Pei vichi fondi tra il palpito rosso Dei fanali, sull’ombra illanguidita Al vento di preludio di un gran mare Ricchissimo accampato in fondo all’ombra Che mi cullava di venture incerte
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Io me n’andavo nella sera ambigua Nell’alito salso umano
Tra nimbi screziati sfuggenti In alto da ogive orientali Col caro mare nel petto 10
Col caro mare nell’anima
Or tremo. L’apparizione fu ineffabile Una grazia lombarda in alto sale Ventoso dolce e querula salìa (Vicendavano infaticabilmente 15
Nuvole e stelle nel cielo serale)
L’accompagnava un vecchio combattente Ischeletrito da sorte nemica
Dallo sguardo diritto, umile ed alto:
Gioventù, gioventù ravvolta in veli 20
Luminosi, tradita dalla sorte Giovinetta trafitta che invermiglia Il sangue sulle labbra orribilmente O stretta al magro padre sola figlia. Di sotto il manto rosso del fanale 25
Io l’attesi e la vidi che sul labbro Sul labbro del suo viso macilente Le risplendeva un carminio spettral
O vita sarcastica atroce 30
O miseria nefanda intravista
All’angolo di un vico lubrico nella sera ambigua Al palpitare inquieto dei fanali
Animatrice delle vampe fantastiche Di luce ed ombra vanenti col vento, 35
Di rumori cupi e di silenzii in risacca Pei vichi stretti è vivo solo il rosso Dei fanali le stelle s’avvicendan Colle nubi ed il vecchio si consiglia Per salire alla piazza in alto ardente 40
Di luci e lampi a lui stretta la figlia Nel silenzio caldissimo ambiguo Della notte voluttuosa
Scuotevasi il mare profondo: Era caldo il silenzio sullo sfondo 45
Le navi inermi, drizzate in balzi Terrifici al cielo
Allucinate in aurora
Elettrica inumana risplendente Alla prora per l’occhio incandescente. 50
Un passo solitario,
La città stava sepolta
Nella luce uniforme fiammeggiante E le navi angosciate
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Mi suadevano all’ultima avventura Nella notte di Giugno
Vasta terribile e pura Ritorno inesorabilmente a te Riscossa dal tuo sogno 60
Acqua di mare amaro Che esali nella notte: Verso le eterne rotte Il mio destino prepara
Mare che batti come un cuore stanco 65
Violentato dalla voglia atroce Di un Essere insaziato che si strugge Della sua forza terrifica ardente: Nave che soffri e vegli
Coll’occhio disumano 70
E al destino lontano Sempre sopra del vano Ondeggiare tu pensi E m’arde e m’arde il cuore Nella notte serena
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Che tutta è per voi piena Di fremiti di tombe.
Questo componimento rappresenta probabilmente la prima stesura di Genova – con la versione intermedia del manoscritto Il più lungo giorno – e da esso la lirica finale dei Canti Orfici riprende sia l’atmosfera di fosca ambiguità da cui nasce l’«apparizione» (v. 12) della «grazia» (v. 13) – qui definita «lombarda» (v. 13) – sia una serie di immagini della città ligure che verranno rielaborate in seguito. Altre figure si stagliano sullo sfondo dei «vichi» (v. 1), ossia il «padre» e la «figlia» (v. 24) che si stringono l’uno all’altra e l’«Essere insaziato che si strugge / Della sua forza terrifica ardente» (vv. 66-67), una specie di «superuomo nietzscheano» (OC p. 369) secondo Silvio Ramat, che sembra “battere botte” come nell’omonima poesia degli Orfici dove si riferisce al poeta stesso. Il colore rosso caratterizza la figura della «giovinetta» (v. 22) nel «sangue sulle labbra» (v. 23) e nel «manto rosso del fanale» (v. 25) che la illumina assieme al genitore e ne avvicina l’immagine a Beatrice, che dapprima viene incontrata da Dante a diciotto anni mentre è vestita di rosso (VN II, 3) e poi in sogno gli si presenta ammantata ancora di color «sanguigno» (VN III, 4) e divoratrice del cuore del poeta. Inoltre, l’«apparizione» (v. 12) della «grazia lombarda» (v. 13) è definita da Campana «ineffabile» (v. 12). Il concetto di “ineffabilità” della scrittura ricorre in vari punti della Commedia dantesca – così come in altri componimenti della Vita Nuova e delle Rime – in cui l’autore umilmente dichiara tutta la propria incapacità di trattare una materia tanto elevata oppure ostica per il suo ingegno, perciò spesso è costretto a chiedere aiuto alle Muse della poesia (in If II 7-9 e in Pg I 7-12) o a scomodare l’antico dio dell’arte Apollo (in Pd I 13-15) per dare avvio alle tre cantiche oppure ad
esprimersi tramite metafore e similitudini – come nel già citato passo del «trasumanar significar per
verba» in Pd I 70. Un riferimento più diretto all’Alighieri si ritrova al verso 19 nella dittologia
aggettivale «umile ed alto» che rimanda al verso 2 dell’ultimo canto della Commedia, il quale si apre con la preghiera di San Bernardo alla Vergine Maria affinché assista il pellegrino Dante alla visione finale di Dio:
«Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio, tu se’ colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura. (Pd XXXIII 1-6)
Le prime due terzine danno già l’idea del livello linguistico e figurativo sublime mantenuto per tutto il canto XXXIII del Paradiso, pieno di metafore, figure etimologiche, dittologie ossimoriche come quella ripresa proprio da Campana. Infatti, Maria è una «creatura» allo stesso tempo «umile» perché è solamente una donna umana come tante altre, ma è anche «alta» poiché con le sue doti ha reso nobile «l’umana natura» a tal punto che Gesù Cristo l’ha voluta come madre. Similmente il «vecchio combattente» (v. 17) che accompagna la «grazia lombarda» (v. 13) è «ischeletrito da sorte nemica» (v. 14), ma riesce a mantenere il suo «sguardo diritto, umile ed alto» (v. 19) come chi, pur avendo subito molte avversità nella propria vita, non si lascia abbattere e continua per la propria strada con fierezza e determinazione. Umiltà e altezza sono, perciò, due caratteristiche fondamentali per il marradese così come per il fiorentino.