia alpestre: grida di turbe rideste 5
Vita primeva di turbe in ebbrezze: Un bronzeo corpo dal turbine Si dona alla terra con lancio leggero.
Oscilla di vertigine il silenzio dentro la muta catastrofe di rocce ardente d’intorno. – Tu balzi anelante fuggente fuggente nel palpito indomo
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Un grido fremente dai mille che rugge e scompare con te Balza una turba in caccia si snoda s’annoda una turba Vola una turba in caccia Dionisos Dionisos Dionisos.
Questa poesia del manoscritto perduto da Ardengo Soffici nel 1913 – e poi ritrovato dalla moglie nel 1971 – intitolato Il più lungo giorno è una delle poche eliminate nella versione finale dei
Canti Orfici. La vicenda e l’ambientazione della lirica vengono fornite già dal titolo “parlante”
apposto dall’autore, altrimenti sarebbe impossibile riconoscere in quella «turba in caccia» (v. 12) il gruppo di corridori all’inseguimento di chi sta alla testa della corsa di biciclette rappresentativa del nostro paese, ossia il Giro d’Italia. L’evento – che ebbe inizio nel 1909 – suscita un certo fascino già all’epoca di Campana se «un grido fremente dai mille» (v. 11) spettatori si alza al passaggio dei ciclisti e «rugge e scompare» (v. 11) insieme a loro – dove il conteggio dei «mille» è puramente indicativo dell’alto numero di persone ferme sul ciglio della strada ad osservare e incitare i propri beniamini come succede ancor oggi.
Il componimento, benché espunto dall’opera finale, è intessuto di richiami danteschi più e meno espliciti.
La citazione più evidente è quella al verso 5: «Bolgia di roccia alpestre» riporta al sintagma «alpestre rocce» di Pd VI 51 – con una inversione di termini – riferito alle Alpi occidentali da cui discende il fiume Po, mentre il sostantivo «bolgia» è molto usato nell’Inferno dal canto XVII al XXIX per indicare ciascuna delle dieci zone in cui è diviso l’ottavo cerchio di Malebolge, dove sono puniti alcuni tra i peggiori dannati, gli ingannatori. Campana usa questa combinazione di parole per indicare la ripida discesa montana dalla quale “volano” giù i partecipanti al Giro e al loro passaggio fulmineo rispondono «grida di turbe rideste», ossia le incitazioni degli spettatori prima in attesa impassibili e silenziosi come se fossero addormentati, poi improvvisamente svegli e urlanti all’indirizzo dei loro eroi su due ruote. Tornando indietro al verso precedente, compare «il nocchiero del cuore insaziato» (v. 4) con
un’altra convergenza di due citazioni. Il «nocchiero» dantesco più famoso è Caronte che fa transitare il pellegrino e la sua guida al di là del fiume Acheronte proprio all’entrata del regno infernale e che l’autore chiama «nocchier della livida palude» (If III 98). In seguito, il termine si riscontra altre quattro volte: in If VIII 80 il «nocchier forte» è Flegiàs che parla solo tramite urla e che fa loro attraversare la palude fangosa alle porte della città di Dite; in Pg II 43 «Da poppa stava il celestial nocchiero» si riferisce all’angelo che scorta sul suo «vasello snelletto e leggiero» (Pg II 41) le anime dirette al Purgatorio; poi ritroviamo la parola in due similitudini marinaresche, la prima famosissima paragona la «serva Italia» a una «nave sanza nocchiere in gran tempesta» (Pg VI 76-77), la seconda è posizionata in un punto cruciale del Paradiso in cui Dante dichiara tutta la propria impossibilità a parlare di una materia tanto eccelsa e probabilmente fornisce un titolo alternativo alla sua opera. Infatti, il testo recita:
e così, figurando il paradiso, convien saltar lo sacrato poema, come chi trova suo cammin riciso. Ma chi pensasse il ponderoso tema e l’omero mortal che se ne carca, nol biasmerebbe se sott’esso trema:
non è pileggio da picciola barca quel che fendendo va l’ardita prora,
né da nocchier ch’a sé medesmo parca. (Pd XXIII 61-69)
Il sostantivo analizzato si unisce a «cuore insaziato» che ricorda da vicino il sogno dantesco di Vita Nuova III in cui Beatrice, seduta in braccio al dio Amore e vestita di «uno drappo sanguigno», si ciba del cuore innamorato del poeta. Tuttavia, esiste una differenza sostanziale: qui l’aggettivo «insaziato» è riferito al «cuore» del «nocchiero» (v. 4) – ovvero di colui che
tiene il timone della barca – e indica la fame di vittoria dei corridori in testa alla gara che si precipitano giù per la discesa fino all’arrivo a Marradi.
Dall’inizio del componimento compaiono numerosi termini ascrivibili alla Commedia. Il primo è il sostantivo «china» (v. 1) che si trova varie volte – circa una trentina – declinato in forma verbale, specialmente nell’accezione «dichina» in If XXVIII 75, con riferimento alla Pianura Padana, in If XXXII 56, in Pg I 113 e in Pg VII 43-44 dove dice «Ma vedi già come dichina il giorno, / e andar su di notte non si puote», parlando del sole che tramonta e del fatto che presto Dante e Virgilio dovranno sostare perché non è concesso loro salire la montagna del Purgatorio di notte, ma soltanto di giorno. Poi ci sono «grido» (vv. 3, 5 al plurale, 11) e «turbine» (vv. 2, 3, 7) che rinviano ancora una volta al canto V dell’Inferno, cioè all’«affettuoso grido» (If V 87) con cui Dante chiama a sé Paolo e Francesca per conoscere la loro storia e alla «bufera infernal» (If V 31) che sospinge i lussuriosi nel secondo cerchio – in effetti, più volte nei Canti Orfici essa è definita proprio con questo termine. Ancora «turba» (vv. 12, 13) e «turbe» (vv. 5, 6) si trova in undici punti della Commedia – in uno dei quali al plurale – con il significato di “grande gruppo di anime o di persone”, ma altrettante volte è presente come parte del verbo “turbare” variamente coniugato, allo stesso modo di «caccia» (v. 13) che è riscontrabile sia nella funzione di sostantivo che in quella di verbo. Infine, il verbo «vola» (v. 13) riferito alla «turba» dei ciclisti a «caccia» del corridore in testa – «Dionisos Dionisos Dionisos» (v. 13) ripetono il nome in coro gli spettatori esaltati – è un tipico verbo dantesco, ritrovabile nelle sue opere anche nella forma del sostantivo “volo”. Il fatto che anche una breve poesia come questa, giudicata non all’altezza della versione edita dei
Canti e perciò eliminata, presenti un numero tanto alto di allusioni dantesche conferma ancora una
volta che, quando scrive, Dino ha sempre in mente il “sommo poeta” come base da cui partire, come fonte essenziale per le sue immagini. Qui, infatti, sfruttando il lessico e le citazioni analizzate, Campana riesce a dare un’aura sublime a un evento così popolare come una tappa del Giro d’Italia creando da un minimo fatto di cronaca mondana un piccolo gioiello intriso d’alta letteratura.